“Teoria della classe disagiata” di Raffaele Alberto Ventura
- 03 Novembre 2017

“Teoria della classe disagiata” di Raffaele Alberto Ventura

Recensione a: Raffaele Alberto Ventura, Teoria della classe disagiata, minimum fax, Roma 2017, pp. 262, 16 euro (scheda libro)

Scritto da Nicolò Scarano

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Io sono un disagiato, ma non me ne sono ancora reso conto. O meglio, me ne accorgo solo a tratti, confuso come sono dalle sovrastrutture che Raffaele Alberto Ventura racconta in maniera ottima nonché molto dolorosa, per chi non se ne fosse – a sua volta – ancora reso conto, nel suo fortunatissimo saggio Teoria della Classe Disagiata. Ma prima di cominciare, cos’è la classe disagiata? Così ce la descrive lo stesso autore: “Nel libro volevo parlare di una classe che è in una certa misura agiata, che ha reddito per competere, ma che è insoddisfatta, sfasata rispetto alle proprie aspirazioni, e che quindi compie scelte disfunzionali, irrazionali, inefficienti, senza dedicare attenzione a quello che potrebbe renderli più felici, come gli affetti o una occupazione più stabile”. 

Il saggio comincia con una disamina tra l’economico e il sociologico che per la verità si protrarrà lungo tutte le 266 pagine. Ventura parte dai beni posizionali teorizzati da Thorstein Veblen (autore, al contrario, de La teoria della classe agiata), quei beni che violano le leggi di domanda e offerta e sono sempre più desiderati all’aumentare del loro prezzo. Dei veri e propri “marcatori di disuguaglianza” per i quali la borghesia più benestante ha cominciato a lottare con l’obiettivo di differenziarsi dal resto, segnalando una sorta di superiorità.

Ventura spiega bene, sia nell’introduzione che nel corso di tutto il saggio, come con l’avanzamento della produzione industriale e la diffusione sempre più pervasiva di beni di consumo per tutti i gusti, ed anche tutte le qualità, i beni posizionali siano sempre meno dei beni “fisici”, come un Rolex o un capo di alta moda, e si identifichino sempre più nell’ostentazione di una certa ricchezza culturale: un classico d’eccezione, un disco di “stranicchia”, un concerto esclusivo, un viaggio come nessuno l’ha mai fatto.

E poi, soprattutto, un titolo di studio. Sempre più costoso, sempre più specializzato, sempre più all’estero. Un titolo di studio come un bene posizionale su cui investire più di quanto sia possibile fare, insomma, che permetta di accedere a un benessere sempre più improbabile:

“La classe disagiata è l’avanguardia di un capitalismo in crisi permanente che ci parla con la retorica dell’emancipazione per venderci stili di vita che non possiamo permetterci”. 

 

Le grandi illusioni del Novecento

Il grande protagonista del saggio di Ventura è la classe di consumatori che ha la sua origine nell’era liberale, borghese, fino alla Grande Crisi e ai totalitarismi, e poi esplode nel dopoguerra, anche grazie al compromesso socialdemocratico immaginato da Sir John Maynard Keynes. Secondo Ventura, quest’ultimo era sostanzialmente fondato su una “grande illusione”: che l’inseguimento tra incremento di produttività data dall’industrializzazione, crescita della ricchezza da consumare (sempre più avidamente), e il prelievo da parte dello Stato per finanziare una burocrazia pubblica sempre più pletorica, fosse possibile all’infinito. O al limite, guadagnando tempo con i “trucchi” di svalutazione e inflazione. Ventura spiega l’inganno così:

Il meccanismo descritto da Keynes suona ragionevole sulla carta, e ha funzionato magnificamente per decenni. Perché il sistema funzioni, lo Stato deve fare al capitalista quello che il capitalista fa al lavoratore. Da una parte preleva una quota del profitto privato, dall’altra la spendere per assorbire il surplus prodotto dagli incrementi di produttività. Tutto perfetto, se non fosse che non c’è limite agli incrementi, quindi non c’è limite alla ricchezza che deve essere consumata per inseguirli, quindi non c’è limite alla quota che deve essere prelevata. In un contesto concorrenziale caratterizzato dalla corsa al ribasso dei prezzi – la famigerata competitività – questo inseguimento infinito non è possibile.

