Scritto da Daniele Molteni
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Tra le numerose elezioni attese nei Paesi dell’Asia meridionale per il 2024, quelle di Taiwan sono tra le più cruciali. L’isola è uno dei luoghi centrali per l’economia dei semiconduttori, importanti componenti della contemporaneità che alimentano strumenti quali smartphone e auto elettriche. Un’economia che impatta su quasi il 15% del PIL, in un territorio che ospita le fabbriche produttrici del 90% dei chip più avanzati a livello mondiale. Vicende storiche, culturali e politiche peculiari hanno contribuito all’identità dell’odierna Taiwan, ventitreesima economia mondiale per PIL complessivo e sesta al mondo per PIL pro capite, sospesa alla ricerca del suo equilibrio nella rivalità strategica e tecnologica tra Cina e Stati Uniti. In questa intervista Stefano Pelaggi – storico, ricercatore Sapienza Università di Roma, analista presso il Centro Studi Geopolitica.info e Research fellow al Centre for Chinese Studies a Taipei – riflette sul ruolo dell’isola nelle relazioni internazionali e sul risultato delle elezioni del 2024 a partire dal suo ultimo libro L’isola sospesa. Taiwan e gli equilibri del mondo (Luiss University Press).
Il 2024 è un anno particolarmente importante per le numerose elezioni che si terranno e si sono tenute in Asia. Nel suo libro afferma come la Storia nella regione dell’Asia-Pacifico abbia una valenza diversa rispetto a quella che ha nel mondo occidentale, perché è ancora cruciale nel determinare il presente e il futuro. In cosa vede questa differenza e perché, secondo lei, la Storia non è più così importante per il presente e il futuro dell’Occidente?
Stefano Pelaggi: La Storia nell’Asia-Pacifico ha una valenza diversa rispetto a quella che ha in Occidente perché ne influenza maggiormente il presente. Basti pensare ai rapporti tra Giappone e Corea del Sud di fatto regolati anche su questioni come quella delle donne di conforto. Ma anche ai rapporti tra Tailandia e Myanmar che si basano su eventi legati al Regno del Siam e al Regno di Birmania. La Storia è una categoria che definisce il presente molto più che in Occidente perché qui oggi non penseremmo mai di affrontare il tema delle Guerre di indipendenza italiane nei rapporti diplomatici con l’Austria o altre questioni legate al passato più recente, come la Seconda guerra mondiale nel confrontarci con altre potenze europee. Invece nell’Asia-Pacifico queste questioni appaiono come non risolte, anche perché qui i processi di costruzione dell’identità nazionale sono molto più recenti rispetto a quelli europei e partono dalla fine dell’Ottocento nel caso del Giappone e dall’inizio del Novecento in quello della Cina, ma in molti casi risalgono solo alla fine della Seconda guerra mondiale. Con questi processi di costruzione nazionale acerbi e molto giovani le questioni storiche diventano dirimenti.
Le influenze delle potenze europee, della Cina e del Giappone imperiali, dei nazionalisti cinesi di Chiang Kai-shek e anche degli Stati Uniti hanno attraversato le vicende degli hokkienesi, degli hakka e degli aborigeni dell’isola di Taiwan. Cosa ci dicono queste relazioni sul suo status internazionale e in cosa la sua realtà culturale e identitaria può dirsi peculiare?
Stefano Pelaggi: Ogni identità nazionale è peculiare e ogni nazione ha la sua identità distinta e in qualche modo speciale. A mio avviso quella di Taiwan – con il suo mosaico etnico e identitario – è veramente peculiare per la presenza di numerosi gruppi etnici che hanno vissuto fianco a fianco praticamente senza mischiarsi, ossia vivendo in un isolamento quasi beato per centinaia di anni. Ma soprattutto è peculiare perché ci sono stati degli importanti momenti di riconversione culturale: un primo momento parziale con l’Impero cinese; un secondo molto più importante che ha coinvolto tutti gli abitanti dell’isola con il Giappone imperiale; e l’ultimo all’indomani del Secondo conflitto mondiale con il Kuomintang, in cui si è assistito a una riconversione culturale totale. Penso che nessun Paese al mondo abbia subito questa serie di colonizzazioni in cui tutti gli elementi della società – dalla lingua, alla cultura, al modo di mangiare, a quello di vestire, fino alla stessa percezione della nazione – venivano ribaltati. Gli abitanti dell’isola hanno imparato a riconoscersi come taiwanesi, ossia come popolo unitario, proprio attraverso lo sguardo di chi compiva queste riconversioni culturali, il colonizzatore. Un percorso che ha creato una coesione che prima non esisteva.
