Recensione a: Tempi Moderni 2030. Dalla deindustrializzazione alle nuove onde dello sviluppo, Fondazione Giangiacomo Feltrinelli, Milano 2021 (ebook scaricabile liberamente)
Scritto da Giacomo Centanaro, Alberto Prina Cerai
13 minuti di lettura
Il concetto di industria e le sue applicazioni hanno definito lo sviluppo della società occidentale negli ultimi tre secoli e rappresentato un paradigma di successo verso cui qualunque comunità politica non europea avrebbe dovuto tendere per conquistare un “diritto di cittadinanza” in una comunità internazionale ineguale e competitiva. Questa complessa e multiforme dinamica ha alla base il fatto che la struttura sociale e l’identità di un Paese si rispecchiano nell’organizzazione della sua economia. Ciò che è scontato non è sempre privo di complessità, e proprio sulla complessità delle interrelazioni tra la triade società-identità-economia si sono sempre concentrati gli sforzi intellettuali degli studiosi di scienze sociali. Anche se spesso la “realtà fattuale delle cose” precede la riflessione, non è detto che sia facilmente assimilabile; il fenomeno della deindustrializzazione delle economie avanzate occidentali è in questo senso emblematico. I periodi di crisi più acuti si registrano nelle fasi di transizione da un paradigma a un altro, in cui – come tessere del domino disposte a spirale – scompensi economici, sociali e politici si susseguono senza soluzione di continuità. Tempi moderni 2030. Dalla deindustrializzazione alle nuove onde dello sviluppo, pubblicazione curata dalla Fondazione Giangiacomo Feltrinelli che prende le mosse dall’omonimo ciclo realizzato da Fondazione Leonardo – Civiltà delle Macchine e dalla stessa Fondazione Giangiacomo Feltrinelli, porta avanti la riflessione sulla centralità della dimensione manifatturiera per l’Italia, sulle ferite non rimarginate della deindustrializzazione e su quali possibili paradigmi possano seguire.
La prima parte si apre con una densa riflessione dello storico e sociologo Marcel van der Linden, sul concetto di “deindustrializzazione” e sulle sue cause e conseguenze. Il fenomeno custodisce tre connotazioni differenti ma interconnesse, di cui la prima è quella storica. Questo concetto ha fatto breccia nel dibattito storiografico soltanto di recente: vuoi per un interesse degli storici votato allo studio dei rapporti e dei conflitti tra lavoro e capitale, piuttosto che alla loro scomparsa, vuoi per le ripercussioni sociali e politiche nel lungo termine. L’autore ripercorre, dal colonialismo inglese nelle Indie sino alla crisi degli anni Settanta, alcuni passaggi eclatanti come la scomparsa del settore tessile indiano, schiacciato dal protezionismo britannico, fino all’ascesa e alla caduta della cantieristica navale occidentale. Un caso di studio, ma anche un esito già scritto che ci racconta molto bene la forza dirompente dei cicli tecnologici ed economici che si rincorrono in un vortice senza fine e dal quale molto spesso l’industria fatica a sfuggire. La seconda accezione è quella “semantica”, dalla quale non si può prescindere per comprendere appieno il fenomeno. L’autore infatti propone una ricognizione di ben sei diversi tipi di deindustrializzazione. L’aspetto interessante è che ben cinque su sei siano «forme di delocalizzazione», di capitale o lavoro, che alla fine «portano al declino industriale» e che non fanno altro che «rimandare i conflitti e le crisi» ma senza «impedirli» (p. 22). Il terzo e ultimo aspetto è quello politico-sociale, ovvero quali forme hanno assunto la resistenza alla deindustrializzazione nel corso dei decenni e gli effetti a lungo termine sulle comunità dei distretti industriali. Il fenomeno ha avuto ricadute laceranti su diversi livelli della società, marcando divisioni, disuguaglianze e drammi per famiglie, minoranze etniche ed esclusi. In conclusione, l’industrializzazione di una regione può essere spesso la de-industrializzazione di un’altra e viceversa. Comprendere gli aspetti transnazionali di questo fenomeno, in tutte le sue conseguenze – sociali, economiche e politiche – è un necessario punto di partenza per affrontare il dibattito sullo sviluppo sostenibile: nella sua scala spaziale globale (intra-generazionale) oltre che temporale (intergenerazionale). Ma che cosa fare della deindustrializzazione di un territorio? Come si affronta la lacerazione di un tessuto produttivo? La testimonianza di Stefan Berger, direttore dell’Istituto dei Movimenti Sociali e professore di Storia dei movimenti sociali presso l’Università della Ruhr a Bochum, è in questo senso preziosa e ci insegna che «gli esiti possibili» sono molteplici, come dimostra il caso della Ruhr. La «patrimonializzazione del passato industriale» ha avuto forme differenti, a seconda della tipologia di deindustrializzazione. Nel caso della regione renana – simbolo e locomotiva dell’ascesa a potenza industriale della Germania nel tardo Ottocento –, il declino dell’industria dell’acciaio e del carbone è diventato, controintuitivamente, un forte aggregatore comunitario. Grazie alla forte presenza di «tradizioni corporativiste» e alla contemporanea politicizzazione della crisi industriale da parte della SPD, il patrimonio industriale è «diventato la principale testimonianza del passato della regione e una vera e propria icona dell’identità regionale» (p. 37) e rappresenta quell’humus culturale di un complesso che è oggi un distretto «dell’industria della conoscenza», alimentato tanto dal turismo quanto dalla presenza di startup innovative.