Quando la “grande illusione” keynesiana finirà, ne incomincerà semplicemente un’altra, quella del neoliberismo. Questa, nell’ossessione ideologica della trickle-down economics, dell’alleggerimento fiscale nei confronti di un capitalismo che avrebbe redistribuito “dall’alto” grazie ai suoi investimenti, provocherà invece un’accelerazione e fragilizzazione continua del sistema economico, accompagnate dai fenomeni della povertà relativa, della polarizzazione tra massimo e minimo, dell’aumento esorbitante di costi per una mobilità sociale non più foraggiata dalla spesa pubblica. In compenso, il neoliberismo non curerà alcuna delle contraddizioni keynesiane, ma farà scoppiare ancora più il debito pubblico per stimolare la domanda aggregata facendo spesa (Reagan e i suoi ingenti investimenti nella difesa, ad esempio) senza ripagarla con un sistema fiscale appropriato. E poi deregolamentando la finanza fino a generare le bolle letali del 2008.

Le grandi illusioni keynesiana e neoliberista, secondo Ventura, pari sono, seppur speculari, e si basano su una domanda e una crescita che infinite e illimitate, invece, non possono essere, perché viziate da una irrisolvibile caduta del saggio di profitto. Per spiegare il suo ragionamento economico, infatti, l’autore usa soprattutto l’analisi e la lettura dei marxisti che nel Novecento avevano già previsto, talvolta in tempo reale, la frana (come l’aveva chiamata lo storico Hobsbawm) del sistema capitalistico. Tra questi, figurano: Ernest Mandel e la sua denuncia alle tendenze inflazionistiche; James O’Connor e la preconizzata “crisi fiscale dello Stato”, che non può tassare oltremodo l’impresa senza ostacolare in maniera fatale la riproduzione del capitale; Paul Mattick e la sua visione drammatica del “lavoro improduttivo”. Allo stesso tempo Ventura non si sottrae dalla critica nei confronti dei neokeynesiani, secondo i quali – erroneamente – basterebbe dire che “è tutta colpa del neoliberismo”. Quando la contraddizione lacerante, invece, starebbe proprio nel capitalismo industriale: che si guadagni tempo con la spesa dello Stato o con l’inflazione, poco cambia.

Nella lotta continua per la mobilità sociale, Ventura nota che quella classe media che una volta non solo produceva valore, ma che era soprattutto fatta di consumatori appassionati, non riesce più ad attingere alle sue fonti di benessere. Quindi, dapprima si accanisce, poi – in difficoltà – non fa altro che reagire continuando ad investire su beni posizionali – soprattutto titoli di studio – ben oltre le sue possibilità, perdendo le risorse che erano state accumulate nel tempo grazie a una certa agiatezza e morigeratezza familiare. È così che la classe agiata, insomma, comincia la sua trasformazione in classe disagiata.

“La classe disagiata è il residuo umano lasciato dalle crisi di sovrapproduzione nel momento in cui non è più possibile finanziare il consumo improduttivo”: così Ventura definisce la sua “creatura” teorica nel corso del capitolo più complesso del saggio. Secondo il filosofo arabo del XIV secolo Ibn Khaldun, che comincia il collasso di una società intera: quando la produzione di beni immateriali supera quella di beni materiali, non permettendo alla stessa classe consumatrice di consumare quanto e quello che vorrebbe. La distinzione tra beni materiali e immateriali, qui, ricalca quella – di Adam Smith – tra lavoro produttivo e lavoro improduttivo. Quest’ultimo corrisponde al lavoro portato avanti dal settore terziario occidentale, che secondo il marxista tedesco Mattick “proviene tutto dal reddito dei capitalisti o dal salario dei lavoratori”. Ed è quindi basato su un elemento essenziale della storia e della ricchezza umana: lo sfruttamento.

