Scritto da Roberto Volpe
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Sono stati mesi piuttosto turbolenti per la Svezia. Chiamati alle urne per il rinnovo quadriennale dell’unica Camera (Riksdag, in foto) gli elettori hanno sonoramente bocciato il governo in carica, di centrodestra, presieduto dal liberal-conservatore Fredrik Reinfeldt. Tutti e quattro i partiti di governo (uniti in una coalizione pre-elettorale, l’Alleanza) hanno perso voti e seggi, i Moderaterna del primo ministro in particolare: quasi 7 punti percentuali e 23 seggi in meno.
Questo voto anti-incumbency non è finito nelle tasche dell’opposizione di centrosinistra. Socialdemocratici, verdi e sinistra radicale hanno complessivamente guadagnato solamente tre mandati, superando sì il blocco di centrodestra ma fermandosi ben 17 seggi sotto la maggioranza assoluta. Un quarto partito di sinistra, Iniziativa Femminista, ha ottenuto quasi duecentomila voti fermandosi però sotto lo sbarramento del 4%.
Il grande vincitore di questa tornata è un partito che espressamente ha dichiarato di correre fuori dai “blocchi”, che si dichiara nazionalista, euroscettico e “social-conservatore”, e che i detrattori considerano direttamente populista e razzista: gli Sverigedemokraterna (traducibile più o meno in Democratici Svedesi). Raccogliendo poco più di ottocentomila voti (12,9%), questo partito che fino al 2010 non era mai entrato in parlamento è diventato la terza forza politica del paese, conquistando 49 seggi e, per le ragioni che abbiamo visto, un ruolo di potenziale kingmaker per il prosieguo della legislatura.
Da quel momento è iniziata una fase di difficile interpretazione. In sostanza i partiti, come se nulla fosse accaduto, hanno agito in un primo momento sulla scorta delle promesse pre-elettorali: no a qualsiasi cooperazione con SD, [1] no a un governo di “grande coalizione” e no anche all’ingresso nel governo di partiti del blocco opposto (questione molto interessante di cui si discuterà più avanti). Il Parlamento ha eletto primo ministro il leader del partito socialdemocratico Stefan Löfven, votato però solamente da una minoranza di 132 deputati su 349: il governo è potuto nascere grazie all’astensione di tutti i partiti esclusi socialdemocratici (S) e verdi (Mp), favorevoli, e SD, contrario. Ne è scaturito un governo senza maggioranza parlamentare, composto da una coalizione (inedita) di S e Mp, che tiene fuori la sinistra radicale (V).
Chiaramente un governo del genere, per passare legislazione, ha bisogno di un certo grado di cooperazione da parte delle opposizioni. Ma al momento di approvare la legge di bilancio, le cose si sono evolute in segno opposto. I partiti di governo non hanno guardato alla loro destra, ma a sinistra, presentando un budget “rosso”: più tasse, più spesa, più intervento pubblico. Dunque un disegno invotabile dall’Alleanza, che come è ammesso dalle norme ha presentato una sua controproposta. In sostanza questo è significato rimettere la decisione ai Democratici Svedesi: astenendosi, sarebbe stata approvata la proposta del governo; votando a favore di quella dell’opposizione, a passare sarebbe stata quest’ultima dando via a una crisi costituzionale senza precedenti. Per un occhio italiano, non è difficile indovinare cosa sia successo: SD ha annunciato solamente con un paio di giorni di anticipo non solo che non avrebbe votato alcuna proposta che prevedesse “più immigrazione”, ma che avrebbe sostenuto con il proprio voto favorevole la proposta del centrodestra.
Lo schianto a quel punto è stato inevitabile: una chiara maggioranza ha rigettato il bilancio del governo e approvato quello dell’opposizione. Löfven, pur non obbligato a dimettersi, a quel punto aveva un campo di ipotesi abbastanza limitato: continuare al governo con il bilancio approvato dal parlamento, dimettersi, chiamare nuove elezioni. Praticamente subito il primo ministro ha annunciato quest’ultima soluzione, una scelta apparentemente estrema: in Svezia non si tiene un’elezione anticipata dal 1970, prime elezioni con sistema monocamerale; per l’ultima snap election propriamente detta si deve risalire addirittura al 1958.
