“Sulla svolta ontologica” a cura di Fabio Dei e Luigigiovanni Quarta
- 05 Gennaio 2024

“Sulla svolta ontologica” a cura di Fabio Dei e Luigigiovanni Quarta

Recensione a: Fabio Dei e Luigigiovanni Quarta (a cura di), Sulla svolta ontologica. Prospettive e rappresentazioni tra antropologia e filosofia, Meltemi, Milano 2021, pp. 374, 24 euro (scheda libro)

Scritto da Linda Dalmonte

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L’antropologia dovrebbe sostituire il termine “cultura” con quello di “ontologia”? Se considerassimo ciò che delle cose i nativi fanno, credono, e descrivono, non come modi di rappresentare, ma – ontologicamente come modi di definire tali cose? Questa è la sfida lanciata dall’Ontological Turn, un movimento recente, sviluppatosi a doppio filo con la decostruzione di alcuni paradigmi concettuali dell’antropologia classica: tornare a parlare di ontologia. Si vuole mettere in crisi l’opposizione universale tra natura e cultura, pratiche e credenze, persone e cose, per arrivare a «prendere sul serio il nativo»[1].

Sulle sue implicazioni riflettono Fabio Dei e Luigigiovanni Quarta, curatori di Sulla svolta ontologica, edito da Meltemi. Si tratta di una raccolta di nove saggi elaborati in occasione del convegno dell’Università di Pisa del 2019, dal titolo: Ontologie locali/mondi multipli; un momento che si è posto tra i più importanti, in Italia, rispetto alla discussione sull’Ontological Turn, e la sua ricezione italiana, insieme al seminario di Bologna del gennaio 2016. Un dibattitto che coinvolge un movimento antropologico eterogeneo, nato negli anni Novanta, che, proprio per la marcata riappropriazione di temi filosofici, condotta in maniera non sempre puntuale, tra sottintesi e rielaborazioni eterodosse, ha suscitato un vivace dibatto.

La Svolta ontologica, sorta come alternativa all’antropologia interpretativa di Geertz, simbolicamente ha come momento inaugurale le quattro lezioni tenute da Eduardo Viveiros De Castro nel 1998 a Cambridge, nel Dipartimento di antropologia sociale. Da allora, si è assistito alla diffusione di un movimento avente tra i suoi nomi di spicco Martin Holbraad, Marilyn Strathern, Roy Wagner, Eduardo Kohn, Amiria Henare, Sari Wastell, e il già citato Viveiros de Castro; un movimento che spesso riconosce il proprio debito agli studi di Tim Ingold, Philippe Descola, Bruno Latour, e che pone tra i riferimenti filosofici imprescindibili quelli a Wittgenstein, Heidegger, Deleuze, in una torsione inedita che, pur contribuendo a ravvivare la relazione tra antropologia e filosofia, ha naturalmente attirato molto interesse, insieme a una serie di polemiche.

A uno sguardo d’insieme, si può dire che la maggior parte dei contributi del volume, pur riconoscendo l’imprescindibilità della Svolta ontologica nel dibattito odierno, assume una postura critica a riguardo, commisurando l’entusiasmo ad alcune puntualizzazioni, talvolta puramente teoretiche (Roberto Brigati, Claudio D’Aurizio), storiche (Antonino Colajanni, Fabio Dei), comparative (Federico Scarpelli), sottoponendone i concetti al banco di prova delle ricerche etnografiche (Valentina Gamberi, Luigigiovanni Quarta, Maririta Guerbo, Emanuela Borgnino e Laura Volpi), o ancora intraprendendo una sincera disamina dei testi per capire in che cosa consista questa svolta. Non è facile definire l’Ontological Turn, e la stessa cifra della sua innovazione viene recuperata e affrontata da diversi lati, mostrandone di volta in volta potenzialità e criticità.

