“Teoria critica dell’Antropocene” di Paolo Missiroli
- 19 Luglio 2022

“Teoria critica dell’Antropocene” di Paolo Missiroli

Recensione a: Paolo Missiroli, Teoria critica dell’Antropocene. Vivere dopo la terra, vivere nella terra, Mimesis, Milano-Udine 2022, pp. 140, 12 euro (scheda libro)

Scritto da Giulio Pennacchioni

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Oggi, nell’epoca in cui la pandemia da Covid-19 ha stravolto le nostre vite e in cui i rapporti dell’IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change) diventano di anno in anno più preoccupanti, viene sempre più spesso menzionata una parola: Antropocene. Ma che cos’è l’Antropocene? È solo il nome dell’attuale epoca geologica o è possibile rintracciare in questo termine anche altri significati? Fornire un quadro complessivo del dibattito attorno al concetto di Antropocene è il primo degli obiettivi del libro di Paolo Missiroli Teoria critica dell’Antropocene, edito da Mimesis a febbraio 2022. Già dalle prime pagine, Paolo Missiroli fornisce da subito al lettore una definizione minima di Antropocene, «tanto vaga quanto poco funzionale» (p. 12), riportando brevemente i passaggi fondamentali delle due scienze in cui questo concetto si è sviluppato: la climatologia e la geologia. L’ambito di studio di entrambe queste discipline è il Sistema Terra: infatti la scienza del Sistema Terra (Earth System Science), sviluppatasi a partire dalla fine degli anni Settanta, è il solo quadro epistemologico a partire dal quale le due scienze e il concetto di Antropocene possono darsi. Nucleo centrale dell’ESS è la seguente affermazione: «Il Sistema Terra si comporta come un singolo sistema auto-regolantesi composto da elementi fisici, chimici, biologici e umani, con interazioni complesse tra queste stesse componenti»[1]. Dal punto di vista storico, è stato il meteorologo Paul Crutzen ad avviare il dibattito sull’Antropocene, facendo iniziare quest’epoca geologica nel 1784, ossia l’anno in cui James Watt brevettò la prima locomotiva a vapore della storia, andando così a porre le basi per quel ciclo di emissioni di CO2 che prosegue ancora oggi. Premessa a tale posizione, molto diffusa nel primo decennio del XXI secolo, è che l’Antropocene coincida con il momento in cui l’uomo ha iniziato a influenzare la concentrazione in parti per milione della CO2 nella stratosfera. L’approccio propriamente climatologico è però mutato verso un piano d’analisi geologico intorno al 2009, anno dell’istituzione dell’Anthropocene Working Group (AWG). Ponendosi come scopo quello di riuscire a collocare l’Antropocene nella carta cronostratigrafica, cioè «la rappresentazione dei vari “tempi” che il nostro pianeta ha attraversato» (p. 13), ciò che i geologi dell’AWG hanno sostenuto è che sia possibile determinare temporalmente questa epoca geologica attraverso i cambiamenti provocati dalla stessa nel suolo terrestre. Ed è negli anni Cinquanta del XX secolo che il gruppo di ricerca ha collocato l’inizio dell’Antropocene, nello specifico per via dell’uranio rilasciato dagli esperimenti nucleari dell’epoca. E lo stesso problema alla base degli studi di Crutzen o dell’AWG, ovvero sull’origine di quest’epoca geologica, è quello a cui Missiroli dedica le prime due sezioni del libro, nelle quali vengono appunto ripercorsi i vari tentativi di rispondere alle domande: “Da dove viene l’Antropocene? Chi lo ha causato? Quando comincia?”.

