Terre rare e capitalismo politico negli USA
- 22 Giugno 2020

Terre rare e capitalismo politico negli USA

Scritto da Alberto Prina Cerai

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Nelle settimane e mesi scorsi, alcune iniziative dell’amministrazione Trump hanno rilanciato l’idea di svincolare gli Stati Uniti dalla dipendenza dalla Cina, il maggior produttore ed esportatore mondiale di questi minerali strategici cruciali per il settore hi-tech (militare e civile) e delle energie rinnovabili. Le proposte di alcuni senatori, e i progetti delle agenzie federali coinvolte, di voler ridare vita ad un’industria mineraria nazionale sono tornati prepotentemente nel dibattito politico americano, soprattutto nel contesto delle crescenti tensioni con Pechino in seguito alla crisi sanitaria. L’obiettivo è quello di ricostruire supply chain all’interno del perimetro della sicurezza nazionale, specialmente per risorse così strategiche. Vi è pertanto un discorso sempre più condiviso, nello spettro politico americano, sulla necessità di affrontare la sfida cinese ad armi pari, specialmente per quanto riguarda la politica industriale per i settori ad alto contenuto tecnologico.

Molto si è discusso sui settori downstream, come per i semiconduttori, che rappresentano il vero tallone d’Achille della Cina per quanto riguarda i suoi obiettivi di sviluppo tecnologico (nell’IA e per il 5G). Ancora troppo poco si è discusso nei settori upstream, dove Pechino è protagonista assoluto. Ad oggi, le industrie cinesi controllano più dell’85% dei processi di lavorazione e, come confermano gli ultimi dati dell’United States Geological Survey (USGS), producono più del 70% della domanda di terre rare mondiale. Non solo. Come rileva un rapporto del Dipartimento della Difesa, la strategia commerciale cinese ha di fatto favorito joint venture con le aziende occidentali (garantendo un accesso a prezzi contenuti ai minerali) e progressivamente scalato le catene del valore fino a consolidare il controllo sui prodotti finiti a più alto valore aggiunto. A conferma di quest’ascesa pianificata, un’analisi di Adamas Intelligence, azienda di consulenza leader nel settore dei minerali strategici: secondo uno dei suoi ultimi rapporti, la Cina ha ormai esteso un controllo capillare nella produzione di magneti al neodimio (NdFeB), la cui applicazione è destinata a crescere esponenzialmente nel mercato dell’automotive (auto ibride ed elettriche), nello sviluppo delle turbine eoliche e in altre tecnologie “verdi”. Un mercato, quello dei magneti, dal valore di 14 miliardi di dollari, controllato al 60% da Pechino e che nei prossimi anni vedrà un progressivo ampliamento nel settore delle energie rinnovabili. Solo negli USA, come riporta Axios, quest’ultime sono destinate a soppiantare per la prima volta il carbone come fonte energetica entro la fine dell’anno.

