Tassare Google? Note sulla web tax italiana
- 30 Novembre 2017

Tassare Google? Note sulla web tax italiana

Scritto da Lorenzo Cattani

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Da molti anni si sente parlare della cosiddetta race to the bottom, la corsa verso il basso del costo del lavoro e della generosità dei programmi di welfare, in cui la forza degli Stati risulterebbe seriamente compromessa da una globalizzazione che modifica i rapporti di forza, permettendo ai fattori più mobili, specialmente i capitali, di spostarsi dove la tassazione è più bassa e scaricando quindi il peso di una maggiore pressione fiscale sul lavoro.

Allo stesso modo si è parlato anche di “integrazione negativa”: gli Stati non hanno più il controllo sui loro confini e le aziende sono libere di delocalizzare e spostare la produzione dove il costo del lavoro è più basso e di conseguenza il Welfare State sarebbe diventato insostenibile.

All’interno di questo discorso emerge particolarmente il ruolo delle aziende Over the Top ovvero quelle aziende che forniscono servizi tramite internet e che maturano profitti a livello globale non avendo la partita IVA del paese in cui commercializzano i propri prodotti. Compagnie come Google o Facebook e altre aziende che si occupano di commercio on-line sono tipici esempi di aziende Over the Top e la loro vicenda solleva un problema di grande rilevanza, che anche Mariana Mazzucato ha affrontato[1].

Si tratta cioè della creazione di sistemi “parassitici” fra pubblico e privato, che molto spesso portano lo Stato a non maturare guadagni diretti e nemmeno indiretti dalle attività delle aziende. L’autrice italo-americana discuteva queste tematiche alla luce del ruolo enorme che lo Stato ha avuto, per esempio tramite la creazione della Darpa[2], nel finanziare la ricerca che ha permesso la creazione di tecnologie che si sarebbero poi rivelate fondamentali per aziende quali Google o Apple.

Cosa possiamo dire però di quei paesi in cui lo Stato non ha avuto lo stesso ruolo per quelle aziende, ma che contribuisce in maniera attiva al successo economico delle stesse? Sono questi i temi al centro del dibattito sulla web tax, attualmente in discussione in Parlamento all’interno della legge di bilancio, che farebbe dell’Italia il primo paese a proporre uno strumento fiscale per drenare risorse da aziende che fino ad oggi sono state in grado di eludere il fisco.

La web tax consisterebbe in una cedolare del 6% sui ricavi da attività digitale per gli operatori senza stabile organizzazione e rappresenterebbe un primo tentativo per la gestione di queste problematiche. Tuttavia, emergono subito due questioni: la prima è quella della disparità di trattamento lamentata dai distributori commerciali, la seconda riguarda la possibilità di competere “al ribasso” per attrarre sul territorio domestico aziende come Amazon o Facebook. In Italia, la tassazione sugli operatori fisici è compresa fra il 30% e il 40%, molto di più del 6% previsto dalla web tax, e solleva un problema di disuguaglianza che inevitabilmente si lega a quello della “corsa al ribasso”.

La tassazione delle aziende Over the Top da parte di una singola nazione potrebbe, ad esempio, innescare una competizione “al ribasso” fra più paesi, mirata a spingere le aziende a spostare la propria stabile organizzazione dove vengono offerte condizioni fiscali migliori. È comunque ragionevole affermare che, per quanto i margini di miglioramento siano decisamente ampi, un’iniziale tassa nazionale al 6% possa essere un buon inizio per un processo che dovrà in futuro ampliare il suo orizzonte, oltrepassando la dimensione nazionale per raggiungere quella sovranazionale. Non è nemmeno escluso che dalle iniziative nazionali sorgano situazioni difficili per le stesse aziende Over the Top, che potrebbero ritrovarsi ad affrontare differenti regimi di imposizione fiscale, elemento da non sottovalutare e che difficilmente non rappresenterebbe un problema[3].

È proprio in questo ambito che emerge il ruolo di cui l’Unione Europea deve farsi carico, cioè quello di introdurre in tempi brevi un’armonizzazione fra i paesi membri che limiti la competizione interna e possa permettere in futuro di introdurre livelli di pressione fiscale anche superiori a quelli attualmente in discussione. Il tutto senza dimenticare la necessità di presentare alle aziende la possibilità di trattare con una sola autorità fiscale, avendo quindi più certezze sull’imposizione. Se l’UE decidesse quindi di muoversi in tal senso la web tax nazionale molto probabilmente diventerebbe obsoleta, ma questo non significa che il livello nazionale sia inutile, l’importante è che non rappresenti un punto di arrivo ma di partenza.

Le teorie della corsa al ribasso o dell’integrazione negativa, secondo cui lo Stato risulterebbe fatalmente indebolito nel drenaggio di risorse tramite la leva fiscale che renderebbe insostenibile il finanziamento del Welfare State e che modificherebbe i rapporti di forza fra capitale e lavoro, limitandosi a prendere il singolo Stato come misura di analisi presumono che il declino degli Stati nazione sia inevitabile. La situazione invece può cambiare molto se vi fosse una reale collaborazione fra Stati. Il coordinamento fra paesi sarà la chiave di volta da cui dovrà passare la risposta degli stessi e, analogamente a quanto affermato da Piketty circa la tassazione del capitale, un importante punto di partenza lo si può ottenere a livello continentale.