Oggi nessun settore è più importante per Taiwan di quello della produzione di semiconduttori, che alimentano i moderni strumenti tecnologici, dai telefoni cellulari alle auto elettriche, e costituiscono il 15% del PIL di un’isola da quasi 24 milioni di abitanti. Secondo l’Economist, Taiwan produce oltre il 60% dei semiconduttori mondiali e oltre il 90% di quelli più avanzati[1]. Quali sono le radici storiche e politiche di questo primato?
Stefano Pelaggi: L’isola di Taiwan è stata un’isola felice nella regione in quanto non ha conosciuto gravissime carestie o eventi catastrofici come altri Paesi – si pensi alla Corea, al Giappone o alle traversie della Cina del Novecento. Questo ha fatto sì che gli abitanti di Taiwan fossero all’avanguardia, con un tasso di scolarizzazione piuttosto alto. Una condizione a cui hanno contribuito anche le riforme infrastrutturali promosse negli ultimi anni di dominazione dell’Impero cinese. Un percorso che l’Impero ha considerato più semplice da realizzare in un’isola relativamente piccola e sicura, mentre in Cina già regnava quel caos che poi sarebbe esploso proprio con la fine del regime imperiale. Questo percorso viene poi accelerato, al termine del Secondo conflitto mondiale, con l’arrivo del Kuomintang. Anche se Chiang Kai-shek non è mai stato un grande uomo di guerra – nonostante si facesse chiamare “generale” non aveva mai dato grandi dimostrazioni di abilità belliche – è stato in realtà un uomo di Stato capace di sviluppare, così come negli anni Trenta in Cina, il comparto industriale. All’epoca a Taiwan una serie di persone era esclusa dalla vita politica istituzionale – tutti gli abitanti nati nell’isola e non arrivati con il Kuomintang dal 1945 al 1950 – e non potevano né fare carriera militare, né fare politica o lavorare nei ministeri perché tutta una serie di occupazioni erano loro precluse. Contestualmente c’è stata una riforma agraria che ha dato la possibilità a tante persone di comprare la terra facendo sì che molte ricevessero dei soldi in cambio. Si può dire che l’unica opportunità per loro era quella di fare business e diventare piccoli imprenditori. Così inizia un percorso di sviluppo economico che porterà le imprese occidentali prima e giapponesi poi a produrre a Taiwan, che sarà il primo Paese a basare una parte fondamentale della sua economia sulla produzione per conto terzi. Un processo che verrà replicato da numerose micro-industrie che nasceranno sull’isola e inizieranno a produrre prima nel settore tessile, poi giocattoli di plastica e tantissimo altro, fino ai prodotti di più elevata complessità tecnologica. Un altro grande percorso è quello dell’industria dei semiconduttori, in cui lo Stato ha svolto un vero e proprio ruolo dirigista investendo dove nessuno voleva investire – ossia nella produzione di chip e non nel design dei prodotti – occupandosi di quelli che erano i veri e propri motori dei transistor dell’epoca, che poi diventeranno i primi computer. Una scelta non affatto semplice, perché ai tempi molti volevano progettare i prodotti di Apple o realizzare i CD della Sony. Invece, i taiwanesi si sono posti al servizio di queste industrie costruendo le fonderie di semiconduttori, che hanno costi di realizzazione veramente proibitivi e dei tempi molto lunghi, e per cui serve attendere il medio termine prima di vedere profitti. Ciò ha portato il comparto taiwanese a vincere questa sfida, anche quando dieci anni fa sembrava che la legge di Moore[2] non funzionasse più. Mentre invece sono arrivati il 5G e le applicazioni in campo strategico che hanno fatto scoprire quanto i semiconduttori servano ancora. I taiwanesi ad oggi sono gli unici che riescono a produrre in così grande quantità chip così veloci e all’avanguardia.
Nel 2022 Taiwan semiconductor manufacturing company (TSMC) ha annunciato investimenti locali per costruire fabbriche che produrranno i chip più avanzati al mondo – da 2 e 1 nanometro – manifestando la volontà di non esportare le migliori tecnologie. Che ruolo politico hanno aziende di questo tipo? Secondo lei sarà possibile vedere fonderie così avanzate altrove?