Di certo, gli autori della Svolta hanno rivendicato espressamente, e con toni magniloquenti, una serie di “rotture” con una presunta “metafisica occidentale” e i dualismi implicati da essa: cultura e natura, soggetto e mondo, umani e non umani; nel solco degli studi postcoloniali, e abbracciando le nuove sensibilità del pensiero ecologico, si vuole arrivare a “prendere sul serio il nativo” – vero leitmotiv della Svolta –, e ad abbandonare l’idea di interpretazione. C’è insomma un forte intento anti-rappresentazionalistico, in parallelo alla critica alla tradizionale separazione tra interpretante e interpretato, che farebbe perno sul cosiddetto “prospettivismo amerindiano”. Questo concetto, che ha un posto di primo piano, viene mutuato ricerche etnografiche (“ontografiche”) di Viveiros De Castro sui popoli amazzonici, e fin da subito rivela una scivolosa duplicità d’applicazione, che fa da filo conduttore ai diversi contributi.

Schematizzando, da un lato il prospettivismo designerebbe la pragmatica indigena, la sua descrizione: la “visione del mondo” del popolo amazzonico, la sua “cultura”; se non fosse che, proprio per non ricadere in un rappresentazionalismo che svilisce le differenze culturali riducendole a “simboli”, “credenze” (o ad altri tipi di mediazioni che più o meno consapevolmente sottintenderebbero un primato epistemico occidentale), queste vengono dichiarate (o forse rinominate) “ontologiche”: ci si confronterà non con culture diverse, ma con mondi diversi, cioè con una pluralità di mondi fedeli alla concezione amazzonica. Se quindi i nativi descrivono e vivono un mondo in cui la categoria di “persona” abbraccia umani e non umani, la questione è primariamente ontologica, e non epistemologica. L’ontologia amerindiana – non una “cultura”, né una “visione del mondo” – ammetterebbe effettivamente un multinaturalismo in cui coesistono umani e non umani, o meglio: in cui «il mondo è percepito da molte specie di esseri dotati di coscienza e cultura, ciascuna delle quali si percepisce come umana» (p. 166). Da cui il primo senso della Svolta: la necessità di orientare la teoria antropologica verso differenze culturali intese non nei termini di “credenze”; ma di “concetti”, cioè ontologicamente come differenze tra mondi.

Nonostante questo primo passaggio da beliefs a knowledge, insieme al multinaturalismo implicato, non sia esente da rischi e semplificazioni (ben sottolineate da Roberto Brigati, Fabio Dei, Valentina Gamberi – e su cui ci sarà modo di tornare), c’è una seconda applicazione del prospettivismo, più profonda, che farebbe da contropartita alla prima, e più esplicitamente riconoscerebbe il debito a Deleuze. Poiché è dall’etnografia che arriva la testimonianza di un modo diverso, un mondo in cui non valgono le nozioni di natura e di cultura per il significato attribuito dal discorso occidentale, oppure in cui c’è spazio per reti che abbracciano simultaneamente vivi, defunti, persone non umane, o elementi della biosfera; allora gli stessi criteri normativi dell’antropologia devono riadattarsi, essere così ridefiniti e imposti dalla pragmatica indigena: il prospettivismo “descritto” deve al tempo stesso trasformarsi in un prospettivismo “praticato” dall’antropologo, deve diventare una prammatica intellettuale ai suoi usi fedele. Servono, cioè, delle categorie nuove, mobili, trasformative, che, come commenta Guerbo, «si mimetizzano» al loro referente (p. 236), alla loro applicazione concreta, e che da essa sono indisgiungibili. E per quanto il meccanismo dell’ibridazione concettuale mantenga una certa distanza dal senso di una creazione concettuale infinita deleuziana (tutt’altro che sottigliezze teoretiche, perché ne va degli intenti di fondo, come ben argomenta D’Aurizio), si deve quantomeno riconoscere il merito di aver riportato l’attenzione al “pensare insieme”, alla co-teorizzazione: l’assunzione del multinaturalismo di Viveiros rende necessaria una ibridazione metodologica, una spinta alla negoziazione – un «lavoro di soglia» (p. 273) tra le cosmologie e le categorie antropologiche – che, per quanto approssimativa nella sua esposizione, porta con sé molti nodi irrisolti dell’antropologia del Novecento, e costringe a una presa di posizione.

