Scritto da Andrea Baldazzini
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Pensare lo spazio (nella sua accezione geografica, cartografica, virtuale e potenziale) come categoria critica, significa infatti pensarlo congiungendo le dimensioni funzional-strutturali con quelle vitali e relazionali. In altre parole, significa: da una parte guardare ad esso attraverso una prospettiva ecologica capace di cogliere simultaneamente i diversi elementi (risorse, soggettività, interessi, istituzioni ecc…) che lo popolano; dall’altra indagare i processi, manifesti o potenziali, che possono combinare i suddetti elementi in maniera creativa e generativa. Si tratta cioè di lavorare anche in quelle particolari tipologie di spazialità che sono le crepe, gli interstizi, le pieghe dove l’istituito (cioè la forma burocratico-istituzionale già presente) è più soggetta a trasformazioni e dove vi è margine per la sperimentazione, intesa quale logica politica produttiva e non meramente amministrativa.
Tra gli obiettivi vi è infatti quello di cambiare l’orientamento oggi dominante, soprattutto fra urbanisti, amministratori e persino fra i cittadini, che guarda allo spazio in termini di mera riproducibilità, securizzazione, omogeneità, pulizia, considerandolo come una superficie totalmente liscia sulla quale è possibile intervenire in maniera arbitraria in nome dei principi dell’ottimizzazione e dell’efficientamento. Una spazialità di questo tipo però nega completamente le differenze, riduce l’alterità ad amico o nemico, esalta la standardizzazione in quanto strumento per un controllo più rigido ed efficiente, divenendo espressione del più rigido approccio neoliberista. Se invece si vuole evitare di cadere in un tale feroce riduzionismo funzional-organizzativo, è necessario riscoprire la categoria di spazio declinandola nella sua accezione geografico-relazione, ovvero in quanto territorio (si veda questo articolo), facendo di esso uno strumento la cui “forza critica” risiede nell’essere una categoria interpretativa, potenzialmente militante, capace di unire l’aspetto teorico-analitico a quello pratico-politico perché diretta espressione di forze produttive e forze desideranti che propongono nuove progettualità e modi di vivere gli spazi pubblici, da quelli urbani a quelli extra-urbani. Come ricorda Manfredo Tafuri, uno dei più importanti architetti marxisti italiani: «Lo spazio è protagonista là dove esiste scambio fra progettazione e fruizione, dove il suo oscillare fra condizioni naturali e innaturali permette il recupero di “luoghi”, dove si fa riconoscibile l’ambiente di una società democratica»[2].
Lo spazio che diviene categoria critica, che si fa cioè territorio, implica così il confronto-scontro con quella che Farinelli ha definito “ragione cartografica”, espressione della modalità tipicamente moderna di concepire lo spazio quale mera superficie cartografica e precedente all’affermazione del processo di globalizzazione dal quale sono nate le configurazioni spaziali della rete e del globo. In questo modo quello che viene ad essere messo in discussione è esattamente il rapporto uomo-ambiente, ovvero le modalità di appropriazione e abitazione dello spazio che portano ad uscire da una spazialità neutralmente concepita, per entrare in una spazialità pienamente politica.
Da quanto appena detto si possono poi derivare almeno tre principali implicazioni:
Infatti, l’insieme delle trasformazioni appena descritte non è affatto esente da criticità, dubbi e ambiguità, motivo in più per approfondire il tema dello spazio e della sua conversione a categoria critica. Ogni territorio è portatore di potenzialità ma anche di contraddizioni: decisivo è dunque il riconoscimento degli aspetti ambivalenti, disorientanti e disturbanti che caratterizzano i soggetti e gli spazi individuali e collettivi. Le ambivalenze o le conflittualità possono poi trovare soluzioni produttive capaci di renderle processualità generative, o, come direbbero Deleuze e Guattari delle linee di fuga: «esse mettono un punto alle linee della deterritorializzazione e creano un’aspirazione irreversibile a dei nuovi spazi di libertà, […] fornendo una nuova capacità ai corpi di agire e rispondere»[3]. Misurarsi con le ambiguità significa allora: per un verso evitare derive ideologiche e guardare il fenomeno nella sua totalità, per l’altro significa opporre un approccio produttivo-creativo alla tendenza neoliberale a leggere il territorio nei termini di un mero spazio liscio che annulla qualunque sua opacità, ruga o piega, in nome di una spazialità totalmente codificabile e tracciabile. Riprendendo ancora i due filosofi francesi: il territorio non è un luogo di sedentarietà dotato di confini fissi, piuttosto costituisce un assemblaggio di processi che continuamente lo attraversano, un corpo dotato certamente di organizzazione ma allo stesso tempo impossibilitato all’irrigidimento, uno spazio che guarda al muoversi nomade, alle neonate pratiche di appropriazione e alla logica della sperimentazione quale logica amministrativa pienamente politica ed istituzionalizzabile[4].
Come già accennato in precedenza, a partire da un ripensamento radicale delle categorie di spazio e territorio si possono tentare nuove forme e meccanismi di rappresentanza o azione, il che suggerisce anche il bisogno di ripartire dai luoghi dove la vita di ciascuno prende forma e si organizza, luoghi considerati nella loro materialità e struttura. È proprio nei territori che nascono e si alimentano i processi istituenti, dove diventa possibile sperimentare diversi modi per ri-articolare i rapporti tra istituzioni e persone (compito questo che chiama ovviamente in causa la questione relativa alla progettazione di tali spazialità di vita).
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