 

L’Antropocene prometeico

Nella prima parte di Teoria critica dell’Antropocene, Paolo Missiroli si occupa della più diffusa fra le interpretazioni sull’origine della trasformazione geologico-ecologica in atto, che si potrebbe designare con il nome di “discorso prometeico” sull’Antropocene. Chiarito che prometeismo è qui da intendere nel senso che Herbert Marcuse attribuiva a questa parola, ovvero di «atteggiamento» (p. 31), di «pensiero che esprime la necessità, per l’umano, del dominio e della trasformazione tecnica di tutto ciò che umano non è» (p. 31), che cosa si intende con Antropocene prometeico? Proprio sulla base del significato di prometeico, in questa lettura l’Antropocene è pensato come «l’epoca di un dominio pieno e incontrastato dell’umanità, intesa come un tutto indistinto, sul pianeta Terra, ormai ridotto a oggetto manovrabile e integralmente gestibile» (p. 32). L’esito pratico-politico dell’Antropocene prometeico coincide infatti perfettamente con le proposte della geo-ingegneria, cioè quella scienza in cui l’ingegneria viene applicata ai fenomeni geologici del Sistema Terra. I progetti principali della geo-ingegneria sono di due tipi: quelli volti a controllare le radiazioni solari (Solar Radiation Management, SRM) e quelli che invece mirano a rimuovere quantità ingenti di CO2 dall’atmosfera (CO2 Removal, CDR). In questa visione, l’epoca geologica in cui viviamo e a cui andiamo incontro, che si compirà definitivamente solo con il dominio definitivo dell’uomo sulla natura, viene definito «Buon Antropocene»[2]. A tal proposito, studio di riferimento è il lavoro di Ted Nordhaus e Michael Shellenberger, del Breakthrough Institute – di cui sono stati fondatori nel 2003 –, filosoficamente vicini a quelli corrente di pensiero definita ecomodernismo[3]. L’Antropocene è per Nordhaus e Shellenberger non soltanto la prova definitiva della distanza ontologica fra la Terra e l’uomo, ma anche della capacità di quest’ultimo di dominare e controllare la prima, trovando un equilibrio anche per i dieci miliardi di individui previsti per la metà del XXI secolo. Sarà quindi nella sempre maggiore distanza dell’essere umano dalla Terra e nel conseguente progresso tecnologico che si svilupperà la soluzione agli attuali problemi ambientali. Come evidenziato da Missiroli, in questo approccio l’essere umano è inteso come «serial killer ecologico» (p. 36): attività negatrice nei confronti della natura. Si prenda ad esempio la riflessione di Yuval Noah Harari, le cui due più recenti opere Sapiens e Homo Deus sono la perfetta espressione della modalità ingegneristica di pensare la natura. L’intera storia dell’uomo vi è letta come «una storia della colpa ecologica»[4], perché l’homo sapiens è presentato come colui che «imprime il movimento alla natura perché la distrugge per essenza, […] antropologizzandola»[5]. Facendo riferimento anche ad altri autori, come Mark Lynas, Erle C. Ellis o ancora Guido Chelazzi, un altro intento centrale del primo capitolo è mostrare come alla base dell’idea di Antropocene prometeico vi sia una considerazione dell’Antropocene come un’epoca che si realizzerà compiutamente solo quando l’homo sapiens porterà a termine il processo di totale tecnicizzazione della Terra.