È anche su questi temi che bisognerà lavorare per costruire un’integrazione europea più stretta, che miri alla creazione di legami di solidarietà fra paesi e superi l’attuale paradigma di una competizione fiscale interna che nel lungo termine rischia diventare insostenibile. Appare quindi chiaro come la web tax non sia solo uno strumento per drenare più risorse tramite la leva fiscale, ma anche un importante veicolo di interesse nazionale e sovranazionale, da cui il confronto fra paesi europei non potrà prescindere.

In occasione dell’inaugurazione dell’anno accademico alla Bocconi, Margrethe Vestager, commissario europeo alla concorrenza, ha affermato che nonostante la web tax sia un’iniziativa interessante sarebbe più consigliabile un intervento europeo. Al riguardo, Vestager ha affermato che da un intervento europeo si potrebbero raccogliere 50 miliardi di euro di tasse[4], mentre dall’applicazione della web tax italiana sono previsti incassi per circa 114 milioni di euro[5]. La differenza fra le due cifre è rilevante e va tenuta assolutamente in considerazione quando si fanno riflessioni su queste tematiche.

Il tema dalla tassazione delle multinazionali in generale, non solo delle aziende Over the Top, è un tema che gli Stati dovranno necessariamente affrontare, eppure risulta difficile porsi un orizzonte di riferimento. In questi casi non bisognerebbe avere paura di pensare in grande, anche ponendosi obiettivi ambiziosi, ma che potrebbero produrre interessanti risultati nel tentativo di essere raggiunti.

Da questo punto di vista Anthony Atkinson ha lanciato un paio di suggerimenti degni di essere presi in considerazione: secondo l’autore britannico sarebbe infatti utile perseguire l’idea di un «regime fiscale globale per i contribuenti individuali, basato sulla ricchezza totale, e un’imposta minima per le società»[6]. Mettendo da parte temporaneamente ciò che Atkinson dice sugli individui, l’idea di una minimum tax potrebbe essere un’idea molto interessante da perseguire soprattutto in sede europea, anche se Atkinson l’aveva pensata come strumento prettamente nazionale.

Una tassa minima europea potrebbe rappresentare un’interessante soluzione non solo per le aziende “Over the Top”, ma anche per altre aziende, soprattutto multinazionali, che nel tempo sono diventate molto esperte nel massimizzare i vantaggi fiscali ottenibili da determinate esenzioni. Con una tassa minima si potrebbe quanto meno puntellare questa tendenza. Se l’idea di una tassa mondiale può sembrare utopica, l’idea di una tassa europea è decisamente più concreta, ma questo non significa che non si debba mirare alla creazione di una World Tax Administration che possa creare un regime fiscale mondiale. All’interno di un simile regime è chiaro che il margine che alcune aziende potrebbero avere nell’eludere il fisco sarebbe molto limitato e per quanto possa sembrare assurdo parlare di “regime fiscale mondiale” in questo momento, non sarebbe insensato iniziare a rifletterci sopra[7].

Il problema di fondo è lo stesso che Mariana Mazzucato ha brillantemente descritto ne Lo Stato Innovatore, quando parlava di come la minor capacità di drenare risorse tramite la tassazione produca effetti di lungo periodo preoccupanti poiché vuol dire che, tendenzialmente, lo Stato ha meno capacità di finanziare l’innovazione ma anche il Welfare State. Pensare a sistemi innovativi per restituire tali risorse agli Stati è un passaggio fondamentale a cui la politica dovrà prestare un’attenzione sempre più crescente. La web tax in questo senso può essere un interessantissimo punto di partenza, un mezzo per raggiungere un fine.


[1] Nel suo libro “Lo Stato Innovatore”, Mariana Mazzucato si sofferma soprattutto sul caso della Apple, altra azienda nota per le sue vicende fiscali e che un anno fa è stata costretta dalla Commissione Europea a pagare una multa di 13 miliardi di euro in tasse non pagate all’Irlanda. Inoltre discute anche della sperequazione nella distribuzione dei profitti all’interno dell’azienda stessa.

[2] La Defense Advanced Research Project Agency (DARPA), è un’agenzia governativa statunitense fondata nel 1958. In seguito al lancio dello Sputnik, che aveva fatto temere agli USA di restare indietro nella competizione, la DARPA ha finanziato importantissime ricerche che hanno prodotto innovazioni importantissime come internet, la memoria Dram o il microprocessore.

[3] Bartoloni, M. I colossi del web: dialogo ma no a «fughe in avanti», Il Sole 24 Ore, 28/11/2017.

[4] Cfr. Magnani, A. Vestager: «Web tax? Interessante, ma meglio un intervento europeo», Il Sole 24 Ore, 28/11/2017.

[5] Cfr. Mobili, M. Arriva la Web tax dal 2019, escluse piccole imprese e agricoltori, Il Sole 24 Ore, 26/11/2017.

[6] Cfr. Atkinson, A. (2015), Disuguaglianza: che cosa si può fare? Raffaello Cortina.

[7] Ovviamente a quel punto la cosa più importante di cui discutere sarebbero i criteri di suddivisione dei profitti fra i paesi così come le regole con cui delimitare la base imponibile ad esempio.

Scritto da
Lorenzo Cattani

Assegnista di ricerca presso l’Università di Bologna dove ha conseguito un dottorato di ricerca in Sociologia e ricerca sociale. Ha frequentato un Master in Human Resources and Organization alla Bologna Business School (BBS) e conseguito la laurea magistrale in Scienze internazionali e diplomatiche all’Università di Bologna.

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