Lo sforzo teorico di Ventura qui si fa audace ma estremamente interessante. Perché, sempre riprendendo Ibn Khaldun e il suo racconto delle dinastie arabe cadute in disgrazie, si tenta di leggere la comparsa della classe disagiata come un fenomeno sintomatico della progressiva crisi del “centro” (l’Occidente) nei confronti della “periferia” (la Cina, in primis, che tuttavia è sempre meno periferica). Il centro, che nelle fasi di crescita di una civiltà è capace di generare un surplus, un’accumulazione, un insieme di simboli che domina anche culturalmente la periferia, che continua invece a produrre beni materiali ed industriali, a un certo punto – all’apice del suo splendore – si ritrova in un eccesso, in una sovrapproduzione non solo di quei beni immateriali già citati sopra, ma anche di quelle élite colte, capaci, sin troppo istruite che di quei beni immateriali sono assieme produttori e consumatori principali. Così come per il sistema economico capitalista, che soffre irrimediabilmente della caduta del saggio di profitto, cade anche la capacità delle élite – che se non si fosse compreso appieno siamo noi, classe disagiata – di consumare quanto e quello che vorremmo.

Il problema fondamentale del capitalismo, insomma, è quello di creare consumo, di generare uno sfruttamento del consumatore oltre che del lavoratore. “Economy is a luxury”, diceva Francis Scott Fitzgerald preconizzando “una società costantemente prospera ma anche sull’orlo del fallimento”. E Ventura utilizza anche la commedia di Goldoni, che definisce come una “commedia del debito”, per descrivere il capitalismo come un sistema in crisi permanente.

È in questa crisi, così come nella commedia goldoniana, che si verifica la condizione drammatica del figlio borghese: eccedere nel consumo ed essere eccedente, cioè non avere un lavoro per sé e ritrovarsi nella condizione di servire e non più di essere servito. È la “disforia di classe”, quella dei cosiddetti transclasse, “borghesi prigionieri in corpo di proletario e viceversa”: è la malattia che condanna gran parte dei millennials proveniente dalla classe media, gran parte di noi, che erodiamo patrimoni e redditi familiari per conquistare beni posizionali sempre più inutili, al disagio e al declassamento. La profezia di Ventura, su questo, è abbastanza impietosa. E soprattutto, non è più soltanto una profezia: molto spesso è già realtà.

 

La classe disagiata e la metafora dell’industria culturale

Ripercorrendo la storia della “Industria Culturale”, così come era stata stigmatizzata da Adorno e Horkheimer, Ventura riesce efficacemente a descrivere il modo in cui si è generata la classe disagiata anche da un’altra angolazione, quella relativa all’illusione della produzione – oltre che del consumo – di beni posizionali come quelli relativi alla cultura.

Se il principio di uniformità della produzione delle prime bibbie di Gutenberg, e poi dei romanzi di massa francesi e inglesi aveva creato la civiltà industriale, accomunata da valori e principi comuni, negli anni Cinquanta e Sessanta industria e mercato vengono messi così ripetutamente in discussione che masse di “consumatori ribelli” cominciano a pretendere nuovi beni, beni che contenessero in loro un paradosso: quello di essere non-industriali.

Ma la risposta a questa rivolta contro il capitalismo culturale non sarà che il capitalismo culturale stesso, rinnovato e più ingannevole. E l’insofferenza nei confronti del consumo non produrrà altro che più consumo, più vario, più di nicchia: la cosiddetta fabbrica del dissenso. Il paradosso del Sessantotto è stato insomma l’aver generato un nuovo consumismo, quello che riteneva ogni cosa “bella e necessaria”, quello che più di tutti ha poi generato la classe disagiata.