I partiti hanno così iniziato a vagheggiare una campagna elettorale in avvicinamento al nuovo appuntamento previsto per il 22 marzo, a cui tutti i partiti sarebbero arrivati in condizioni parecchio precarie: quelli di governo, espostisi a una serie di pessime figure tra cui l’esclusione di V dalla compagine; l’Alleanza, accusata di cooperazione con i paria di SD per via del voto favorevole al loro bilancio, e di fatto senza leader dopo le dimissioni di Reinfeldt e dello stato maggiore di M; persino SD, il cui leader Jimmie Åkesson è in aspettativa per motivi di salute (stress) e la data del suo ritorno è ignota. I sondaggi peraltro prevedevano una situazione nella sostanza identica a quella di settembre, con una maggioranza solo relativa del blocco di centrosinistra, SD sopra il 15% e i partiti più piccoli dell’Alleanza a rischio sbarramento.
Quando l’opinione pubblica era ormai rassegnata al ritorno alle urne, il 27 dicembre è stata convocata nella (quasi) totale sorpresa una conferenza stampa congiunta dei partiti di governo e dell’Alleanza (quindi, V e SD esclusi). È stato annunciato un accordo, valido per due legislature (fino al 2022), che nelle intenzioni delle parti va consegnato alla storia sotto il nome di “compromesso di dicembre” (decemberöverenskommelsen).
In sostanza, l’accordo è stato raggiunto su questi punti: la coalizione rosso-verde va avanti, per quest’anno con il bilancio dell’opposizione; dal 2015 in avanti, i partiti di opposizione si asterranno sul bilancio, rendendo così impossibile a SD il ruolo di ago della bilancia e permettendo al governo di passare la propria proposta nella sua interezza, cosa che in genere ai governi di minoranza non accade; nel caso, alle prossime elezioni, il blocco di centrodestra ottenesse la maggioranza relativa, il centrosinistra sarebbe tenuto a fare lo stesso; una cooperazione tra i blocchi sarà portata avanti su temi specifici, come la riforma delle pensioni, la difesa, l’immigrazione in particolare. Infine, ha annunciato Löfven, l’accordo sottintende il divieto di qualsiasi collaborazione con SD, pena la sua decadenza.
Le implicazioni di questo accordo, la sua futura tenuta, nonché l’impatto sull’elettorato, non sono ancora del tutto chiari. L’idea che gli sta dietro è però abbastanza chiara: evitare una soluzione apertamente consociativa, ossia un governo di grande coalizione, mantenendo in vita artificialmente una struttura del sistema partitico su cui c’è di certo grande consenso tra le parti, e che grazie ad alcune piccole, ma rilevantissime peculiarità istituzionali la Svezia ha conservato praticamente incontestata almeno dal dopoguerra ad oggi: la cosiddetta politica dei blocchi.
Che cos’è la politica dei blocchi?
I sistemi politici dei paesi nordici (qui per Svezia, Danimarca, Norvegia, Finlandia e Islanda) sono tutti abbastanza simili tra loro, con i dovuti distinguo. Si tratta sempre di forme di governo parlamentari, con una sola camera, eletta con metodo proporzionale con una qualche forma di sbarramento, circoscrizioni medio-piccole, qualche forma di garanzia sia per i partiti maggiori che per quelli minori e, cosa più importante e complessa, l’aderenza al principio del cosiddetto “parlamentarismo negativo”.
La materia meriterebbe un’esposizione approfondita e un espositore più competente. Ci limiteremo all’aspetto essenziale: a un governo, per formarsi – con meccanismi che variano da stato a stato – e passare legislazione, non è necessario il supporto della maggioranza assoluta dei deputati, ma basta sempre una maggioranza relativa: è sufficiente che i voti a suo favore siano superiori ai voti contrari. L’opposizione, se vuole sfiduciare un governo, deve così mettere insieme una maggioranza negativa dei voti, che nel caso della Svezia deve essere addirittura pari al 50%+1 dei parlamentari. Provando a riassumere con una battuta, al governo non è necessario il supporto, ma la tolleranza del parlamento.