Se con questa spinta alla “metamorfosi” sia effettivamente promossa l’importanza della prassi, l’importanza di una «pratica etnografica di lunga durata» (p. 275), realmente trasformativa e ben auspicata, oppure se l’influsso post-strutturalistico finisca per fagocitarne gli esiti, che rimarrebbero cioè all’interno di un paradigma linguistico, rendendo così inessenziale la riflessione sul corpo, sulla sua storicizzazione, e sul potere, o ancora se l’istanza di Viveiros De Castro sia unicamente riflessiva; ecco, sono ipotesi che dividono gli autori del libro. È significativo il contributo di Gamberi, già curatrice nel 2019 del volume Metamorfosi insieme a Brigati, che, a distanza di due anni, e con alle spalle l’esperienza sul campo a Wencaizhun, appare molto più disillusa a riguardo. Se la “contaminazione” promossa dalla Svolta non è agita in termini di pratiche – così come sostiene –, ma solo di credenze, allora non solo si rimetterebbe in circolo il rischio di “essenzializzare” la categoria (del tutto occidentale) di “ontologia”, vanificandola; ma soprattutto «la storia e il complesso sistema di relazioni tra agenti e situazioni materiali spariscono» (p. 308), e così facendo «il nativo viene spogliato della sua materialità per diventare un’istanza virtuale nell’esperienza dell’etnografico» (P. 306). Si ricadrebbe in un esercizio meramente filosofico, estraniato dalla pratica del campo, dell’incontro, e quindi dalle circostanze (politiche, sociali, di gerarchia e conflitto) a questi legati. Ed è per inciso da notare che alle stesse domande dell’Ontological Turn l’etnografia di Gamberi preferisca rispondere recuperando l’incorporazione di Bourdieu.

Ma tornando ai caratteri generali della svolta, le criticità si muovono su una serie di piani, a cominciare da quello terminologico. Passi il fatto che, quando Viveros De Castro parla di ontologia, sembra che faccia riferimento più all’ontico heideggeriano, cioè a un insieme di enti, a ciò che comporrebbe “l’arredamento del mondo”, che non al piano tradizionalmente ontologico (si veda a riguardo il contributo di Brigati). Si tratterebbe dunque di restituire l’ontologia a prerogativa dei nativi, e non i nativi all’essenzialismo ontologico. Ma anche superando queste imprecisioni e le relative accuse (quelle, ad esempio, di sostenere un accesso diretto e precategoriale all’Essere, e che non sono da poco), rimangono forti ambiguità teoretiche. Accettato il multinaturalismo, la coesistenza di mondi diversi, come si fa a trovare un terreno comune? In che modo questi possono comunicare tra di loro? Siamo di fronte a un prospettivismo leibniziano-monadologico? Da un lato, si profilerebbe infatti l’alternativa pericolosa del solipsismo radicale, dell’incomunicabilità tra mondi radicalmente diversi, e di cui un’essenzializzazione ontologica non potrebbe che ravvivarne l’incommensurabilità; dall’altro, c’è la strada di una creazione ibrida, una co-costruzione concettuale infinita tra soggetti che si rapportano a una virtualità che non si sa bene come definire, o come relazionare alla prassi (se Gamberi la nega, Guerbo parla di una «una filosofia della pratica etnografica» [p. 259]) – cioè alla pratica etnografica rispetto a cui, peraltro, verrebbe compromesso qualsiasi rapporto, qualsiasi fecondità, proprio ammettendo la continuità con Deleuze (si veda l’intervento di D’Aurizio).

Il contributo di Luigigiovanni Quarta, il più specifico rispetto a Viveiros De Castro, l’antropologo di riferimento della svolta ontologica, ne mette bene in risalto il lascito, gli effetti epistemologici concreti. Viveiros – al di là dell’enfasi e delle approssimazioni delle sue dichiarazioni –, riconosciuto come un pensatore ineludibile che ha apportato una rivoluzione epistemologica e metodologica, viene smarcato dall’accusa di un “relativismo realista”: il prospettivismo amerindiano non postula diverse realtà a seconda del contesto culturale, ma moltiplica «il modo in cui si producono i concetti che esprimono il mondo stesso e l’insieme di relazioni possibili con il mondo» (p. 164), con una serie di implicazioni per l’antropologia. La prima, già citata, è quella di ridefinire il rapporto tra antropologo e nativo, mettendo il focus sulla relazionalità: eliminando il dualismo de jure tra interpretante e interpretato, e la sua implicita asimmetria, il concetto di cultura potrebbe così perdere alcune rigidità occidentalocentriche per farsi relazionale, essere inteso come uno spazio di differenze intensive. Ma soprattutto, se al pensiero nativo viene restituita la prerogativa dell’ontologia (che, di nuovo, non significa la dissoluzione del nativo in un’ontologia), e se quindi l’idea di “credenza” (sul modello: “x crede che y esiste”) viene soppiantata da un’ontologizzazione che non vuole passare per mediazioni (“y è”), allora questi sistemi metafisici/ontologici (parole diverse ma pressoché intercambiabili in Viveiros) non sono più codici che dobbiamo interpretare, ma filosofie «con cui, e non da cui, dobbiamo ragionare» (p. 196), con cui sarebbe cioè possibile “prendersi sul serio”. Certo, non mancano punti ciechi: al di là dei già citati risvolti “pratici”, rimane il dubbio sui confini tra il piano logico e quello ontologico. È possibile equiparare il pensiero nativo a un sistema filosofico? E con quale margine di indeterminatezza? E cosa dire allora di quegli stessi oggetti che si presterebbero ad ammettere e a creare diverse ontologie dentro lo stesso mondo, ad esempio – come già sottolineato da Brigati e Gamberi – l’ostia cristiana?