Ventura racconta anche, in maniera affascinante, come il doppio gioco rappresentato dall’esplosione del punk rock riveli come il mercato sia riuscito ad essere anche anti-mercato, e come il grande capitale riesca a possedere anche chi è contro il grande capitale stesso, come funziona ormai abitualmente tra grandi major ed etichette cosiddette indie, indipendenti: “Capitalismo e anti-capitalismo sono stretti in un abbraccio irrisolvibile”.

Con l’arrivo del web e delle piattaforme digitali, negli ultimi anni, viene generata quella che Ventura definisce “la coda lunga del mercato”, la trasformazione di grandi gruppi mediatico-culturali nei rivenditori di qualsiasi tipo di opera, a prescindere da una ormai inesistente linea editoriale. I lettori, gli ascoltatori, gli spettatori si rifugiano sempre più in pochi selezionatissimi prodotti e diventano prosumer: tutti siamo tutti autori di qualcosa, su un social come su Myspace e poi Soundcloud, tutti scambiamo prodotto culturale. A spese zero, certo, ma a che pro?

È illuminante e provocatorio, a tal riguardo, il paragone tra il paraguru dell’arte amatoriale Andrea Dipré, che sulle reti commerciali della TV digitale illudeva artisti sconosciuti e incapaci di star valorizzando le loro opere, e il social network più influente del mondo, Facebook, che ci illude più o meno della stessa cosa con la nostra produzione gratuita di opinioni. “Se Diprè è un truffatore”, si chiede Ventura, “che dire di Facebook?”. In effetti.

“Se i produttori si trasformano in prosumer e gli editori in piattaforme, non ci sono più beni: soltanto servizi. Né proprietà: soltanto flussi di contenuto”. Non esiste più il bene posizionale di Veblen: il mercato della cultura è sempre più frammentato, composto da nicchie, sub-nicchie, gallerie. Da Gutenberg a Zuckerberg, finisce l’industria culturale per come la conoscevamo. E adesso? A quali beni posizionali ci affideremo ancora? 

La situazione diventa piuttosto drammatica nel momento in cui – con la costante uberizzazione a cui va incontro il lavoro – ogni individuo diventa “imprenditore di se stesso”. Secondo la più elementare legge di Marx (ripetutamente citato da Ventura), il saggio di profitto non può che continuare a cadere. Ma mica per il capitalista! Per ognuno di noi. Secondo Ventura si arriva ad un punto, insomma, in cui il costo sociale della concorrenza generalizzata a un certo punto eccede i benefici che genera. “Quando la competizione abbatte la cooperazione, non si fa altro che cercare di penalizzarsi l’un l’altro, penalizzando tutti.”

Secondo Ventura la reazione e insieme la causa di questa eterna competizione al ribasso, in un continuo circolo vizioso, è un altro genere di competizione, quella per il nuovo (ma neanche troppo) bene posizionale per eccellenza, il titolo di studio. Nell’illusione non più confermata che più si studi più si starà meglio, quando in realtà non vi è alcuna prova che tutti potranno fare ciò per cui si sono formati: una “bolla educativa” che potrebbe scoppiare esattamente come negli Stati Uniti è scoppiata quella immobiliare prima della crisi del 2008, anche se con effetti sicuramente diversi.

Il bene posizionale “titolo di studio” non si può buttare a mare, non è un Rolex, ti costruisce socialmente e ti condanna a stare in mezzo al guado di un mercato duale sempre più polarizzato, tra gli “strafichissimi” dell’innovazione e i sottoproletari della logistica o del McDonald’s. La sovraccumulazione dei titoli di studio non fa, insomma, che togliere loro valore, causando una devalorizzazione del capitale. Umano, in questo caso, che diventa vitellone, come un protagonista del noto lungometraggio di Fellini.