Stefano Pelaggi: Il primato tecnologico è importante e TSMC e le altre compagnie di semiconduttori hanno un’influenza politica. Ma in realtà – come tutto ciò che riguarda Taiwan – per le aziende stesse è meglio che si parli poco di politica. Il mondo dei semiconduttori taiwanese è fiorente grazie all’interscambio costante con il mercato americano, europeo e cinese, e la condizione migliore per svilupparsi ulteriormente o almeno per mantenere e consolidare gli importanti risultati economici conseguiti è l’assenza di tensioni geopolitiche tra Cina e Stati Uniti, che attraversano lo Stretto e soprattutto il Pacifico. Difficilmente TSMC avrebbe la capacità di influenzare la politica e anzi spesso si trova a dover compiere azioni obbligate. Non credo comunque che ci possano essere fonderie di semiconduttori simili a quelle di Taipei al di fuori di Taiwan, dove ci sono percorsi di politiche del lavoro che probabilmente sono impossibili da replicare a quei livelli.
Dopo l’invasione russa dell’Ucraina, molti analisti hanno fatto paragoni con il pericolo che anche a Taiwan possa toccare la stessa sorte di Kiev. Quali sono le differenze sostanziali e le analogie, secondo lei, tra la situazione in Ucraina e il possibile destino di Taiwan? Quanto riguardano le diverse sfumature nelle strategie revisioniste di Russia e Cina rispetto allo status quo internazionale?
Stefano Pelaggi: Le similitudini tra Ucraina e Taiwan sembrano molte ma sono più le differenze. Innanzitutto, il confine russo-ucraino è una pianura totalmente piatta, mentre Taiwan è un’isola in uno dei mari peggiori del mondo con due soli porti di approdo naturali che rendono difficile tornare indietro dopo un’azione navale di guerra. Mentre rientrare da un’invasione in Ucraina può essere relativamente semplice, anche con un’azione breve. Un’altra differenza sostanziale è proprio quella tra la Russia e la Repubblica Popolare Cinese. La Russia è una nazione che può garantirsi un sostentamento base, come gli Stati Uniti, e anche in casi drammatici e con il crollo delle importazioni sarebbe in grado di sopravvivere almeno a livello alimentare. La Cina al contrario non ha queste possibilità, perché il suo fabbisogno alimentare è coperto in minima parte da risorse interne. Ma soprattutto, l’economia cinese è un’economia che vive ancora quasi esclusivamente di esportazioni. Quindi sanzioni e veti anche in misura minore rispetto a quelli implementati contro la Russia metterebbe in ginocchio l’economia cinese. Non dimentichiamo poi che il modello attrattivo della Cina è rappresentato dal suo incredibile successo economico, senza il quale sarebbe un attore dal peso molto diverso. Per questo io penso che un possibile accerchiamento internazionale sarebbe veramente drammatico e la coesione dimostrata dagli Stati occidentali nei confronti della Russia è stata in questo senso molto notata a Pechino. Ovviamente anche la strategia revisionista russa è molto diversa da quella cinese: la Cina ambisce comunque ad essere considerata una potenza egemonica e chiede di poter gestire l’ordine internazionale, mentre questo orizzonte non appartiene a quella che è la proiezione russa perché la Russia si configura come una potenza regionale e non globale nelle sue ambizioni. Quindi anche un eventuale fallimento o anche solo una situazione di stallo per la Cina su Taiwan sarebbero drammatici. Non possiamo immaginare un aspirante egemone che non riesce a risolvere una questione che riguarda un’isola a poche decine di chilometri dalle proprie coste. A quel punto verrebbe meno quella credibilità nell’ambizioso progetto revisionista cinese.
Dal 2016 abbiamo assistito a un deteriorarsi dei rapporti tra Cina e Stati Uniti e nel 2022 si è arrivati a quella che molti hanno definito come la “quarta crisi dello Stretto di Taiwan”[3] (dopo quelle del 1954-55, 1958, 1995-96), con un salto di qualità nelle operazioni della Repubblica Popolare Cinese nei confronti di quella che considera una propria provincia. Robert Kaplan, come riportato nel suo libro, ha definito l’isola «il campo di battaglia definitivo del XXI secolo». Alla luce del contesto attuale possiamo definirla una previsione realistica?
