Scritto da Andrea Raffaele Aquino
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Nel 2008 Tim Leunig, economista e docente alla London School of Economics, disse che «il tempo di Liverpool è finito», facendo intendere come per gli abitanti delle città non più strategicamente “utili” per lo sviluppo economico inglese (Middlesbrough, Birmingham, Sheffield, tra le tante) l’unico destino fosse quello di emigrare altrove, per concentrarsi nei territori “centrali” (Londra, Cambridge, Oxford) e destinati a crescere ancor di più.
Quali effetti pratici hanno portato tali politiche, seguite non solo dal governo britannico? Cosa succede a chi, anche a causa di disuguaglianze economiche, non può emigrare? E infine, in che modo reagisce un cittadino che si ritrova ad appartenere di fatto ad una categoria inferiore?
Questo il tema del seminario Territori abbandonati dalle politiche, tenutosi il 28 maggio 2019 a Roma nella cornice del Palazzo delle Esposizioni, organizzato dal Forum Disuguaglianze Diversità (Forum DD), dall’Alleanza Italiana per lo Sviluppo Sostenibile (ASviS) e da Urban@it – Centro nazionale di studi per le politiche urbane, nell’ambito del Festival dello Sviluppo Sostenibile. Quella del Forum DD è una realtà che si propone di raccogliere idee, elaborare proposte e cercare soluzioni per affrontare le disuguaglianze sociali, di genere e soprattutto economiche, da trent’anni in drastico aumento, mettendo insieme «conoscenze dei mondi della ricerca e della cittadinanza attiva»[1]. Le 15 proposte per la giustizia sociale, ispirate al Programma di Azione di Anthony Atkinson e quasi tutte a costo zero per il bilancio pubblico, sono già state formulate e messe pubblicamente a disposizione di «chi sarà interessato a svolgere un ruolo, di spinta, di analisi, di critica, di indirizzo, di mobilitazione, di normazione o di attuazione per raggiungere quegli obiettivi»[2]. L’ASviS è un progetto nato nel 2016 con lo scopo di sensibilizzare la società italiana ai 17 Obiettivi di sviluppo sostenibile, elaborati nel 2015 dalle Nazioni Unite in controtendenza con l’attuale modello di sviluppo, da raggiungere entro il 2030. L’Alleanza, iniziativa della Fondazione Unipolis e dell’Università di Roma “Tor Vergata”, riunisce oltre 200 associazioni, fondazioni, istituzioni e reti della società civile, enti pubblici e privati uniti per questo progetto. Urban@it è un centro costituito nel 2014 da diverse università italiane, finalizzato a unire il mondo della ricerca, quello dello sviluppo produttivo, della cittadinanza attiva, e delle istituzioni per creare un think tank rivolto alle politiche pubbliche urbane. Il Centro elabora inoltre annualmente un rapporto sulle città e sulle politiche urbane, per incentivare dialogo e riflessione sui temi trattati.
L’evento è stato aperto da una approfondita analisi del Professor Andrés Rodríguez-Pose, docente di geografia economica alla London School of Economics, sulla cosiddetta “geografia del malcontento”. La scelta di investire solo su ciò che risulta già essere produttivo ha creato disparità, disuguaglianze e, conseguentemente, frustrazione da parte di chi si è sentito abbandonato dallo Stato. E lo strumento principe che ogni cittadino possiede in democrazia attraverso il quale può decidere del proprio futuro e di quello della propria comunità è il voto. Proprio attraverso un’analisi accurata dei risultati elettorali negli ultimi anni in Europa, Rodríguez-Pose arriva a delineare un quadro con delle tendenze ben precise, la più significativa delle quali è l’avanzata in massa delle cosiddette “forze anti-sistema”, quei partiti politici che fanno propria l’insoddisfazione dei cittadini abbandonati e si oppongono (con diverse gradazioni dipendenti da vari fattori) da una parte all’Unione Europea, proponendo talvolta un’uscita dalla comunità, talaltra il rifiuto della moneta unica oppure una modifica del quadro istituzionale europeo, dall’altra alle élite nazionali europeiste. Ma l’equazione, come sottolineato anche da Fabrizio Barca, Coordinatore del Forum DD, non è la banale “forze europeiste: città = forze anti-sistema: campagna”, bensì risulta essere “forze europeiste: luoghi in crescita = forze anti-sistema: luoghi che non crescono”.