Complementare a questa antropologia negativista dell’essere umano è un certo modo di intendere lo spazio, «compatto e oggettivabile» (p. 45). La Terra dei progetti geo-ingegneristici appare infatti piatta, svuotata da ogni profondità e da ogni resistenza. «Deve essere uno spazio piano, al fine di consentire non solo il dispiegarsi della geo-ingegneria, ma anche, più in generale, dell’azione dell’essere umano su di essa: suolo infinitamente appropriabile, spazio privo di autonomia» (p. 45). Terra che prende così il nome di “globo”, cioè ciò che citando Tim Ingold «può essere appropriato»[6], che «può essere visto dall’alto al fine di nascondere la complessità biologico-culturale degli ecosistemi»[7]. L’immagine della Terra come blue marble (biglia blu) della Navicella spaziale Apollo 17 è quindi ciò che serve a questa lettura dell’Antropocene: la Terra è percepita come finita, basata su «una rete di relazioni del tutto orizzontali» (p. 48) e perciò governabile tecnicamente, sfera infinitamente manipolabile. Il globo, la blue marble, sono quindi immagini funzionali a quel processo di riduzione della complessità della Terra, che rientra così del tutto all’interno di quelle prospettive che affidano all’uomo il compito di gestirla. Questa l’idea alla base di un progetto di ricerca internazionale come Future Earth[8], in cui si tenta di coniugare l’ESS (Earth System Science) con una prospettiva di intervento attivo sul clima globale. Premessa infatti all’ESS non è soltanto l’idea del sistema Terra come sistema auto-regolantesi a partire dalle interazioni interne fra i vari elementi che lo compongono, ma anche quella di un homo sapiens autonomo da quel sistema e perciò in grado di stravolgerlo. Questa stessa idea è anche alla base anche del recente libro di James Lovelock Novacene[9]: lo scienziato ritiene possibile una gestione integrale del Sistema Terra, totalmente controllato da macchine capaci di sostituire quanto di naturale vi è all’interno dell’uomo stesso. L’uomo crea dunque l’Antropocene, la sua epoca geologica, il suo tempo, marcando in tal modo la propria sostanziale differenza rispetto a quel tempo naturale (deep time) che è invece il tempo geologico. L’uomo moderno, dell’Antropocene, può al limite convivere con quella storia naturale che lo precede, ma è ormai incolmabile la sua distanza rispetto a questa. Se fino al XVIII secolo il tempo dell’uomo coincideva con quello circolare della natura, ad esempio dell’alternarsi delle stagioni, poi, con la modernità, non è stato più così. Se prima l’historie, naturale e no, era pensata come una rivoluzione, nel senso di ritorno all’origine, con l’irrompere della modernità l’uomo ha cominciato a pensarsi sempre proiettato in avanti. Il tempo naturale, circolare, della Historie, è infatti dai moderni sostituito da quella freccia in avanti che è il tempo della Geschichte, la storia moderna. Come già rilevato da Reinhart Koselleck nel suo celebre Futuro passato, la storia dei moderni è del tutto proiettata in avanti, totalmente umana, ontologicamente diversa dal tempo della natura. «Una freccia ab-soluta, del tutto umana e del tutto moderna» (p. 55), riprendendo Stephen Jay Gould. Tempo solo umano, dunque, non ancora realizzato e che potrebbe non realizzarsi nella forma di quel miracolo geo-ingegneristico finora descritto, ma anche realizzarsi come catastrofe. Questa l’idea alla base della collassologia, teoria sostenuta da autori come Roy Scranton, Pablo Servigne o ancora Raphaël Stevens. Come sottolineato in Teoria critica dell’Antropocene, se a ragione questi autori denunciano l’insostenibilità del rapporto occidentale fra uomo e natura, totalmente basato sul dominio tecnico del primo verso la seconda, al contempo evidenziano quello stesso vuoto tra moderno e non-moderno tematizzato nella geo-ingegneria. Secondo quest’ultimo approccio, l’uomo riuscirà a dominare la natura, mentre secondo i collassologi l’uomo sarà dominato da questa. Tratto comune a entrambe le posizioni è però l’impossibilità di una relazione fra le due parti.

 