Stefano Pelaggi: Io non chiamerei quella del 2022 la quarta crisi dello Stretto di Taiwan. Lo hanno fatto molti analisti e giornalisti, ma ci sono delle sostanziali differenze rispetto a quanto è avvenuto negli anni Cinquanta e a metà degli anni Novanta. L’escalation c’è stata, anche solo nell’aumento vertiginoso della retorica di Pechino nei confronti di Taiwan, e la situazione oggi è molto diversa rispetto a due anni fa. Però va sottolineato che nei mesi seguenti all’estate del 2022 tutti i blog e i siti cinesi ultranazionalisti che avevano chiesto l’abbattimento dell’aereo della speaker Nancy Pelosi sono stati chiusi con gravi sanzioni nei confronti di questi gruppi. Quindi a Pechino c’è il timore di venire scavalcati nelle posizioni a destra o a sinistra, o comunque di avere parti della società che spingono nei confronti di una deriva più aggressiva per la questione dello Stretto. Ovviamente per chi analizza tutti i quadranti del mondo è inevitabile che Taiwan venga definito il campo di battaglia definitivo del XXI secolo. A mio avviso potrebbero essere altri gli scenari, ad esempio il delicato confine sino-indiano. Alla luce però dell’incredibile retorica cinese tutte queste parole prima o poi dovranno avere una conseguenza. La posta in gioco è sempre più alta: se gli Stati Uniti abbandonano Taiwan non potranno più essere una potenza egemonica globale ma diventeranno una potenza regionale. Non riesco a comprendere come questo possa avvenire, però potrebbe. È effettivamente una previsione realistica, ma non penso che lo sia nel breve termine.
L’interesse cinese su Taiwan quanto è legato al primato tecnologico e all’industria dei semiconduttori?
Stefano Pelaggi: Queste tecnologie hanno un valore minore di quello che solitamente la stampa occidentale racconta. Innanzitutto, fanno parte di una filiera controllata dalle potenze occidentali: Giappone, Stati Uniti, Gran Bretagna, Olanda, Israele. Senza il design, le materie prime e i macchinari di questa filiera le fonderie di semiconduttori lavorerebbero solo per pochi mesi. Se la Cina prendesse il controllo di Taiwan probabilmente non potremmo avere quei prodotti tecnologici per un po’ di tempo, ma senza la filiera dei Paesi occidentali le fonderie di semiconduttori sarebbero nella pratica del tutto inutili. Allo stesso modo senza le industrie cinesi operanti nei settori tecnologicamente avanzati i Paesi occidentali non potrebbero avere prodotti come smartphone, amplificatori e automobili con l’attuale velocità e costanza. Parlando con chi si occupa di semiconduttori si comprende inoltre come questi non siano il futuro, tanto che numerosi esperti di tecnologia di frontiera ormai affermano che fra quindici anni saranno una tecnologia superata. Ma Taiwan e Paesi come la Corea del Sud e il Giappone sono stati all’avanguardia per decenni da un punto di vista tecnologico e a Taipei ci sono la maggior parte dei data center mondiali. In questi contesti si sta già guardando avanti su settori che tutti quanti conosciamo, dalle auto elettriche all’intelligenza artificiale. I chip non sono l’elemento del contendere: le dinamiche per Pechino sono relative ad una dimensione più che altro ideale, perché Taiwan è il compimento dell’unità nazionale cinese. La Cina si percepisce come una nazione ancora incompiuta proprio per il mancato controllo sull’isola di Taiwan, e per il senso di rivalsa nei confronti delle potenze occidentali. L’isola è vista ancora come l’ultimo elemento di questo passato coloniale e ricopre un ruolo strategico, perché aprirebbe alla Cina la via per il Pacifico. Ma soprattutto è vista come avamposto degli Stati Uniti sul continente asiatico. Queste sono le dimensioni rilevanti di Taiwan nell’ottica cinese, e lo sono ben più dei primati tecnologici dell’isola.
Arrivando al contesto prettamente interno, qual è lo stato attuale dei movimenti di partecipazione civile e quale l’importanza della partecipazione democratica a dieci anni dalla formazione del Movimento dei girasoli?
