“Teoria del drone” di Grégoire Chamayou
- 20 Agosto 2017

“Teoria del drone” di Grégoire Chamayou

Recensione a: Grégoire Chamayou, Teoria del drone. Principi filosofici del diritto di uccidere, DeriveApprodi, Roma 2014, pp. 224, 17 euro (scheda libro)

Scritto da Alberto Prina Cerai

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A partire dal 2010 l’amministrazione Obama ha concentrato i suoi sforzi per mettere a punto una nuova strategia di politica estera. Nella NSS (National Security Strategy) pubblicata nel corso dell’anno spicca il concetto, alquanto fantascientifico, di «disposition matrix» che diventerà una caratteristica permanente della sicurezza nazionale americana. Sviluppata dall’allora direttore del National Counterterrorism Center, Michael Leiter, si tratta di una «sorta di burocrazia della morte» e di una «espansione graduale della violenza di stato in spazi lontani da teatri di guerra ufficialmente riconosciuti»[1].

Nel 2012 Leon Panetta, Segretario alla Difesa, ha implementato in via definitiva questo processo di normalizzazione delle targeted killings. La guerra globale al terrore ha raggiunto una nuova fase, più consona alla volontà dell’amministrazione di disimpiegarsi dal Medio Oriente senza perdere le potenzialità di proseguire con la «caccia ai terroristi», attraverso l’impiego di una nuova tipologia di arma: gli UAV (Unmanned Aereal Vehicle) hanno ufficialmente avviato la «dronificazione della sicurezza nazionale americana».

Ed è proprio a partire da questo assunto di base che Grégoire Chamayou, ricercatore di filosofia presso il CNRS di Lione, affronta un tema molto caldo e foriero di numerose critiche nei confronti dell’amministrazione Obama. L’utilizzo sempre più indiscriminato dei droni, l’apparente legittimità e rispetto del diritto internazionale, la rivoluzione che gli UAV hanno comportato negli affari militari guidano l’Autore ad un assalto frontale a coloro che sostengono questa nuova forma di violenza statale, cercando di mostrarne le aporie originarie e le contraddizioni giuridico-filosofiche che emergono in un’analisi illuminante e controcorrente rispetto alle opinioni mainstream.

Ragionare sull’impiego del drone significa riflettere sulle connessioni intercorrenti tra politica, sovranità e warfare e che finiscono per alterare significativamente le condizioni del potere di guerra e del rapporto tra lo Stato e i suoi cittadini. Che cosa significa essere soggetti al «Predator Empire»? Siamo forse di fronte ad una nuova forma di regime costruito sull’arbitrio di un potere biopolitico? Sono solo alcune delle domande a cui l’Autore cercherà di dare una risposta in Teoria del Drone.

 

La Drone warfare e le implicazioni psico-etiche nel combattente

Qual è la genealogia del drone? L’utopia della «guerra telechirica» ha da sempre entusiasmato con il suo fascino il mondo militare, soprattutto per il potenziale risparmio di soldati le cui vite hanno costituito e costituiscono, soprattutto negli USA, un peso politico non indifferente – il cosiddetto body bag factor. Nel 2009 dalla Joint Special Operator University venne partorito il «rapporto Crawford», il quale sancì la priorità della «caccia all’uomo» nei fondamenti della strategia di politica estera statunitense. Il M-Q1 Predator, dotato a partire dal febbraio del 2001 di un missile anticarro “Hellfire” AGM-114 C, diviene ufficialmente lo strumento prediletto per condurre questa nuova politica militarizzata di prevenzione delle minacce terroristiche. Il drone ha implicato una vera e propria riconfigurazione della dottrina militare statunitense. Erroneamente accolto come un’evoluzione dell’air power a stelle e strisce, le sue implicazioni geopolitiche e securitarie seguono sinteticamente sei principi: il drone applica, in funzione statale, una «veglia geo-spaziale costante»; è una forma di «totalizzazione» della sorveglianza nel tempo e nello spazio; archivia e cataloga secondo uno schema preciso «patterns of life» al fine di tracciare profili potenzialmente pericolosi; è una tecnologia in grado di intercettare dati e altre forme di comunicazione; realizza una schematizzazione dei comportamenti utile alle strategie moderne di controinsurrezione; è a tutti gli effetti una forma di controllo per individuare le anomalie e neutralizzarle rispetto alla loro congruenza in qualità di minacce alla sicurezza. La sorveglianza dronizzata è dunque un ibrido tra le operazioni di polizia e la meticolosità della statistica applicata alle scienze sociali: in sostanza, una forma di «militarizzazione del controllo sociale». Come anticipato, le killing lists e l’analisi delle forme di vita sono due elementi essenziali nella drone warfare, con l’obiettivo di attuare una «fusione dell’analisi geo-spaziale con quella della rete sociale» per monitorare le attività umane e così stabilirne le identità (p.43).