La seconda parte prosegue con un saggio di Salvatore Romeo, storico e già borsista dell’Istituto Italiano di Studi Storici. Dal cuore industriale del Vecchio Continente all’apice della sua egemonia otto-novecentesca, la riflessione si sposta sulle ripercussioni che la deindustrializzazione europea più recente ha avuto, ieri e oggi, soprattutto nel contesto della pandemia. L’autore ricostruisce in poche pagine il fenomeno, ricollegandosi all’approccio in politica economica e commerciale della Germania, segnato da quattro grandi passaggi: la crisi degli anni Settanta, la fine della Guerra fredda, l’approfondirsi dell’integrazione monetaria e infine la Grande Recessione del 2008. In sostanza, «l’affermazione della supremazia delle imprese tedesche ha portato a una semplificazione del quadro dell’industria europea», con effetti evidenti sul tessuto industriale italiano progressivamente divenuto in misura crescente ancillare a quello tedesco, e sulla de-politicizzazione della questione industriale in Europa che ha seguito «esigenze e interessi di una particolare frazione dei gruppi imprenditoriali» (pp. 44-45). Le nuove forme dell’economia industriale nell’era globale, inoltre, come le origini stesse dell’industria ci ricordano, hanno effetti dirompenti sui tessuti sociali. I Trenta gloriosi sono stati in questo senso la massima espressione dell’equilibrio raggiunto tra politica e industria, tra comunità e distretti. In Italia la rottura di questo compromesso – una sorta di «competizione solidarista» – su pressione dell’integrazione globale è stata fatale per la fortuna della mediazione tra capitale e lavoro, «colpita dall’alto dalla crescente autonomia dell’impresa» e «squalificata dal basso dalla reazione dei cittadini» per le selvagge delocalizzazioni. Oggi, dunque, il dibattito sull’industria europea non è tanto una questione tecnica ma «un grande problema politico», perché «alla fragilità di fondo del modello mercantilista» evidenziata dalla crisi delle supply chain, «si associa il progressivo restringimento delle basi della democrazia» (p. 49). Una nuova economia industriale sarà foriera di nuove realtà sociali. E questo è ancor più evidente, a parere di chi scrive, se pensiamo alla transizione verso l’auto elettrica. Dai veicoli realizzati tramite materiali poveri e manodopera specializzata, a veri e propri “computer con le ruote”, costituiti di metalli rari, software, microchip e prodotti attraverso poca manodopera, commercializzati con nuove pratiche all’insegna dello sharing. Dunque, se sarà reshoring di attività produttive 4.0, sarà lecito domandarsi se e come ci sarà anche re-politicizzazione o quali interazioni queste attività indurranno nelle comunità locali. La fotografia ha avuto, da questo punto di vista, un ruolo molto potente nel dirigere la narrazione sulla deindustrializzazione. Il viaggio fotografico di Federico Rossin, accompagnato da un’abile critica degli usi più consueti delle mostre e degli archivi privati, ci dimostra come troppo spesso le immagini siano state volutamente trasformate in «oggetti estetici» da contemplare, piuttosto che rappresentare l’inizio di un «processo conoscitivo». Ciò è avvenuto spogliandole di contenuto, de-contestualizzandole e così operando una sorta di neutralizzazione del loro racconto di conflitti sociali. Nel caso di alcune immagini di industria e deindustrializzazione italiana, la successione passato-presente-futuro è talmente perfetta da risultare ineluttabile, «funzionale ad una narrazione naturalizzante dell’Italia e del suo destino economico» (p. 60). Dunque, il messaggio è forte: la fotografia e la ricostruzione degli archivi fotografici deve essere un’operazione critica, che consenta agli spettatori di avere gli strumenti per disfarsi dei cliché abituali, e così leggere le immagini per capire davvero le complessità della storia industriale.