L’Antropocene del Capitale

Nel secondo capitolo del volume, Paolo Missiroli fa chiarezza su quelle teorie secondo cui è il modo di produzione capitalistico la causa principale delle trasformazioni ecologiche in atto. A partire dal testo di Naomi Klein This changes everything, di cui il sottotitolo significativo Capitalism vs the Climate, fino ai movimenti globali sorti fra il 2018 e il 2019, il tema dell’Antropocene permette di porre in evidenza la problematicità di una convivenza fra il modo di produzione capitalistico, basato sulla crescita illimitata, e la Terra, che invece illimitata non è. Questo tipo di analisi ha portato allo sviluppo della nozione di “Capitalocene”, emersa tra la fine degli anni Duemila e i primi anni Dieci del XXI secolo, in contrapposizione all’idea di Antropocene prometeico. Come evidenziato da Missiroli, merito principale di Jason Moore – il più noto propugnatore di tale teoria – è stato quello di evidenziare come il capitalismo sia una “ecologia mondo”, espressione con cui si vuole indicare la totale riduzione della natura al fine del profitto. In questo senso, il capitalismo non ha un regime ecologico, ma è un regime ecologico, rifiutando così quel dualismo fra natura e cultura della modernità occidentale descritto da Bruno Latour[10]. Nel Capitalocene, l’unica dimensione è quella dell’oikeios, cioè «la relazione creativa, storica e dialettica tra, nonché dentro, le nature umana ed extra-umana»[11]. Tesi di fondo di Jason Moore – condivisa in parte anche da altri autori, come Achille Mbembe o Malcom Ferdinand – è che dunque dalla metà del XVI secolo alla metà del XVIII si sia avviato un processo di sfruttamento del mondo naturale che ha condotto all’attuale forma di produzione capitalistica dominante. Premessa di questo processo, l’esistenza di una natura sfruttabile, considerata soltanto in questo suo ruolo. Si tratta di uno sfruttamento, peraltro, non solo della natura intesa come flora e fauna, ma anche degli stessi umani, i non-moderni, e che ha condotto a quella brutalizzazione di questi ultimi spiegata da Achille Mbembe nel suo Brutalisme[12], ossia l’effetto dell’imposizione del modello di vita occidentale a popoli indigeni inizialmente estranei ai modi di produzione del mondo moderno. L’edificazione di immense piantagioni nei territori colonizzati va infatti interpretata in questo modo, così come l’enorme massa di uomini e donne impiegati nella coltivazione delle stesse. Ma il mondo è veramente totalmente a disposizione dell’uomo occidentale capitalista? Il limite intrinseco della realtà naturale è quello che Jason Moore chiama «tendenza alla caduta del surplus ecologico»[13] – e qui sta il grande merito della sua teoria, pur non priva di nodi critici. Missiroli sottolinea infatti come Jason Moore manchi di considerare una delle caratteristiche principali del sistema capitalistico, ovvero la sua capacità di costituire continuamente nuove forme teorico-pratiche di appropriazione dell’ecosistema terrestre. Non a caso, il modello Green Economy, forma che il capitalismo ha oggi assunto, è ben consapevole dei limiti intrinseci del Sistema Terra in continua trasformazione. Nell’ambito della sua idea di ecologia-mondo, Jason Moore non riflette poi sul fatto che, se non vi fosse una dimensione – quella naturale – separata da quella umana e di cui potersi appropriare, non esisterebbe neppure il capitalismo. Per dirla attraverso un esempio già usato da Kenneth Pomeranz, se in Inghilterra non fossero state presenti grandi quantità di carbone, o se sulla Terra non fossero state presenti grandi quantità di petrolio, allora il capitalismo non sarebbe neppure iniziato. Porre le due dimensioni sullo stesso livello è senza dubbio un errore.