Il problema sorge nel momento in cui il target viene individuato sulla base di una probabilità statistica e sociologica e non dall’oggettiva affiliazione a gruppi terroristici. Le kill box – così definito il metodo di profiling – producono un’estensione della violenza statale e del diritto di uccidere nel tempo e nello spazio, oltrepassando le frontiere statali e corrodendo il principio d’integrità territoriale. Una violazione già sperimentata con l’introduzione del potere aereo: una politica della verticalità in grado di estendere l’autorità statale in forme tridimensionali e sovranazionali. Il drone intensifica questa visione e, a differenza delle teorie tradizionali del bombardamento che contemplavano il moral bombing per abbattere la resistenza della popolazione in teatri di guerra, introduce il concetto di specificazione e precisione dell’intervento: se il nemico in quanto terrorista non ha locus, se i mezzi tecnologici consentono una precisione alquanto infallibile, allora questi sono argomenti solidi per estendere la zona di conflitto al mondo intero o, paradossalmente, per operare anche al di fuori del conflitto stesso. Da una visione geo-centrica si passa ad una visione bersaglio-centrica del conflitto, trattandosi così di «giustificare l’esercizio di un potere letale di polizia al di fuori delle frontiere» (p.51), l’equivalente di un diritto di esecuzione extra-giudiziaria esteso globalmente.

Se intendiamo la guerra come categoria giuridica in quanto spazialmente e geograficamente limitata, la guerra globale al terrore non rispetta questa definizione, dunque le «drone operations» sono da considerarsi, nei termini posti dall’autore, gravi violazioni del diritto di guerra. Dal punto di vista prettamente strategico-militare, relativamente alla dottrina contro-insurrezionale, il drone offre sì l’opportunità di infrangere la psicologia degli insorti, impotenti e impossibilitati nell’organizzare un’efficace modalità di difesa – il potere aero-centrico che, parafrasando Carl Schmitt, annichilisce il potere tellurico del combattente irregolare – ma si offre come un mero strumento terroristico di Stato. Nonostante l’efficacia tattica, nel lungo periodo le incursioni dei droni provocano, come effetto boomerang, l’intensificarsi della resistenza armata dei gruppi terroristici di fronte ad una violenza transnazionale che, a dispetto dei loro sostenitori, non risparmia vite civili e non evita danni collaterali. Inoltre, giacché la guerra contro-rivoluzionaria è anzitutto una politica – ovvero il tentativo di marginalizzare il nemico dal suo appoggio popolare – la «dronizzazione» delle operazioni in tali contesti finisce per elevare il paradigma anti-terrorismo su quello tradizionale: il primo è essenzialmente poliziesco, il secondo prettamente politico-militare. Una divergenza che si concretizza nella differente natura del nemico, in quanto l’insorto si fa politico poiché reclama per sé uno spazio dentro la cornice della sovranità, il terrorista è un individuo pericoloso per la comunità politica poiché al di fuori di essa: «la contro-insurrezione è demo-centrica, l’anti-terrorismo è individuo-centrico» (p.60).

Dunque, la strategia del drone supera teoricamente la strategia contro-insurrezionale in quanto tecnica superiore, ma scevra di soluzioni politiche: una «mietitura periodica» di soggetti pericolosi che non tiene conto degli effetti sulla popolazione civile. Massimizzare la protezione delle vite militari, proiettare forza senza emanare vulnerabilità: sono questi i nuovi pilastri di un modello securitario, quello dello «Stato Drone», che non sembra accorgersi di combattere una non-guerra – nei termini clausewitziani – impossibile da vincere.