La terza parte si proietta al futuro e ospita un interessante dialogo tra Marco Bucci, sindaco di Genova, e l’attuale Ministro della Transizione Ecologica Roberto Cingolani, all’epoca Chief Technology e Innovation Officer di Leonardo, sul destino della città portuale nel contesto della transizione digitale, tra opportunità d’investimento e nuove forme di sviluppo. L’ambizione è quella di trasformare Genova anche in un «porto dei Big Data», per affrontare le problematiche attuali con un occhio alle generazioni future. La discussione poi prosegue tra Roberto Giannì, Vezio De Lucia e Sergio Prete che condividono esperienze e riflessioni sull’epopea dell’ILVA e della città di Taranto. Un episodio che rappresenta uno dei tasti più dolenti nella storia industriale del nostro Paese. In questo passaggio, la deindustrializzazione del sito, con le sue tristi e pesanti ripercussioni sociali, politiche e ambientali, si tinge di futuro. Tra le varie proposte, la prospettiva di uno sviluppo verde e sostenibile dell’acciaieria rappresenterebbe la perfetta sintesi dello slancio al 2030 (non a caso, l’orizzonte delle Nazioni Unite per il raggiungimento degli obiettivi di sviluppo sostenibile). Da una parte lasciandosi alle spalle i retaggi della “monocultura siderurgica” e dall’altra cercando un nuovo equilibrio, per preservare i lavoratori, l’ambiente e la città stessa. Perché anche la riqualificazione del porto, sottratto alla sua vocazione antica dalla presenza dell’industria siderurgica, potrebbe essere un momento di rilancio per riappropriarsi della sua identità commerciale, diversificando le attività in un contesto, quello Mediterraneo, dalla forte valenza strategica per il Paese. Durante l’evento Napoli Universale, il 19 novembre 2020, l’allora Ministro dell’Università e della Ricerca Gaetano Manfredi affrontò la complessa tematica della transizione industriale, riferendosi al ruolo particolare che l’università pubblica avrebbe potuto ricoprire nel processo, portando ad esempio il polo dell’Università Federico II a San Giovanni a Teduccio nel quale è ospitata anche la iOS Academy di Apple, «un ottimo paradigma di quel che significa operare una trasformazione industriale in una dimensione che guarda al futuro». Per la loro storia, le fabbriche hanno rappresentato un importante fattore di identità collettiva. «In un’economia delle conoscenze le “nuove” fabbriche sono per l’appunto quelle della conoscenza, che rappresentano anche l’opportunità per una nuova identità dei territori» e qui si inserisce il ruolo delle università, capaci di attrarre il mondo delle imprese, offrendo formazione innovativa. Inoltre, sulla scia di Apple, gli investimenti in formazione hanno aperto la strada per l’interessamento all’hub da parte di Cisco, Deloitte, TIM, Nokia, Merck, Medtronic e Dompè.
Il modello delle academy di grandi gruppi industriali nazionali o internazionali è ormai in fase di diffusione in tutta Italia e facilita a sua volta l’insediamento di altre imprese, attratte dal bacino di manodopera qualificata, rendendo quindi possibile un triplice rapporto tra imprese, ricerca e formazione e territorio. Una “fabbrica di conoscenza” diventa quindi la nuova attività attorno a cui ruota la vita economica del luogo. Il caso di San Giovanni a Teduccio rappresenta anche l’esempio di come investimenti di risorse europee e la collaborazione tra Stato, territorio e istituzioni locali come regioni e comuni possano dare luogo a casi di virtuosa concertazione multilivello, sostenuta anche dalla presenza di soggetti finanziari bancari e di venture capital. Tutti questi elementi concorrono a creare i cosiddetti “ecosistemi dell’innovazione”, il cui sviluppo in Italia e nel Mezzogiorno è già realtà. In questa dinamica, le competenze digitali rivestono un ruolo decisivo, sia sotto forma di personale specializzato – ad esempio in materia di intelligenza artificiale – sia come competenza diffusa della comunità economica di professionisti di un territorio. Sempre in Campania è presente l’esempio dell’innovation hub di Leonardo a Pomigliano d’Arco, dedicato al rapporto tra la grande impresa pubblica e il mondo della ricerca universitaria. L’ecosistema dell’innovazione della Campania ha già raggiunto traguardi importanti: Napoli è la terza città italiana per startup innovative, la Campania la terza regione del Paese per startup. Il punto centrale è, a livello pratico, quello espresso da Valeria Fascione, Assessore alla Ricerca, innovazione e startup della Regione Campania: la trasformazione in valore economico della ricerca e dell’innovazione. Un esempio viene dal percorso di 150 aziende, accolte nell’incubatore di Città della Scienza, con la creazione di progetti di post-incubazione, che raccolgano i soggetti più solidi per costituire un cluster di imprese.