Proprio la centralità dei combustibili fossili per lo sviluppo del modo di produzione capitalistico, nonché per l’avvio dell’epoca antropocentrica, è al centro delle analisi di Andreas Malm. Come emerge chiaramente in Teoria critica dell’Antropocene, l’obiettivo critico dell’autore svedese è la vulgata secondo cui il carbone sarebbe stato scoperto alla fine del Settecento e si sarebbe poi imposto autonomamente come fonte di energia principale per ben due rivoluzioni industriali. Malm mostra infatti come al tempo l’energia più presente sul suolo inglese fosse quella dello scorrere dei corsi d’acqua. Fu dunque una scelta politica quella di affidarsi al carbone, «ontologicamente soggetto al capitalista»[14], a differenza della «località ineliminabile»[15] dei corsi d’acqua. Gli stessi partecipanti alle lotte che scossero l’Inghilterra intorno alla metà dell’Ottocento erano consapevoli di questo, nonché della sconvenienza da un punto di vista economico che il carbone avrebbe comportato rispetto al modello di produzione basato sui corsi d’acqua. A differenza di Moore, secondo cui il Capitalocene ha avuto inizio verso la metà del XV secolo, Malm, ponendo i combustibili fossili al centro della storia del capitalismo, ne colloca così l’origine negli ultimi due secoli. Da un punto di vista geologico, le difficoltà sono ancora maggiori: infatti soltanto Simon L. Lewis e Lewis Mumford collocano l’Antropocene nel 1610, scegliendo una data di inizio in qualche modo vicina al periodo individuato da Moore nelle sue ricerche. Secondo Lewis e Mumford il 1610 è infatti l’anno in cui dallo studio di sei reperti geologici raccolti in diversi luoghi del pianeta è possibile apprezzare l’Orbis Spike, cioè il punto in assoluto più basso di una serie di indicatori riconducibili all’attività umana sulla Terra (la concentrazione di CO2 nell’atmosfera, la temperatura della superficie del mare ecc.). Tuttavia, malgrado questa possibile vicinanza, non bisogna dimenticare la profonda differenza fra le due ricerche, storica quella di Moore e geologica quella di Lewis e Mumford. In conclusione, pur non mancando i nodi controversi all’interno della teoria del Capitalocene, quest’ultima ha comunque dei meriti. Nello specifico, se a Malm si deve di aver rilevato l’esistenza di un’autonomia della Natura, non considerata secondo l’idea di ecologia-mondo di Moore, a quest’ultimo va il merito di aver posto l’accento sull’importanza del capitalismo nell’analisi delle varie concause che hanno portato a questa nuova epoca geologica.

 