Per secoli l’avvento della tecnica ha sconvolto i caratteri del rapporto tra l’uomo e la conflittualità. I droni e i kamikaze, argomenta Chamayou, rappresentano i due antipodi dell’etica del combattente: da una parte la completa separazione tra il “corpo” e la “macchina”, dall’altra la totale fusione delle due; da una parte l’etica dell’auto-preservazione totale, dall’altra il sacrificio eroico per eccellenza. L’avvento del drone sancisce una ridefinizione della reciprocità rispetto al rapporto di violenza: oltre alla tipologia più recente delle guerre asimmetriche, la dronificazione delle forza armate statunitensi, in merito al vantaggio tecnologico, sembra ricalcare «lo spettro della violenza coloniale […] Il drone è insomma l’arma di una violenza post-coloniale amnesica»[6]. Sebbene il duellum come concezione della guerra sia scomparso ben prima, quale futuro dell’ethos militare nell’epoca del Predator? Si tratta bensì, come suggerisce il termine, di una vera e propria «caccia» in cui si dissolve ogni glorificazione del combattimento, sovrastata dall’imperativo categorico delle preservazione della vita del soldato. Ed è proprio la de-virilizzazione dell’operatore del drone – alla guida di un veicolo unmanned – che, confutando la tesi di Luttwak dell’era post-eroica, sancisce il passaggio da un’etica del sacrificio e del coraggio in battaglia a quella dell’auto-conservazione della salute psico-fisica del soldato. Argomenti questi, un tempo arma del movimento pacifista e anti-militarista, riciclati come «legittimazione dell’omicidio dronizzato» e sostegno ad una «forma di violenza unilaterale» bisognosa di elementi etici altrimenti irreperibili (p.90).

Una campagna di sensibilizzazione dell’opinione pubblica americana che si è servita anche di un falso luogo comune: le apparenti defezioni psichiche che accuserebbero gli operatori, spesso erroneamente associate al DPTS (disturbo post-traumatico da stress), che necessita di un contatto diretto. Un tentativo che cerca di umanizzare l’operatore in quanto agente di violenza, quindi ricollocandolo all’interno di quelle categorie belliche che farebbero di lui un combattente a tutti gli effetti; numerose ricerche scientifiche hanno dimostrato, annota l’autore, che la tecnologia dei droni esclude qualsiasi possibile insorgenza di DPTS. Piuttosto, la contemporanea presenza e distanza dal campo operativo – tramite i monitor e la visione diretta delle incursioni – diminuisce la resistenza all’uccisione e instilla nel soggetto, attraverso un’esperienza virtuale, una potenziale predisposizione. Gli operatori, moralmente scossi tra un io di guerra ed un io di pace, sono costretti in una condizione di dissonanza cognitiva e di ammortizzamento morale che gli consente di sviluppare una «capacità di compartimentazione» e di immunizzazione da qualsiasi riflessione soggettiva sulla violenza: «Sono l’incarnazione della contraddizione rappresentata da una società in guerra all’esterno ma che al suo interno vive come se fosse in pace» (p.111).

 

Un paradosso: perché il drone non è politica continuata con altri mezzi

Da decenni il fattore no body bags ha influenzato il processo di decision-making in politica estera. Dal Vietnam passando per Mogadiscio, fino ad arrivare al Kosovo e all’Iraq, gli USA sembrano aver trovato nel drone la cura ideale per una patologia cronica nella loro storia, quell’avversione alle perdite ora superata grazie all’introduzione della guerra high-tech. Massima precisione, minimo rischio collaterale: ma è davvero così? Nonostante le cifre indicative, sorge un problema di natura concettuale: l’incompatibilità di una «guerra giusta» e di una «guerra senza rischi» o a zero morti. L’autorità statale dovrebbe così operare una gerarchizzazione di priorità, poiché immunizzando i suoi soldati lascerebbe i civili alla merce della violenza bellica; l’impiego del drone esplica, secondo l’autore, proprio questa estremizzazione, elevando così i «doveri dello Stato-nazione» al di sopra delle «obbligazioni universali enunciate dal diritto internazionale umanitario» (p.113).

Gli alfieri del Predator asseriscono che rappresenti un progresso nella tecnologia umanitaria per il semplice fatto di contribuire a risparmiare delle vite umane, ma di quali nello specifico? Subentra un giudizio di valore: la distinzione tra combattenti e non-combattenti è superata in favore dei primi. L’arma telechirica è dunque moralmente giustificata per il semplice fatto di «preservare delle vite». Se le incursioni dei droni risparmiano le difficoltà tattiche di un’operazione convenzionale, una maggior precisione nel colpire il target prescelto non significa affatto maggior discriminazione; il bersaglio, come anticipato, è designato sulla base di un protocollo statistico e sociologico, ma questo non può denotarne l’effettiva pertinenza come minaccia alla national security: «[…] il drone si configura in realtà come un’arma indiscriminata di nuovo genere, cancella la possibilità di distinguere chiaramente i combattenti dai non-combattenti» (p.143).