La questione della trasformazione industriale investe inevitabilmente anche quella del futuro delle città, sia dal punto di vista del tessuto economico sia da quello ambientale. Un esempio paradigmatico è quello di Taranto, presentato nel rapporto da un intervento del sindaco Rinaldo Melucci. A Taranto la dimensione della transizione tecnologica incorpora la questione ambientale e di salute pubblica e assume una particolare urgenza che, però, deve fare i conti con il ricatto occupazionale delle colossali attività siderurgiche, che rappresenta un fattore che non può essere tralasciato. Melucci si riferisce al processo come al «superamento dell’altoforno come simbolo quasi escatologico di un certo modello di sviluppo novecentesco» (p. 91). La sfida di coniugare nuovi modelli di sviluppo industriale con le esigenze delle comunità vede aggiungersi, a Taranto, anche l’eredità di un modello di grande impresa pubblica che, una volta entrato in crisi, ha lasciato una scarsa propensione al rischio di impresa e una disgregazione delle classi economiche cittadine. Sotto questi aspetti Taranto è un terreno di prova paradigmatico per le sfide socioeconomiche dei Paesi occidentali, che vive il precipitato di trend internazionali, come ricorda il Ministro Enrico Giovannini, citando il cambio di preferenze di investitori e mercati internazionali: «La filiera dell’automobile si sta indirizzando verso l’elettrico perché le imprese tedesche hanno già deciso che non vogliono avere più nulla a che fare con catene di forniture non rispettose della sostenibilità. […] La finanza già ora, anche a causa della pandemia, sta dando un’accelerazione straordinaria sul tema, non finanziando più imprese che non redigono la rendicontazione non finanziaria» (p. 97).
Cesare Moreno, Presidente dell’associazione Maestri di Strada, porta l’attenzione sul capitale sociale e umano come fattore qualificante del reale benessere sociale di una comunità, da porsi necessariamente accanto allo sviluppo economico dato dalle attività industriali. Su questa dimensione è incentrato il progetto CUBO: Cantiere Urbano per le Trasformazioni Educative e l’Innovazione Sociale, che si propone di «coniugare l’innovazione tecnologica con la sostenibilità ecologica ed economica e con la partecipazione civile, e tutto questo è parte della rigenerazione urbana […] attivare quindi la rigenerazione urbana partendo dalla costituzione e valorizzazione del capitale sociale» (pp. 100-101). Moreno insiste sul fatto che non si possa, come avvenuto invece nel passato, delegare la trasformazione culturale di una comunità alla fabbrica come istituzione economica e sociale. Questa, infatti, può portare benessere economico e classi sociali coese, ma il ruolo culturale pertiene in primis a forze sociali e corpi intermedi, senza “fabbriche civili” il rischio è quello del mantenimento di storture sociali. Guardando alle necessità e alle questioni contemporanee, nella visione di Moreno, è la partecipazione civile a fare da apripista per l’innovazione tecnologica e la sostenibilità, soprattutto nei grandi contesti urbani del Mezzogiorno: «Lo sviluppo della risorsa umana, la crescita civile delle popolazioni sono stati i fattori trascurati quando si è proposta l’industrializzazione del Mezzogiorno come principale motore di un possibile sviluppo, quasi ci fosse un determinismo che a seguito dell’impianto industriale portasse a sviluppare anche la partecipazione. Ma seppure c’è stata una crescita localizzata e provvisoria della vita civile, quando è arrivata la deindustrializzazione il tessuto sociale si è rivelato privo di coesione» (p. 102). In questa dinamica, CUBO si propone come centro operativo culturale per portare avanti iniziative legate all’innovazione tecnologica, tecnica e allo sviluppo di competenze su più livelli, di cui due esempi sono il progetto Dimostratore Tecnologico – Energie Rinnovabili, Smart Systems, Mobilità Sostenibile – DITER e SCIA (Scienza con i Cittadini per l’Ambiente) – Polo Educativo Formativo di cittadinanza ecologica.