Per una teoria critica dell’Antropocene

Nella terza sezione del libro Missiroli cambia invece il criterio attraverso cui riflettere sull’Antropocene, riuscendo così a costruire una teoria critica di questo concetto, che è l’altro obiettivo del volume. Se nell’idea di Antropocene prometeico o di Capitalocene si tentava di rispondere alla domanda intorno all’origine di questa nuova epoca geologica, in quest’ultima parte Missiroli intende invece rispondere alla domanda: “Che cosa ci rivela il fatto che siamo in questa nuova epoca geologica?”. Si tratta insomma del problema della condizione, che seppur legata a doppio filo a quello dell’origine, non coincide con esso. Ed è a partire dalle idee di Eva Horn e Hannes Berthgaller che Missiroli inizia a rispondere alla domanda sulla condizione di questa nuova epoca geologica. Secondo questi autori, vi sono due modalità attraverso cui viene concepito l’essere umano. Da un lato quella ecomodernista, che, come intuibile dal nome stesso, ricalca quell’antropologia negativista dell’essere umano sostanziale alla visione prometeica dell’Antropocene; dall’altro quella del postumanesimo ecologico, dove l’essere umano è semplicemente visto come una delle parti nell’insieme delle forze che compongono il Sistema Terra. In linea con quest’ultima visione dell’anthropos, anche Dipesh Chakrabarty riflette attorno alla nozione di Antropocene, ma da un punto di vista storico. L’idea fondamentale che attraversa i suoi testi è che la nozione di Antropocene, lungi dal porre l’uomo al centro della narrazione, al contrario lo decentri. Secondo Chakrabarty, l’esistenza stessa di un “clima della storia” è la dimostrazione che ogni storia che metta al centro l’umano – come nella visione di Harari, o dei teorici del Capitalocene – debba essere anzitutto subordinata almeno alla storia geologica del pianeta, in tal senso più grande, onnicomprensiva di tutte le altre. È proprio a partire da questo rapporto – che Chakrabarty definisce di imminenza – che la storia della Terra intrattiene con tutte le altre che è possibile rifiutare l’idea secondo cui la specie umana possa prendere il controllo integrale del Sistema Terra. Recuperando un concetto di Augustin Berque, si tratta di andare a recuperare la strutturale geograficità dell’essere umano, cioè il suo essere in continuo rapporto con un grande numero di altre storie non-umane. Il fatto che l’essere umano sia il principale fattore di influenza stratigrafica rivela così il contrario esatto di quanto si sarebbe portati a pensare. Porre un primato dell’agency umana su tutte le altre significa ignorare deliberatamente tutto il funzionamento della scienza biologica. Se pure è vero che sono principalmente le azioni umane a modificare il clima del pianeta, ciò non significa che l’uomo sia l’unico a possedere un’agency, né che sia il signore del pianeta. Non a caso, quando l’IUGS (International Union of Geological Science) formalizza un qualsiasi periodo geologico, non è interessata alle cause che nella sezione stratigrafica hanno generato il punto di rottura. Come chiarito da Missiroli, «l’Antropocene non è il momento di controllo di un Globo da parte dell’uomo, bensì l’evento attraverso cui tale appartenenza diviene il centro della vita storica dell’umanità stessa, pensata in continuità con quello sfondo» (p. 102). L’Antropocene è dunque una convergenza di molteplici storie: è Capitalocene; è Plantationcene (p. 103); è l’evoluzione biologica dei bovini e del loro processo digestivo unito all’allevamento industriale. E tutte queste storie, tra loro differenti, vanno pensate come autonome e, al tempo stesso, legate a quella “più grande” dell’Antropocene. Su questo stesso piano di ragionamento si pongono anche le riflessioni di Donna Haraway o del già citato Latour. Riportando le parole di Missiroli, «si potrebbe dire che l’homo sapiens è un animale intrinsecamente eco-logico, cioè immaginabile solo in una rete di relazioni con umani e non umani» (p. 109).

Non a caso, lo stesso funzionamento della Terra non è spiegabile attraverso il modello meccanicista di matrice cartesiana, ma si fonda proprio sulla considerazione di queste continue interazioni fra elementi umani e non-umani. Detto in altro modo: ogni volta che un singolo elemento del Sistema Terra si modifica, tutto il resto ne viene condizionato. Come scritto in Teoria critica dell’Antropocene, «la scienza del Sistema Terra si fonda dunque su un’epistemologia dell’incertezza» (p. 115). La Terra possiede un lato nascosto, mai completamente oggettivabile (prometeicamente) e mai totalmente dato allo sguardo di un soggetto. A conferma di ciò, anche la pandemia da Covid-19: una delle molteplici reazioni inaspettate del Sistema Terra che nell’Antropocene hanno già colpito e colpiranno le società umane. A partire da queste scoperte dovute all’aver messo l’accento sulla condizione piuttosto che sull’origine dell’Antropocene, Paolo Missiroli può infine compiere quell’operazione annunciata nell’Introduzione del suo libro: farne una teoria critica. Se infatti da un lato non hanno alcun senso gli appelli presenti nel dibattito pubblico per una “uscita dall’Antropocene”, dall’altro ciò non significa che tale concetto non sia passibile di critica. Se infatti è chiaro da un punto di vista geologico ed ecologico che “uscire” dall’Antropocene sia impossibile, al contempo è proprio su questa irreversibilità che Missiroli fonda la sua teoria critica. Posto che quest’epoca geologica non è quella dell’uomo serial killer ecologico, ma quella in cui il pianeta Terra reagisce alla nostra agency, lo scopo della teoria critica di Missiroli è quello di cercare di ristabilire un equilibrio fra gli uomini, i non-umani e la Terra, tutti attori di quello sfondo inamovibile che è l’Antropocene stesso. Lungi dal predicare qualsiasi forma di primitivismo, si tratta di ristabilire la giusta consapevolezza del rapporto fra l’essere umano e i non-umani, ontologicamente. Una teoria critica, evidenziate le criticità dei rapporti fra mondo moderno e naturale, fra modo di produzione capitalistico ed ecosistemi terrestri, non potrà che basarsi su un criterio ontologico – su un rapporto di imminenza, citando Chakrabarty. Solo in tal modo diviene possibile fotografare la nostra situazione storica, quella dell’Antropocene, e distinguere fra il tentativo di dare al nostro mondo storico una forma nuova, ecologica, e la perpetrazione di un modo di produzione che ha già espresso tutta la sua potenzialità distruttiva. Merito di questo libro l’aver tematizzato la necessità per l’essere umano di istituire questa certa forma di Antropocene. Concludendo con le parole dell’autore, «una teoria critica dell’Antropocene non si propone che di donare a questo movimento reale, nel suo abbattersi al contempo per distruggere e istituire, un minimo di forza in più» (p. 138).