Le terre rare, dunque, proprio per le condizioni di mercato che vedono la Cina in un quasi totale monopolio, rappresentano probabilmente il settore in cui questo riorientamento del capitalismo americano potrebbe essere implementato. La settimana scorsa è stata la volta del Senatore Ted Cruz che ha presentato una proposta di legge per agevolare, tramite incentivi fiscali, nuovi progetti d’estrazione sul suolo americano. Anche il Pentagono si è mobilitato in questa direzione. La preoccupazione giace soprattutto nel fatto che molta della componentistica militare dipende da materiali e prodotti che utilizzano piccole (ma essenziali) percentuali di terre rare in mani cinesi. Ciascun F-35, per esempio, ne richiede 950 libbre; i sottomarini nucleari della classe Virginia 9,200 libbre; i missili Tomahawk, i sistemi di guida e i motori dei jet richiedono tutti diverse combinazioni di questi 17 elementi. Da qui la proposta di aumentare il budget della Difesa per sostenere progetti nell’industria mineraria, tra cui MP Materials, l’unica azienda tuttora a pieno regime negli Stati Uniti e proprietaria della miniera di Mountain Pass che fino agli anni Ottanta era stata l’eldorado delle terre rare. Tuttavia, poiché l’azienda è al 10% di proprietà di Shenghe Resources Holding Co. e ogni anno invia in Cina circa 50.000 tonnellate di minerale grezzo affinché venga processato, l’obiettivo di ristabilire una catena di separazione in California che possa fornire (secondo le stime più ottimistiche) 5 tonnellate di neodimio e praseodimio annui è diventato non così semplice, come riporta Reuters. Non è chiaro se sia proprio per questo motivo che il Pentagono abbia deciso di sospendere per il momento i fondi, o se piuttosto per aver realizzato di non poter ottenere la tipologia di terre rare richieste. In via di perfezionamento ci sono comunque altri progetti che coinvolgono imprese americane in Alaska, Wyoming e in Texas con la collaborazione dell’australiana Lynas Corporation, la più grande produttrice di terre rare fuori dalla Cina.

Reshoring è così diventato un termine sempre più d’attualità, come confermano le parole riportate da Bloomberg di James Litinsky, l’investitore dell’hedge fund JHL Capital Group LLC che ha guidato un consorzio per rilevare la miniera di Mountain Pass. “Va benissimo se la gente vuole comprare un tchotchke [giocattolo] ad un prezzo economico. Ma quando ragioniamo su questioni così strategiche, che si tratti di assistenza sanitaria o auto, dobbiamo essere autosufficienti”. Nonostante le iniziative e un cambio di paradigma nel settore, dai policymaker agli investitori, sembra ancora lontano lo scenario di una completa autosufficienza. Come riportato da Foreign Policy, molti esperti ritengono che gli sforzi pubblici e privati si stiano concentrando troppo sull’estrazione dei minerali senza tenere in considerazione l’intera catena del valore, per non parlare del know-how e delle tecniche di raffinazione di cui Pechino detiene un ferreo controllo. Inoltre, da esportatore netto la Cina da qualche anno ha cambiato la sua strategia commerciale per soddisfare la sua crescente domanda interna. “È davvero un’inversione di rotta”, il commento di Christopher Ecclestone, analista strategico di Hallgarten & Company, compagnia londinese specializzata negli investimenti del settore minerario. In uno studio dell’agenzia inglese del 2019 si prevede che la Cina estrarrà meno del 50% della disponibilità nota di terre rare a livello mondiale entro il 2025.

Che sia una finestra d’opportunità per incentivare lo sviluppo del settore in altri paesi? Per James Kennedy, fondatore di ThREE Consulting, cambiano i fattori ma non il risultato: “Alla fine, non conterà quante miniere di terre rare gli Stati Uniti [o altri paesi] apriranno”, così come “non conterà se saranno in grado di aggiornare le tecniche di produzione o separazione”. Questo perché, prosegue Kennedy, gli strumenti fiscali tradizionali “sono auspicabili se [il business] vede redditività”, ma sono inutili se non si tiene considerazione il contesto strategico: il controllo di stato del Partito Comunista Cinese nelle catene del valore delle terre rare. Quello che stanno proponendo i legislatori americani, dunque, non è altro che “una soluzione di mercato per un problema non di mercato”. Come ben riassume l’analista americano, “Le terre rare non sono solo una questione della Difesa. Il futuro dell’economia americana è fondamentalmente legato al controllo e all’utilizzo di questi materiali. La Cina ha compreso questo e utilizza il suo monopolio come arma geopolitica per catturare tecnologia, industrie e lavoro”.