Con queste regole assume un significato particolare l’astensione, che diventa uno strumento di cooperazione tra partiti di governo e di opposizione: pur non votando a favore di una proposta, è possibile comunque permettere la sua approvazione parlamentare offrendo con l’astensione una forma di “sostegno passivo”.
Tirando le somme, le parti sono più incentivate a cooperare di quanto lo siano a scontrarsi frontalmente, e questo vale anche per i partiti cosiddetti “antisistema”, le cui offerte di cooperazione possono servire proprio, come abbiamo visto nel caso di SD, a creare scompiglio o quantomeno imbarazzo nelle forze “mainstream”. Il fatto che esistano vari modelli di cooperazione, e che questi possano essere più o meno impegnativi per le forze in campo, aiuta a capire la tendenza a formare compagini di governo relativamente ristrette. Un grande partito, pur dipendendo dal sostegno di forze minori, non è mai particolarmente propenso a includerle nella compagine di governo: la sua prima opzione sarà sempre formare un monocolore di minoranza. I governi di coalizione sono più rari, si formano in tempi più lunghi e in genere sono indice di una qualche forma di debolezza del partner maggiore; peraltro anche questi spesso sono soluzioni di minoranza, composti da un numero limitato di partiti, non troppo dissimili ideologicamente.
Arriviamo al punto: governi di unità nazionale, di grande coalizione, e in genere quelle soluzioni blandamente centriste, instabili ma necessarie così tipiche dei modelli consensuali sono fortemente disincentivate, in quanto sono percorribili alternative più semplici e vantaggiose per tutte le parti. Per verificare se agli incentivi corrispondono i fatti dobbiamo però guardare al comportamento di voto effettivo degli elettori, e immediatamente notiamo qualcosa: nei paesi della Scandinavia propriamente detta (Svezia, Norvegia, Danimarca) questo modo di governo è in effetti quasi o del tutto sconosciuto. In questi tre paesi l’assetto della competizione è, oggi come settant’anni fa, essenzialmente bipolare.
Vale a dire che le maggioranze di governo si formano sulla base del confronto tra due blocchi contrapposti e alternativi, i quali detengono sommati il 100% dei seggi in parlamento. Uno di questi è stato per molti anni specificamente un blocco socialista, dominato da un “partito dei lavoratori” (ossia, il partito del movimento sindacale) di dimensioni più che doppie rispetto a qualsiasi altro partito del sistema, generalmente in grado di mantenere il governo da solo senza dover stabilire coalizioni formali.
Dall’altra parte, semplicemente, tutti i partiti “non socialisti”, che da quelle parti sono chiamati (ancor oggi!) borghesi (borgerlig), e che sono in larga parte gli eredi del sistema dei partiti della fine del secolo XIX e dei primissimi decenni del XX. La cosa è immediatamente visibile guardando al nome del partito liberale in Danimarca e Norvegia: Venstre, cioè “sinistra”. In un curioso paradosso, essi oggi si trovano dalla stessa parte della barricata del loro antico rivale, i conservatori, che in Norvegia portano ancora il nome di Høyre, “destra”. A questi due partiti, nella configurazione originaria, si affianca un terzo movimento non socialista che non è propriamente borghese, cioè “del borgo”, in quanto rappresentante delle campagne: il partito del movimento agrario, che in quattro paesi su cinque si presenta con le proprie liste.
Il centrodestra, dunque, ha storicamente un aspetto abbastanza frammentato, con più partiti di dimensioni simili, piuttosto ridotte (raramente più del 25% dei voti) e molto variabili nel corso del tempo: partiti che dunque hanno bisogno di una certa coordinazione per essere competitivi.
Finlandia e Islanda divergono per una serie di ragioni. La più importante ai fini della nostra analisi è la mancanza di unità a sinistra. Nel campo socialista abbiamo trovato, fino alla fine della guerra fredda, due partiti più o meno della stessa grandezza, uno dei quali si trovava, oltre che più a sinistra, anche più a Est, riprendendo la celebre battuta di Guy Mollet.