Fabio Dei, curatore del volume insieme a Quarta, e decisamente dubbioso sull’effettiva fruibilità del movimento, si chiede se l’ontologizzazione non finisca per perdere di vista «il solido sapere empirico» (p. 337), quel mondo di senso comune che tra noi e loro è sempre condiviso: è come se il multinaturalismo, pur recuperando alcune intuizioni di Wittgenstein, si dimenticasse proprio di quel terreno wittgensteiniano sopra cui “la vanga si spezza”, lo strato della certezza tra forme di vita, per andare indebitamente a ipostatizzare la differenza tra i giochi linguistici: una differenza, sostiene Dei, che non deve fondare mondi multipli e radicalmente distanti, ma di fronte alla quale ci si potrebbe avvicinare a cominciare da noi, a partire dal nostro punto di vista, immaginando analogie, procedendo insomma per somiglianze di famiglia.

Da segnalare anche il contributo di Federico Scarpinelli, che dà una risposta forte. Ripercorrendo l’itinerario intellettuale di Bruno Latour, riconosciuto tra i più importanti ispiratori dell’Ontological Turn, confronta la cosiddetta “antropologia dei moderni” latouriana, l’impresa di “distillazione” della nostra ontologia implicita, con gli intenti di Viveiros De Castro, e ne vengono mostrate, insieme ai meriti (la critica dell’antropocentrismo in chiave ecologica), alcune sbavature. Di certo, l’abolizione della contrapposizione tra knowelegde e beliefs, un dualismo che presupporrebbe la posizione privilegiata dell’osservatore e l’idea che la nostra rappresentazione possa dirsi più adeguata a una realtà indipendente (anche se a ben vedere si tratta di considerazioni non direttamente implicate dal primo dualismo, nota Brigati), è un passo che era già stato compiuto e difeso a partire da Non siamo mai stati moderni (1991). Qui Latour esplicitava l’ontologia al fondo della “Costituzione dei moderni”, fondata tacitamente sulla separazione tra cultura natura: e se con il primo principio della sua “antropologia simmetrica” metteva da parte la distinzione tra sapere e credenza; con il secondo aboliva quella tra soggetti e oggetti, e tra fatti naturali e fatti sociali. Ma ora, sgomberato il campo dalla “mitologia della scienza” moderna, rimane da chiedersi se la spinta latouriana a negare il privilegio conoscitivo occidentale si risolva in qualcosa di utile e fruibile, senza ridursi a sofisma (un sospetto animato da molti, nei confronti della Svolta ontologica). Rimane cioè da chiedersi se l’alternativa latouriana, quella di utilizzare i concetti ibridati di attori-reti, o di attanti, estremamente depurati da qualsiasi connotazione logocentrica e soggettiva, non si riduca a vuota retorica: bisogna capire se questa teoria anti-antropocentrica e post-umana, che pure si serve di nuovi concetti quanto più vicini a negare la dimensione soggettiva dell’agency, non sia mossa dall’illusione di una view from nowhere (p. 109), lo sguardo assoluto del cosmotheoros, e soprattutto non cada in «etnografie prive di persone ma piene di concetti lontanissimi dai linguaggi locali» (p. 150). C’è senz’altro, in Latour come negli autori della Svolta, un’acuta provocazione che fa da stimolo intellettuale, ma come si potrebbe consolidare in una metodologia pratica applicabile? Per Scarpinelli, la rinuncia post-umanista alle nozioni di soggetto, cultura, società, umanità, si compie solo a patto di una loro indebita stereotipizzazione: ci dev’essere la possibilità, per questi concetti, di essere rivitalizzati, di essere ancora fruibili, e senza cadere in demonizzazioni che sono ben lontane da una proposta realmente costruttiva.