Come si declinerà questa consapevolezza nell’implementare, o rivedere, le policy dell’amministrazione Trump è ancora tutto da vedere. Per decenni sono state predilette soluzioni market-oriented, lasciando alle imprese direttamente coinvolte il compito di affrontare l’equilibrio tra domanda e offerta. MP Materials, fallita nel 2015 e ora nuovamente in attività dopo l’acquisizione di JHL Capital Group, è un caso molto border-line. L’azienda californiana, che detiene i diritti sulla miniera di Mountain Pass, a causa della quota d’azioni cinese sarà difficilmente il punto di riferimento del Pentagono e delle principali commesse governative. In funzione di un’industria mineraria nazionale, inoltre, le recenti proposte al Congresso sembrano ancora troppo fragili e sembrano ricalcare quelle dell’ultimo decennio. Quasi tutte arenatisi sugli scogli del legislativo. Sin dalla crisi del 2011 senatori e policymaker, allarmati dalle quote sulla produzione ed esportazione imposte da Pechino, hanno cercato di ovviare in tutti i modi ad una lacuna programmatica divenuta di per sé evidente nei circoli a Washington, soprattutto alla luce del fatto che, a differenza di quanto creduto, la globalizzazione non aveva istituzionalizzato l’approccio della Cina al commercio, specialmente in un settore così strategico. Come disse Clyde Prestowitz, ex negoziatore al Commercio americano, “la Cina non stava diventando democratica”, dal momento che la crisi delle terre rare dimostrava al contrario “un approccio mercantilistico all’economia” che “era guidata da motivazione strategiche in un modo che non avevamo saputo anticipare”. Da quel momento le nazioni occidentali cercarono soluzioni per ovviare al monopolio cinese, puntando su investimenti in ricerca e sviluppo e formazione per facilitare la diversificazione e una maggiore collaborazione internazionale. Tuttavia, Europa e Giappone, a differenza degli USA, non possedevano adeguate riserve minerarie nel proprio territorio da poter pensare di ricostruire una propria industria nazionale. Negli Stati Uniti ben presto divenne evidente, in seguito ad un rapporto del Government Accountability Office del 2010, come creare una supply chain domestica sarebbe stato costoso e avrebbe richiesto molto tempo, specialmente per soddisfare le esigenze del Dipartimento della Difesa, i cui sistemi d’armamento, come accennato in precedenza, contengono quote essenziali di terre rare. Tra il 2010 e l’inizio 2016, tutte le iniziative legislative al Congresso non hanno mai visto la luce, mentre i rapporti rilasciati dalle agenzie federali (soprattutto il Pentagono) non avevano saputo stabilire “un approccio comprensivo per assicurare una supply chain per le terre rare sufficiente a garantire le necessità di sicurezza nazionale”, sentenziava un rapporto GAO del 2016. Se la marea sta cambiando, con una futura geografia delle catene del valore maggiormente “regionale” in seguito alla pandemia, è possibile che maggiori spazi di manovra saranno spianati dalla volontà di ridurre i rischi e l’esposizione a future disruption. Alcuni osservatori ritengono che la Cina non patirà una drammatica riduzione delle GVC (global value chain), dal momento che negli ultimi decenni Pechino ha progressivamente scalato le gerarchie per stabilire una maggiore presenza nei settori downstream, ovvero quelli con un maggior valore aggiunto. Ed è proprio il caso delle terre rare. Quale soluzione? Per David Hammond, un esperto di terre rare presso l’agenzia di consulenza Hammond International Group, “le terre rare stesse si prestano al capitalismo di stato più di qualunque altra questione”.

Scritto da
Alberto Prina Cerai

Dopo le lauree all’Università di Torino e all’Università di Bologna, ha svolto un periodo di ricerca presso il King’s College di Londra. Ha completato in seguito un Corso Executive in Affari Strategici presso la LUISS School of Government, una PhD Summer School con Politecnico di Milano-EIT Raw Materials su materiali critici ed economia circolare e un Master con la Società Italiana per l’Organizzazione Internazionale (SIOI). Attualmente collabora con Fondazione Eni Enrico Mattei (FEEM) e LUISS University Press, oltre a svolgere attività di consulenza e analisi.

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