Stefano Pelaggi: La partecipazione democratica è abbastanza elevata ma non ci sono state le condizioni per le mobilitazioni del tipo del Movimento dei girasoli. Ormai da otto anni il Partito Democratico Progressista (DPP) è al potere e diciamo che si percepisce un po’ di stanchezza tra le giovani generazioni soprattutto rispetto al partito al governo. Lo si vota ma senza grande entusiasmo, perché eccetto l’operato della presidente Tsai Ing-wen alcune aspettative sono state disattese. Assistiamo a un contesto di stagnazione economica e a un tasso di disoccupazione che sale, con i problemi postmoderni che viviamo anche nelle nostre società. Non c’è un elemento catalizzatore come durante il Movimento dei girasoli, che era nato a seguito di un avvicinamento di Taiwan alla Cina. Vediamo comunque un’attenzione alta rispetto alle tematiche sociali e specialmente a quelle ambientali, ma non ad alta intensità.
Insieme al Kuomintang, il Partito Progressista Democratico (DPP) è la formazione politica più influente e ha governato ininterrottamente dal 2016. Quale bilancio si può fare del duplice mandato della presidente Tsai Ing-wen?
Stefano Pelaggi: Un bilancio tutto sommato positivo considerati gli eventi degli ultimi anni, tra la pandemia e la tensione sempre più forte con Pechino. Tsai era un’abile diplomatica e ha navigato questo assordante silenzio nello Stretto in modo positivo. Non ci sono stati momenti di tensione o di attrito fuori controllo con la Repubblica Popolare Cinese e gli unici momenti critici sono stati quelli relativi all’arrivo di Nancy Pelosi, che ovviamente non era dovuto a una volontà di Tsai. In due momenti si è imposta con il salario minimo e con la legge per i matrimoni tra coppie dello stesso sesso. Due questioni significative per gran parte dell’elettorato che l’aveva sostenuta, per cui ha in qualche modo travalicato il suo stesso parlamento. Su altre questioni probabilmente il suo elettorato si aspettava di più ma non penso ci fossero le condizioni per farlo.
Quali forze si sono presentate alle elezioni del 2024 e quali differenti posizioni e identità rappresentano?
Stefano Pelaggi: Si sono presentati ovviamente il DPP – ormai al governo con Tsai Ing-wen da otto anni – e il Kuomintang (KMT), i due partiti che hanno dominato la storia democratica di Taiwan sin dall’inizio. Ci sono stati altri rilevanti partiti negli anni ma non hanno mai conquistato l’attenzione che invece il Taiwan People’s Party (TPP) dell’ex sindaco di Taipei Ko Wen-je ha attirato in questa tornata elettorale. Il TPP è un partito molto peculiare, nato sull’onda del Movimento dei girasoli che era visto e percepito quasi come una costola del DPP, forse un po’ più populista. Nel giro di qualche anno è arrivato a schierarsi contro il DPP e quasi a chiudere un accordo con il Kuomintang. È un partito che riesce a parlare con i giovani a differenza sia del DPP che del KMT. Il DPP in particolare è percepito come un “partito dinosauro”, che si vota turandosi il naso come si diceva un tempo per la Democrazia Cristiana in Italia, e che non crea più gli entusiasmi di qualche anno fa. Mentre Ko Wen-je con il suo partito riesce a catturare elettori che altrimenti non avrebbero votato. Come molti partiti recentemente nati in Occidente, non ha sempre un approccio ben definito e in rapporto alla Cina è stato prima più pro-indipendenza – persino rispetto al DPP – mentre ora si dichiara più dialogante. Questo è un elemento delicato perché l’equilibrio nello Stretto è retto da compromessi semantici, virgole, accenti. Quindi una forza politica e un possibile presidente in futuro che parli al di fuori degli schemi rodati e prestabiliti potrebbe essere un pericolo, perché ogni parola e ogni sfumatura potrebbero avere conseguenze importanti e talvolta devastanti nell’equilibrio dello Stretto.
A seguito della vittoria di Lai Ching-te e del Partito Democratico Progressista alle elezioni del 13 gennaio, si può dire che abbia prevalso la linea più indipendentista. Quali sono state le reazioni internazionali e quali sono le prospettive future nell’ambito delle relazioni tra Cina e Taiwan?