[1]  Berrien Moore III, Arild Underdal, Peter Lemke, Michel Loreau, The Amsterdam Declaration on Global Change, 13 luglio 2001.

[2] Déborah Danowski e Eduardo Viveiros de Castro, L’arrêt du monde, in Émilie Hache, De l’univers clos au monde infini, Editions Dehors, Parigi 2014, p. 260.

[3] Per un approfondimento sull’ecomodernismo, si veda AA. VV., Il manifesto degli ecomodernisti; trad. it. da Patrizia Feletig, 2015; Michelle Nijhuis, Is the “Ecomodernist manifesto” the future of enivironmentalism?, «New Yorker», 2 giugno 2015.

[4] Paolo Missiroli, L’ideologia antropologica, «Tropico del Cancro. Culture critiche del presente», 24 maggio 2021.

[5] Ibidem.

[6]  Tim Ingold, The Perception of the Environment. Essays on Livelihood, Dwelling and Skill, Routledge, Londra e New York 2000, p. 210.

[7]  Ibidem.

[8]  Per un approfondimento sul progetto di ricerca Future Earth, si veda: Ivi, pp. 50-51.

[9] Per un’introduzione al testo Novacene di James Lovelock, si veda Paolo Missiroli, recensione a: James Lovelock. Novacene – Una avvenire già vecchio, «Effimera» online, 2020.

[10]  Su questo si veda Bruno Latour, Nous n’avons jamais été modernes. Essai d’anthropologie symétrique, La Découverte, Parigi 1991; tr. it. Non siamo mai stati moderni, elèuthera, Milano 2009.

[11]  Jason W. Moore, Capitalism in the Web of Life. Ecology and the Accumulation of Capital, Verso, New York 2015; tr. it. Ecologia-mondo e crisi del capitalismo. La fine della natura a buon mercato, ombrecorte, Verona 2015, pp. 125-6.

[12]  Su questo, si veda Achille Mbembe, Brutalisme, La Découverte, Parigi 2020.

[13]  Jason W. Moore, Cheap Food and Bad Money. Food, Frontiers and Financilization in the Rise and Demise of Neoliberalism, «Review», 33, 2012: tr. it. Ecologia-mondo e crisi del capitalismo. La fine della natura a buon mercato, ombrecorte, Verona 2015 op. cit., p. 123.

[14]  Andreas Malm, Fossil Capital. The Rise of Steam Power and the Roots of Global Watming, Verso, Londra e New York 2016, p. 125.

[15]  Ivi, p. 117.

Scritto da
Giulio Pennacchioni

Dottorando in Filosofia all’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano. Si è laureato a Bologna in Scienze filosofiche e ha svolto un periodo di ricerca all’estero presso l’Université Paris-Nanterre. Si occupa di filosofia francese contemporanea, in special modo del lavoro di Merleau-Ponty, di teoria critica ed ecologia politica, quest’ultima trattata soprattutto dal punto di vista del pensiero morale.

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