Il voto in Polonia (24 maggio 2015), Inghilterra[3] (23 giugno 2016), Stati Uniti (8 novembre 2016) ha risvegliato dal proprio torpore le forze europeiste, ma troppo tardivamente. Le recenti elezioni europee (26 maggio 2019) rappresentano il punto (finora) più avanzato raggiunto dalle forze anti-europeiste. Commentando il caso italiano, le forze pro-sistema hanno riscosso nelle grandi città (Milano, Firenze, Napoli, Bologna, Roma) risultati in percentuale più alti di quelli ottenuti nelle regioni, mentre le forze anti-sistema hanno registrato una tendenza opposta, vedendo un consenso più basso nelle grandi città, più interessate dei piccoli centri da un processo di sviluppo e da investimenti promossi dallo Stato (sia pur con naturali variazioni tra di esse), rispetto alle percentuali regionali. Questo dato, che riguarda, mutatis mutandis, l’intero territorio europeo, ha confermato le tesi del Professor Rodríguez-Pose: i luoghi soggetti a declino prolungato i cui abitanti sono (o si sentono) trascurati e messi di parte dalle politiche di sviluppo sono centri di forze anti-sistema. Il concetto di declino si esprime in differenti aspetti, che possono manifestarsi insieme oppure indipendentemente: il declino industriale, il declino del PIL, il declino demografico, il declino dei posti di lavoro. Risulta ben chiaro quindi come anche zone ricche, ma non più in crescita, abbiano espresso un voto anti-sistema (si citano come esempio le città di Brescia, Cremona e Verona). Ma la vera domanda in questo momento è: come risolvere la questione eliminando le disparità tra quella che viene percepita come un’élite di privilegiati e il resto del popolo lasciato indietro, che non vuole (o che più semplicemente non può per disuguaglianze economiche pregresse) accettare il modello di sviluppo imposto negli ultimi anni? Secondo Rodríguez-Pose non servono solo maggiori investimenti, giacché quanto fatto per le zone che non crescono è risultato certamente dispendioso (basti pensare alle cosiddette “cattedrali nel deserto” nel sud-Italia e in Spagna, per fare due esempi evidenti) ma serve una politica diversa, che non sia compensatoria, bensì di sviluppo strutturale, programmatico. Serve ripartire dalle esigenze dei territori e dalla convinzione acclarata che ogni luogo ha le proprie specificità e che applicare ad una realtà soluzioni e progetti “vincenti”in un’altra senza un’analisi approfondita non è solo uno spreco di risorse, ma può portare anche ad una (in certi casi) drammatica dequalificazione del territorio in questione. Il risultato di queste politiche è stato quello di favorire un processo di esodo massiccio dalle aree in declino, come ricordato da Flavia Terribile, Presidente del Comitato per le politiche di sviluppo regionale dell’OCSE. I dati risultano drammatici: negli ultimi sedici anni oltre un milione di persone (la metà sono giovani tra i 15 e i 34 anni) sono emigrate dal Mezzogiorno al Nord Italia e all’estero, con una conseguente compromissione della prospettiva di crescita dei territori abbandonati, che finiscono per collocarsi agli ultimi posti in Italia e in Europa per tasso di occupazione generale e giovanile.
Proprio da questi dati allarmanti è sorta dal 2012 la SNAI, Strategia Nazionale per le aree interne, del cui ruolo ha parlato Sabrina Lucatelli, già Coordinatore Comitato Tecnico Aree Interne. Il task della Strategia, finanziata dai governi italiani dal 2014, è quello di «focalizzare l’attenzione del policy-maker su territori che devono tornare a essere una questione Nazionale e un asse importante del rilancio del Paese, migliorare l’uso delle risorse (il capitale territoriale: risorse naturali, patrimonio culturale, i “saperi” locali), aumentare il benessere delle popolazioni locali (migliorare sia le condizioni di «cittadinanza» sia le opportunità di lavoro), ridurre i costi sociali della de-antropizzazione (dissesto idro-geologico, degrado dei paesaggi, perdita di conoscenze e tradizioni, capitale edilizio in disuso), rafforzare i fattori di Sviluppo Locale e individuare la “vocazione” di ogni territorio». Le aree interne, quei territori significativamente distanti dai servizi ritenuti più importanti (un’offerta scolastica secondaria superiore, un ospedale sede di DEA[4] di I livello, una stazione ferroviaria almeno di grado SILVER[5]) in Italia rappresentano il 52% dei comuni, il 22% della popolazione e circa il 60% della superficie territoriale del Paese. Il metodo di lavoro della Strategia consiste nel sollecitare l’associazionismo dei Comuni e la conseguente co-progettazione, elementi chiave per unire il tessuto abitativo e produttivo delle aree in questione. La Professoressa Daniela De Leo, docente di Urbanistica de “La Sapienza” e collaboratrice di Urban@it, ha individuato dieci interessanti modi operandi per incanalare l’intervento pubblico sui territori in declino e contribuire alla loro riqualificazione, riguardanti il rilancio del concetto di “piena cittadinanza”, il passaggio dall’assistenza ai diritti, il superamento della contrapposizione tra città e campagna e tra centro e periferia favorendo invece una collaborazione tra queste entità, il coinvolgimento diretto della popolazione locale e di conseguenza il potenziamento delle autorità locali. Pensare alle aree interne infatti non può e non deve essere considerata un’azione “paternalistica”, ma è un richiamo all’impegno e alla responsabilità sociale (e in certa misura anche morale) del cittadino. In conclusione, Fabrizio Barca ha introdotto la duplice condizione delle autorità locali, identificate come l’unica via per risolvere la questione delle aree in declino, ma allo stesso tempo sfiduciate poiché avvertite come conniventi all’attuazione delle politiche di compensazione. Ma il tema, qui delineato solo in alcune linee generali, risulta ampio e necessita di ulteriori studi e confronti.
[1] Come dichiarato nella Presentazione delle 15 proposte per la giustizia sociale del Forum DD.
[2] Ibidem.
[3] Si fa riferimento al referendum sulla Brexit.
[4] Dipartimento d’emergenza e accettazione.
[5] In base alla distinzione della Rete Ferroviaria Italiana una stazione è qualificata secondo la seguente scala: Platinum, Gold, Silver, Bronze.