Secondo Ventura, il dilemma del vitellone sta nel fatto che più persone fanno sacrifici, più sacrifici saranno necessari in futuro. Il problema della classe disagiata è proprio aver speso tutto per formarsi, istruirsi, acquisire quei beni posizionali, per poi doversi limitare. A limitare i danni. Resistendo alla minaccia del declassamento, e quindi all’anomia. Che è a sua volta causa di depressione e fuga (dei cervelli?) se va bene, di reazione borghese, persecuzione e guerra se va male. E di suicidio, se va come all’Ivanov di Cechov, che “si sente di troppo” nel mondo.

La critica fondamentale al capitalismo che pone l’autore è quella di averci sì liberati dalla miseria assoluta (e di continuare a farlo), ma di averci insegnato a soffrire della povertà relativa. Da una parte inimmaginabili concentrazioni di ricchezza, dall’altra noi – vitelloni o lavoratori “semplici”, spinti all’anomia e all’indifferenziazione, vittime di una paura non immaginata, ma fin troppo concreta del declassamento.

La rabbia della classe disagiata non è quindi quella del proletario evocato e mobilitato dal marxismo che lotta contro il Capitale, ma quella del declassato, di cui abbiamo potuto notare un fenomeno con la vittoria a sorpresa di Trump. È mirabile qui l’utilizzo di Walter White, il professore pusher di Breaking Bad, come esempio della “tragedia borghese” a cui è destinata tanta classe media, borghesia risentita, che finisce per invocare una sorta di “socialismo allucinatorio”, altresì fascismo, una livella mortifera di legge e ordine. Allucinatorio, appunto, proprio come il crystal meth che gira per le strade deserte e troppo assolate di Albuquerque, New Mexico.

Una obiezione comune all’argomento del saggio è quella secondo cui alcune delle professioni che la classe disagiata ricerca siano in realtà i lavori del futuro: l’esperto di intelligenza artificiale, il mago dell’innovazione sociale, il comunicatore capace di usare nuovi media come mai nessuno ha fatto prima. Ventura, sul tema, vuole un discorso di onestà, e per farlo cita Robert J. Gordon, autore di The Rise and Fall of American Growth:Noi non possiamo dire ai giovani che, con l’automazione e l’intelligenza artificiale tutti quei lavori persi verranno trasferiti direttamente in qualcos’altro, perché ci sono chiaramente delle economie di scala a negarlo”. Economie di scala impressionanti, che nel caso dei giganti della tecnologia quasi “scoppiano”, fino a tendere verso un quasi-infinito. “Oggi, ad esempio, gli account a Google hanno superato gli ingegneri. Ma quello degli account è un po’ un lavoro di merda in confronto a quello “di concetto” degli ingegneri della stessa compagnia”, continua Ventura. 

Se la quarta rivoluzione industriale non porta più posti di lavoro di quella passata, ma semmai di meno, tutti si concentrano, competono per quell’unico posto su mille che vale la pena avere. I beni posizionali – come i titoli di studio – serviranno ai posti posizionali, in un circolo vizioso da cui è difficile uscire. Il “mercato duale” già menzionato prima, insomma, è in realtà triale: “Sotto ci sono quelli che fanno i cosiddetti “lavori di merda”, e in alto ci sono quelli che fanno i migliori lavori del mondo. In mezzo c’è chi scala, la nostra amata classe disagiata, che compete per arrivare al gradino più alto ma rischia continuamente di scendere in quello più basso, comprimendo anche il mercato del lavoro non qualificato, senza alcuna speranza di risalire”.

La legge della classe disagiata è semplice: “Uno su mille ce la fa. E gli altri novecentonovantanove?”

 

La vanity fair del disagio

La teoria della classe disagiata parla di noi. Della maggior parte di chi è arrivato sin qui nella lettura di questa sintesi-recensione-intervista, ma anche e soprattutto di me. Di me che ho letto questo libro nel mezzo dell’ennesimo (seppur soddisfacente e divertente) stage, di me che ho investito somme incredibili di tempo e denari (spesso “rubati” in maniera fortunosa a qualche apparato, pubblico o meno, che mi ha pensato meritevole) in anni di istruzione, sempre più specializzata, sempre più all’estero.