Stefano Pelaggi: Sicuramente l’approccio del DPP rispetto alla relazione con Pechino è legato alla più strenua difesa dello status quo. A livello internazionale ci si può aspettare esattamente il proseguo di quello che è successo con gli otto anni di Tsai Ing-wen, ossia un silenzio e nessun tipo di relazione ufficiale. Ci saranno anche una serie di aspri commenti da parte del Taiwan Affair Office e del Partito Comunista Cinese, come già ci sono stati. Così come ci potrebbe essere un’altra serie di incursioni nello spazio aereo e marittimo taiwanese e altre azioni dimostrative a cui siamo più o meno abituati. Il risultato era ampiamente previsto e penso che gli Stati Uniti siano soddisfatti, perché il DPP è il partito che più rispecchia l’approccio di Washington. È sempre difficile fare previsioni, ma non penso ci saranno venti di guerra nei prossimi mesi. Dopotutto questo credo sia anche il miglior risultato possibile per la Repubblica Popolare Cinese perché non penso che a Pechino auspicassero una vittoria del Kuomintang o del TPP. Un nuovo governo a Taipei avrebbe aperto a una nuova conversazione nello Stretto, che avrebbe dovuto necessariamente passare per una serie di aperture. Penso in particolare alla rimozione di alcuni veti su prodotti commerciali, all’invio di turisti cinesi a Taiwan e all’ammissione di Taipei come osservatore alle riunioni delle Nazioni Unite. Ovvero tutto ciò che è avvenuto dal 2008 al 2016 con Ma Ying-jeou (presidente di Taiwan in quegli anni e membro del Kuomintang, ndr), i cui otto anni di presidenza non hanno portato a risultati positivi. Inoltre oggi Taiwan e la Cina sono diverse. Se in quel momento le aperture hanno accelerato il processo di creazione dell’identità taiwanese, adesso creerebbero una situazione in cui la Cina sentirebbe il dovere di tentare un’azione che probabilmente non avrebbe dei risultati positivi. In vista dell’auspicata unificazione – perseguibile anche attraverso le armi – per la Cina è meglio attendere. Quindi una situazione di continuità con il DPP e di silenzio nello Stretto è maggiormente funzionale nel breve termine. Inoltre, anche la mancanza di una maggioranza chiara nello Yuan legislativo (il Parlamento monocamerale di Taiwan, ndr) con un governo del DPP, è considerata positivamente da Pechino perché dal punto di vista cinese incrinerà ancora di più la dinamica democratica di Taiwan. Per la Cina è infatti molto importante mostrare come il sistema democratico taiwanese sia farraginoso e non risponda alle esigenze dei cittadini. Quindi non è poi così negativo neanche per Pechino un governo del DPP senza maggioranza parlamentare, anche se non lo ammetteranno mai.
A proposito di questo aspetto, dal momento che nello Yuan legislativo non sembra esserci una chiara maggioranza, cosa ci si può attendere invece da un punto di vista interno?
Stefano Pelaggi: Dal punto di vista interno la mancanza di una chiara maggioranza nello Yuan legislativo avrà delle conseguenze. Sembra che il Kuomintang non abbia la maggioranza quindi quella relativa sarà comunque, seppur di poco, del DPP. Il Taiwan People’s Party (TPP) di Ko Wen-je sarà l’ago della bilancia. Non penso che il TPP formerà un’alleanza coesa con il Kuomintang per fare un’opposizione in parlamento contro il DPP, ma sarà abbastanza difficile governare senza una vera maggioranza e potrebbe esserci qualche instabilità. I precedenti non sono incoraggianti, perché nel 2000 e nel 2004 il DPP ha vissuto una situazione analoga e non è finita molto bene. Per solidificare anche il fronte interno la questione dei rapporti con Cina diventa fondamentale e il pericolo è che, per cercare una coesione che manca in parlamento, si possa dare il via ad azioni che possano cementare in altro modo la popolazione taiwanese. E inevitabilmente questa dinamica avviene sempre nel rapporto con Pechino.
[1] Special report | Semiconductors, Taiwan’s dominance of the chip industry makes it more important, «The Economist», 6 marzo 2023.
[2] La legge di Moore (o prima legge di Moore) è stata formulata per la prima volta nel 1965 da Gordon Moore imprenditore e informatico statunitense cofondatore di Fairchild semiconductor e Intel. Tale legge afferma che «la complessità di un microcircuito, misurata ad esempio tramite il numero di transistor per chip, raddoppia ogni 18 mesi (e quadruplica quindi ogni 3 anni)».
[3] La crisi dell’agosto 2022 è avvenuta a seguito della visita a Taiwan dell’allora speaker della Camera degli Stati Uniti, Nancy Pelosi.