Nel contributo Il quadro globale della politica industriale: sicurezza nazionale e filiere strategiche, che chiude la pubblicazione, Alessandro Aresu – analista strategico e autore di Le potenze del capitalismo politico. Stati Uniti e Cina – si concentra sul delineare le evoluzioni delle forme che le politiche industriali hanno assunto in momenti decisivi della storia recente. La casistica scelta comprende le trasformazioni che hanno permesso alle “tigri asiatiche” di balzare sui mercati mondiali, ma si concentra sui cambiamenti delle strategie industriali delle due superpotenze che in questi anni si contendono il primato tecnologico. Aresu inizia ricordando l’importante passaggio avvenuto con la Grande Recessione legata alla crisi finanziaria del 2007-2008, quando il primo cambiamento in materia di politiche industriali avvenne nel dibattito pubblico e nelle percezioni di chi lo animava; si ricorda come nel 2010 l’economista Dani Rodrik salutasse il “ritorno della politica industriale”, per via dei provvedimenti presi da numerosi Paesi occidentali, che diedero vita a una rinnovata letteratura sullo Stato imprenditore. Tuttavia, «risulta sempre più evidente che l’abbandono delle politiche industriali è stata un’illusione ottica o una mera scelta ideologica. Che l’abbiano rivendicato o meno, sulla scena internazionale numerosi sistemi di successo si sono basati su politiche pubbliche governative che hanno accelerato trasformazioni strutturali» (p. 113); di nuovo, un esempio paradigmatico sono le economie manifatturiere asiatiche che nel giro di poche generazioni hanno raggiunto redditi pro capite elevati, rimanendo sulla frontiera tecnologica. È importante notare come una nuova sensibilità “geopolitica” sia ormai pienamente presente anche nella grammatica con cui la Commissione europea – nella persona del Commissario per il mercato interno Thierry Breton – articola i suoi piani per il futuro dell’industria europea anche alla prova della pandemia, delle sfide della transizione ecologica, dell’approvvigionamento di materie prime critiche e della tute delle catene del valore. Per comprendere la natura di queste dinamiche è necessario, secondo Aresu, guardare alla fenomenologia delle politiche industriali delle grandi potenze come Stati Uniti e Cina, vedere in base a quali imperativi queste vengono pensate, a causa di quali minacce si sviluppano e come strumenti legislativi pensati per affrontare una crisi possono evolvere e ri-adattarsi a nuovi contesti. Per quanto riguarda gli Stati Uniti, l’imperativo condiviso in maniera bipartisan dalla politica è stata la tutela della sicurezza nazionale, dipendente quindi anche dalla dimensione economico-tecnologica: «Nel capitalismo politico è la sicurezza nazionale a generare le possibilità di intervento da parte delle potenze nell’operato dei mercati, non solo attraverso interventi pubblici nel capitale delle imprese, ma attraverso un armamentario molto più sofisticato, legato alle politiche di incentivi, all’operato delle agenzie pubbliche nel procurement, alla promozione di tecnologie in modo selettivo, all’utilizzo della regolazione per scopi geopolitici, allo screening degli investimenti esteri e al controllo delle esportazioni» (p. 114).