Cosa resta, dunque, dei principi del diritto di guerra? Fondamento dello jus in bello è sempre stata la reciprocità del diritto ad uccidere, un’uguaglianza formale e una finzione giuridica che consentiva di «decriminalizzare» l’omicidio; con il drone sembra scomparire, poiché la vittima non è nelle condizioni di potersi difendere dalla furia distruttiva di un missile Hellfire (la cui kill zone stimata è di 15 metri). Il conflitto, dunque, da asimmetrico diventa un mero «rapporto unilaterale di esecuzione», mentre l’etica del combattimento si tramuta in una necroetica volta a legittimare e rendere accettabile un omicidio, ma entro quale cornice legale sono racchiusi, oggi, gli attacchi dei droni? L’Autore, in conclusione, riflette sull’ambiguità in merito dell’amministrazione Obama, in bilico tra il diritto dei conflitti armati e il law enforcement (diritto di polizia) nel promuovere queste «licence to kill».

Nella ultima parte l’autore tenta di mostrare come i droni abbiano riconfigurato la secolare diatriba filosofica sulla sovranità politica: in che modo lo Stato può amministrare il diritto di uccidere e l’obbligo a proteggere rispetto all’evoluzione della tecnica e ad un maggior grado di interdipendenza dalla violenza? Come epilogo di un excursus storico sulla filosofia del diritto di guerra, Chamayou ribalta la massima schmittiana protego ergo obligo – come fondamento dell’autorità statale, agganciandosi alla riflessione kantiana sulla virtuosità della repubblica come antidoto in possesso del cittadino per impedire che la propria vita diventi lo strumento politico del «sovrano». La dronizzazione delle forze armate statunitensi opera, in questo senso, una disattivazione della critica democratica del potere di guerra, poiché riducendo al minimo l’esposizione al pericolo di morte priva il cittadino dell’argomento principe per contrastare la volontà e la violenza statale: la «cittadinanza delle vite disponibili» (p.181).

Quale, dunque, il destino della democrazia in tempi di guerra? L’impiego del drone, nella guerra globale al terrorismo, è soltanto un ulteriore evoluzione del «militarismo democratico», con la differenza cruciale che l’arma in sé produca un ulteriore abbassamento della soglia del ricorso alla violenza, presentandosi come un’opzione sempre più accettabile – e conveniente in termini politici ed economici agli occhi dell’establishment in politica estera. Preservare senza perdere: la sindrome del Vietnam sembra superata, ma la de-militarizzazione della società – con crescenti investimenti in campo privato (l’ascesa dei contractors) – nasconde effetti negativi. L’ipotesi di un «esercito di mercato» in sostituzione del tradizionale esercito di cittadini rischia di alterare l’equilibrio sociale sorto con la simbiosi tra il Welfare State e il Warfare State, generando un paradosso di difficile risoluzione: «La posta in gioco della dronizzazione è quella di conciliare il deperimento del braccio sociale dello Stato con il mantenimento del suo braccio armato» (p.190).

Slegare il capitale umano da qualunque dipendenza con le forze militari rischia di annullare tanto le relazioni individuali con la violenza quanto di sottrarre alla comunità politica e all’opinione pubblica la possibilità di contestare la violenza di Stato. Se il drone realizza una totale impersonalità, se diventa in quanto arma unmanned l’unico agente della violenza, tale automatizzazione rappresenta un passo decisivo verso uno svuotamento della soggettività politica. Di riflesso, la «questione politica della dronizzazione e della robotizzazione dei bracci armati dello Stato», avverte l’Autore, rischia di concretizzare lo spettro di uno Stato svuotato del suo apparato, il corpo politico del Leviatano, gettando così ombre sulla consistenza della sovranità e della statualità nell’epoca dello Stato-drone.


[1] Cit.; Ian G.R. Shaw, Predator Empire: The Geopolitics of U.S. Drone Warfare, “Geopolitics”, 3, 2013, pp. 537

Scritto da
Alberto Prina Cerai

Dopo le lauree all’Università di Torino e all’Università di Bologna, ha svolto un periodo di ricerca presso il King’s College di Londra. Ha completato in seguito un Corso Executive in Affari Strategici presso la LUISS School of Government, una PhD Summer School con Politecnico di Milano-EIT Raw Materials su materiali critici ed economia circolare e un Master con la Società Italiana per l’Organizzazione Internazionale (SIOI). Attualmente collabora con Fondazione Eni Enrico Mattei (FEEM) e LUISS University Press, oltre a svolgere attività di consulenza e analisi.

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