Ma narcisismo a parte, non si può nascondere che davanti al saggio di Ventura, davanti ad alcuni suoi passaggi, ci si sente un po’ disarmati, finanche ignoranti. L’autore sventaglia una dose di citazioni invidiabile, una bibliografia vastissima che va dal romanzo russo di fine Ottocento all’ultimo saggio professorale americano sulla sharing economy, che in alcuni passaggi può sembrare ostentativa, una vanity fair insomma. Il dialogo autunnale con l’autore, tuttavia, rivela che la letteratura serve, e serve tutta. Per le allegorie e per la comprensione economica del fenomeno: “Io pensavo di ricevere critiche da economisti e sociologi per le mie sortite nei loro campi, invece ne ho ricevute più di stampo ideologico”, ammetterà un po’ stupito l’autore, a tu per tu.

Qualcuno avrà commentato, leggendo il libro, che Ventura è ottimo nella pars destruens, ma non aggiunge nulla di costruens, alcuna soluzione al dramma della classe disagiata. “Che facciamo, ci suicidiamo tutti?”, mi ha chiesto un amico commentando il libro, prefigurando un futuro da lemming. Prima di tutto è da riconoscere che quella di Ventura più che una pars destruens è una pars describens, un “porre il problema” con un approccio ed una profondità che mancavano, senza lagne (ecco riaffacciarsi il Super-Io) ma con una certa coscienza economica e sociologica.

Per le soluzioni, invece, per non diventare come “braccianti cognitivi” alla stregua di un Furore steinbeckiano (altro bel riferimento letterario usato da Ventura), la palla è rilanciata a noi, ad altri autori, o comunque ad un futuro di ulteriori illuminazioni. Interrogato sulla possibilità di un reddito di base, ad esempio, Ventura pone una prima obiezione essenziale: “Il problema della classe disagiata non è il reddito. Ma piuttosto, un eccesso relativo di risorse dato da una sovraccumulazione di reddito, un welfare familiare – che permette ai suoi appartenenti di competere ancora, di far loro sprecare risorse per accumulare beni posizionali che possano dare loro più chance”. “Con un reddito minimo forse si alza il livello del mare”, insomma, ma la classe disagiata continuerebbe a nuotare e ad appesantirsi, rischiando di affogare. La seconda obiezione, invece, sta nella stessa sovrastruttura che riveste tutto il saggio: non sono i beni materiali il problema della classe disagiata, ma quelli immateriali, sociali, posizionali.

In definitiva, il saggio vuole essere dapprima “un pugno nello stomaco”, come racconta lo stesso autore, una presa di coscienza di un problema che esiste ed è sempre più influente nella retorica decadente di questo evo che è un mix di information overload e continuo spaesamento sociale. E poi un’arguta e ragionata descrizione che procede hegelianamente per “tesi, antitesi, sintesi” (secondo le parole dello stesso autore) delle origini e delle condizioni socio-economiche di questa classe che, pur essendo socialmente costruita, classe non è. E come classe non può agire né marxianamente lottare, rimanendo impotente davanti allo svolgersi di una storia accelerata.

La classe disagiata di Ventura, per stessa consapevolezza dell’autore, si pensa di sinistra ma poi basa il suo sospirato benessere sulla disuguaglianza, sul fatto che i “lavori di merda” li fa qualcun altro. La classe disagiata è noi, che “siamo troppo ricchi per rinunciare alle nostre ambizioni e troppo poveri per realizzarle”, e pertanto non possiamo avere rappresentanza politica.

Scritto da
Nicolò Scarano

Classe 1991. Ha studiato Scienze Politiche a Roma, Political Communication alla City University di Londra. Borsista Fulbright alla George Washington University, dove studia Strategic Public Relations. Si interessa di politica, media, di America e Italia.

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