Più sottili sono le considerazioni teoretiche di Brigati, che si guarda bene dall’incriminare il rappresentazionalismo. Con rigore e sensibilità, Brigati offre un’ampia contestualizzazione dei rappresentazionalismi e dei modelli di realtà, precisandone differenti declinazioni nella storia della filosofia e dell’antropologia; differenti contesti d’uso che solo in parte, e in maniera superficiale, sarebbero affrontati dagli autori dell’Ontological Turn. Al di là delle ambiguità semantiche (quella per cui «le ontologie native, per come vengono descritte da Viveiros de Castro, andrebbero considerate più come “metafisiche descrittive”, sistemi coerenti di pensiero con prospettive ontiche che “arredano” i mondi» [p. 68]), per Brigati non sarebbe del tutto convincente il passaggio che dall’abolizione del dualismo soggetto-oggetto arriverebbe alla messa in crisi del modello di rappresentazione: per quanto gli autori della Svolta rinuncino al presupposto su cui si innestano le varie forme del rappresentazionalismo, ovvero il dualismo tra oggetto e soggetto, è del tutto assente una riflessione sulla “credenza” e sulla sua problematizzazione. Anzi, viene suggerito che «se si pensa che una credenza è il punto d’arrivo, non di partenza di una serie di motivazioni, di abiti, di pratiche […], non c’è ragione di proibire l’uso del termine» (p. 93), che a quel punto basterebbe a disinnescare il cortocircuito mentalistico-rappresentazionale, diventando un explanandum estremamente utile all’etnografia. Di nuovo, ritorna l’auspicio affinché la Svolta non si riduca a sofisma: riportare il focus sulla prassi etnografica. Una prassi che è insostituibile, creatrice di nuovi concetti e nuove forme di pensiero, peraltro ricordando agli antropologi che, a priori, «escludere la metamorfosi dell’esperienza etnografica è in fin dei conti essenzialistico» (p. 98), non troppo diverso cioè dall’essenzialismo classico di chi trattava le culture come un sistema empiricamente omogeneo e impermeabile.

Tirando le somme, è chiaro che emergono certi limiti, se non addirittura delle falle di fondo; ma la serietà e il rigore del confronto non scadono in una condanna all’irrimediabile: c’è la possibilità che alcuni punti ciechi vengano illuminati e ridefiniti da parte della Svolta ontologica. E c’è senz’altro il riconoscimento condiviso dei suoi effetti, del suo lascito, che porta con sé – a costo di imprecisioni e sbavature – alcuni nodi irrisolti del Novecento, e il cui impatto rilancia l’attualità delle domande dell’antropologia: testimonia che il problema dell’altro, quello di restituirne il senso, e senza ventriloquismi, proiezioni, mistificazioni, e tantomeno con l’illusione di uno sguardo neutrale no-where, è ancora lontano da trovare una sistemazione di metodo; e non può che spingere verso un possibile incontro, tutt’altro che esaurito e ancora in una fase aurorale, in cui il dialogo tra antropologia e filosofia può essere fecondo. È da sottolineare, per inciso, che alcuni autori del volume rispondono alle stesse impasse con altre vie d’uscita, attraverso Wittgenstein, Peirce, Merleau-Ponty, o Bourdieu. Ci sono buoni presupposti per un dialogo che dovrebbe cominciare dallo sforzo, per entrambe le parti, di trovare un terreno comune per le parole e i concetti.


[1] Roberto Brigati e Valentina Gamberi, Metamorfosi. La svolta ontologica in antropologia, Quodlibet, Macerata 2019, p. 134.

Scritto da
Linda Dalmonte

Studia Filosofia e International Studies all’Università di Bologna. Ha partecipato al corso 2023 di “Traiettorie. Scuola di lettura del presente”.

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