Al contrario di quanto è accaduto in esperienze a noi ben note, questo partito filosovietico ha fatto più volte parte di compagini di governo, ma mai in una soluzione “a due” con i socialdemocratici: esse hanno sempre incluso partiti di centro o centrodestra. Se magari la dialettica politica era bipolare, il processo di formazione del governo non lo era, e questo si riflette anche in una pratica istituzionale più ostile ai governi di minoranza e che prevede coalizioni ampie, talvolta anche di unità nazionale – come è accaduto in Finlandia due volte negli ultimi due decenni.
Anche nella Scandinavia propria esistevano partiti parlamentari di sinistra radicale, ma questi non si sono mai nemmeno avvicinati a sfidare – almeno nelle istituzioni rappresentative – l’egemonia del partito socialdemocratico. Oltre a non essere mai stati una forza di prima grandezza, i comunisti svedesi e i “socialisti popolari” danesi e norvegesi (non comunisti ma anti-atlantisti) hanno generalmente aiutato la permanenza al governo dei socialdemocratici proprio grazie al principio di parlamentarismo negativo di cui abbiamo detto. Non si è trattata di una collaborazione facile, specie in Danimarca, in cui le maggioranze socialiste hanno avuto breve durata; Danimarca dove però esiste, al contrario degli altri paesi, un partito “liberale di sinistra” [2] (Det Radikale Venstre) che, da una posizione pivotale, ha sostenuto e partecipato più frequentemente a governi socialdemocratici. Il meccanismo bipolare del sistema, insomma, resiste anche in un contesto più frammentato: l’aggregazione non avviene dalle estreme verso il centro, ma dal centro verso i poli.
In sostanza, tutti i movimenti avvenuti sul lato sinistro dello schieramento non hanno mai seriamente messo in dubbio la conformazione e l’assetto competitivo del sistema complessivo. Hanno al limite cambiato la composizione del suo elettorato, ma di questo discuteremo oltre.
Per la destra il discorso è differente. In tre distinte ondate (anni ‘70 in Danimarca, anni ‘90 in Norvegia, anni 2010 in Svezia e Finlandia) sono emersi con forza partiti che, prima di essere anti-socialisti, erano prima di tutto “anti-consensus”: anti-corporativismo, anti-tasse, e da un certo momento in poi anti-multiculturalismo o più genericamente anti-immigrazione. Aggiungendo l’opposizione all’integrazione europea, che è tema più trasversale, abbiamo dei movimenti prettamente anti-sistema, capaci di sfondare non solo nell’elettorato cittadino altoborghese, la constituency tipica della destra scandinava, ma ancora più tra quelle sezioni di classe lavoratrice marginalizzate dall’evoluzione socioeconomica degli ultimi decenni.
Nulla di nuovo, insomma. Quello che noi vogliamo notare qui però, più che analizzarne nel dettaglio le caratteristiche, è l’effetto che la comparsa – e persistenza – di questi nuovi partiti ha avuto sull’assetto competitivo del sistema. In poche parole, il bipolarismo scandinavo è sopravvissuto? Come si è trasformato? Hanno trovato questi partiti un qualche genere di istituzionalizzazione, se non un’alleanza almeno una qualche forma di collaborazione formalizzata con i partiti “mainstream” di centrodestra? Per Norvegia e Danimarca, la risposta è sì, ma il percorso è stato complicato e tortuoso, e ancora oggi non si può parlare di “piena integrazione” nel blocco di centrodestra. Quello che però è chiaro, oggi, è che dopo una fase di crisi la politica dei blocchi è riemersa in entrambi questi paesi, sia pur con alcune caratteristiche differenti. Sotto molti punti di vista, possiamo dire addirittura che sia riemersa più forte.
Note:
[1] Come è d’uso in Svezia indicheremo i partiti con le loro sigle elettorali. Dunque, socialdemocratici = S, verdi = Mp (per Miljöpartiet, “partito ambientalista”), sinistra radicale = V (Vänsterpartiet), femministe = Fi, moderati = M, liberali = Fp (Folkpartiet), centristi-agrari = C, cristiano-democratici = Kd, democratici svedesi = SD.
[2] I più attenti osserveranno che si tratta del partito di cui è a capo la protagonista della serie tv di successo Borgen. Necessario spoiler: da primo ministro, dopo consultazioni con partiti di entrambi i blocchi, formerà un governo di minoranza di centrosinistra.