Alcuni esempi dell’arsenale di strumenti che sono oggi a disposizione dell’amministrazione statunitense hanno avuto la loro prima applicazione in contesti molto specifici: il Trading with the Enemy Act del 1917 grazie a cui il Presidente può limitare e monitorare il commercio tra gli Stati Uniti e i nemici in tempo di guerra, l’International Emergency Economic Powers Act del 1977, da attivare in seguito alla determinazione di un’emergenza nazionale, oppure, in maniera lampante, il Defense Production Act utilizzato da Truman per la riconversione industriale durante la Guerra di Corea, impiegato durante la pandemia per la riconversione della filiera biomedicale statunitense, scopertasi carente. Per prevenire situazioni di dipendenza critica dall’estero, magari in un contesto di scarsa diversificazione e di fragilità dei mercati, si sono sviluppati – nel solco di un trend globale – anche strumenti di controllo degli investimenti. Citando il rafforzamento del comitato di controllo degli investimenti esteri del Dipartimento del Tesoro (CFIUS), Aresu spiega che «l’aggressività della politica industriale statunitense dipende dal livello della competizione geopolitica e dai suoi effetti economici, ma non prescinde mai da un’idea selettiva delle industrie. In termini offensivi e difensivi. Il rafforzamento degli strumenti di screening sugli investimenti esteri negli anni Ottanta è stato generato dalla competizione tra gli Stati Uniti e la potenza manifatturiera in ascesa dell’epoca, il Giappone». Si trattava, allora, di tutelare l’industria dei semiconduttori, ad oggi il CFIUS può intervenire su transazioni nei campi di «telecomunicazioni, all’energia, all’idrico, alla finanza, alla base industriale della difesa, ai porti, alle biotecnologie, alle nanotecnologie, all’intelligenza artificiale, alla microelettronica». Strumenti di controllo degli investimenti più consistenti si sono osservati anche nell’ordinamento italiano – come il golden power – in linea con gli altri Paesi europei, che si sono attivati in energiche dimostrazioni, come la difesa della “nazionalità” francese di Carrefour da parte del ministro Bruno Le Maire. Per quanto riguarda la Cina, invece, Aresu riporta come questa rifiuti un’identità di “capitalismo di Stato”, evidenziando appena possibile come il 60% dell’economia della Repubblica Popolare sia di natura privata. I pilastri principali della politica industriale del Partito Comunista sono «la protezione di alcuni settori dalla competizione, l’investimento in ricerca e sviluppo, l’enorme disponibilità di credito agevolato», inoltre davanti a potenziali minacce poste da eccessive concentrazioni di potere o ricchezza da parte di oligarchie private, si veda Alibaba, «il Partito ama la concorrenza». Nella competizione tra le due superpotenze, considerazioni di mercato e di sicurezza nazionale si intersecano senza soluzione di continuità, con giganti finanziari e digitali privati costretti a giostrarsi tra veti incrociati, normative e agenzie governative che supervisionano attentamente ogni operazione. Nel mentre, alla dimensione del conflitto si aggiunge quella dell’innovazione tecnologica, dei tentativi di reshoring industriale dalla Cina, secondo Aresu irrealistici e con precedenti fallimentari. La discussione torna, infine, alla situazione italiana, una ricca economia di trasformazione, che tante occasioni ha colto e tante ha perso, soffrendo in settori come le telecomunicazioni e i servizi digitali un impoverimento tecnologico che pesa sullo sviluppo del Paese. Il recupero italiano, secondo Aresu, passa «dalla capacità di individuare e sostenere le filiere emergenti. Da una nuova attenzione per le istituzioni che, a vario titolo, alimentano la politica della ricerca e della tecnologia, […] rafforzare il rapporto tra risparmio e investimento, in modo da stimolare la crescita dimensionale delle imprese e l’attrazione di investimenti privati» (p. 121).
Tempi moderni 2030 rappresenta una preziosa sintesi di alcuni degli aspetti centrali che hanno riguardato l’esperienza industriale in Italia, un cammino lungo secoli, vissuto da ogni componente del Paese con sentimenti diversi. Un fenomeno che ha incarnato idee per un’Italia diversa, aspirazioni di progresso e avanzamento di un Paese ancora diviso e arretrato che già Cavour aveva avuto ben presenti fin dal suo viaggio di formazione nel Regno Unito, quando vide il progresso reificarsi nella rete ferroviaria che si estendeva febbrilmente in tutta l’Inghilterra; guardando ai lavori per completare la linea Greenwich-Londra, il giovane conte nelle sue memorie riferirà di aver assistito a «quelque chose de merveilleux». L’industria, come precipitato concreto delle aspirazioni alla modernità ha mantenuto, nel nostro come in molti altri Paesi occidentali, la sua carica valoriale. Tuttavia, in una nazione affamata di legittimità e di riconoscimento da parte delle altre potenze, essa ha sempre rappresentato anche un riscatto nazionale da quello stato di inferiorità che era stato cucito addosso all’Italia in maniera orientalista e contro cui Enrico Mattei – tra i primi esempi di una nuova e importante noblesse d’État forgiatasi nella grande industria pubblica – avrebbe combattuto tutta la vita. L’importanza che la pubblicazione meritevolmente dedica non solo a questioni tecnico-economiche, ma anche alla dimensione emotivo-identitaria che le comunità sviluppano in simbiosi con le proprie attività di sostentamento sottolinea la complessità e l’intersecarsi del razionale con l’irrazionale in ogni fenomeno sociale. Ettore Sottsass in Per qualcuno può essere lo spazio ha scritto: «La nostra storia è lo spazio, la nostra esistenza noi la raccontiamo con lo spazio», questo spazio per le vite di decine di milioni di italiani è stato, ed è, quello dell’industria.