Recensione a: Quirico Domenico, Testimoni del nulla, Laterza, Roma-Bari 2020, pp. 160, 16 euro (scheda libro)
Scritto da Davide Regazzoni
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Testimoni del nulla è un saggio che Domenico Quirico ha dedicato alle sue esperienze come inviato di guerra de La Stampa. Lungi dal limitarsi a ripercorrere gli eventi di cui il giornalista è stato testimone, arricchendoli con qualche nota autobiografica, l’opera costituisce una riflessione più ampia e profonda sulla risposta del pubblico europeo (e, più in generale, “occidentale”) a tragedie che Quirico ha vissuto in prima persona, come la carestia in Etiopia, l’epidemia di ebola in Nigeria e il conflitto in Siria. Risposta che, secondo l’autore, è visibilmente cambiata nel tempo col passaggio da vaste proteste di piazza, come quelle contro la guerra in Vietnam, alla sostanziale indifferenza odierna.
Nel libro sono quindi centrali i seguenti quesiti: perché la nostra società, che pure sa di queste tragedie, rimane insensibile e passiva? E come mai l’indifferenza non coinvolge solo le istituzioni ma si estende alla cittadinanza? Quirico si dichiara particolarmente preoccupato dalla mancanza di reazioni da parte di lettori e ascoltatori, e nota come i giornalisti siano diventati testimoni non solo del dramma e dell’orrore ma anche della noncuranza, del mutismo e, appunto, del nulla.
Il saggio si apre con il resoconto della grande carestia che colpì la popolazione etiope tra il 1983 e il 1985. Le notizie delle condizioni in cui versava il Paese africano giunsero in Europa, per la prima volta, attraverso un documentario. In quegli anni non era lontano il ricordo della penuria di cibo vissuta durante la Seconda guerra mondiale, e la televisione fece rivivere a molti europei quei momenti di grave difficoltà, risalenti ad appena quarant’anni prima. Si scatenò quindi un imponente movimento internazionale di aiuti nel quale «l’entusiasmo umanitario straripava». Questo fervore si concluse con il grande concerto di beneficenza Live Aid, organizzato da Bob Geldof per canalizzare e moltiplicare le risorse da inviare in Etiopia.
La popolarità degli aiuti umanitari venne però meno una volta esaurito l’impatto del documentario sulle persone, e l’Occidente si dimenticò in fretta dell’Etiopia. Rispetto alla parola scritta, la televisione può rendere più tangibili le tragedie umane, ma allo stesso tempo favorisce, più che un genuino interesse, un temporaneo sentimentalismo che rischia di trasformare la generosità in un esercizio di aiuti pietosi fatti per lavarsi la coscienza. L’ipocrisia di questo gesto, che Quirico chiama il «rito dell’essere buono», viene smascherata quando la stessa attenzione non è rivolta a situazioni di grande sofferenza pur presenti nella società europea. Basti pensare al grande numero di persone che vivono sotto la soglia di povertà, o al fatto che i migranti non ricevano solidarietà e anzi siano spesso respinti, anche a causa di una propaganda politica che alimenta odio e rancore nei loro confronti.
Un altro capitolo riguarda il Ruanda, che dal 1990 al 1994 fu devastato da una guerra fratricida combattuta tra le due principali comunità etniche, i tutsi e gli hutu. Quirico racconta, attraverso le parole e i ricordi del sopravvissuto di etnia hutu Emmanuel, il genocidio che coinvolse il 30% della popolazione ruandese: un dramma che allora passò in silenzio attraverso i canali mainstream occidentali e ora è quasi dimenticato. Quirico constata amaramente che i tempi delle mobilitazioni popolari contro tragedie del genere erano ormai lontani e, riguardo al caso ruandese, osserva di nuovo come l’Occidente, decidendo di chiudersi in sé stesso, abbia rinunciato ad assumersi le proprie responsabilità. La radice di questo atteggiamento è individuata nell’annullamento di quella pietà che dovrebbe essere trasversale a tutti gli esseri umani. Un tempo, osserva Quirico, la pietà era un sentimento che creava e manteneva una comunità, ma la sua assenza ha spinto gli hutu a massacrare i tutsi e, allo stesso modo, ha portato l’Occidente a voltare lo sguardo al genocidio.
Secondo Quirico, questo senso di pietà, pressoché svanito in Europa, si è ridestato dopo gli attacchi terroristici dell’ISIS, quando molte persone scesero in piazza unite sotto lo slogan «Je suis Charlie». Allo stesso tempo però l’autore osserva che questa solidarietà, invece di espandersi, si è ritirata facendo passare sotto silenzio un altro conflitto, stavolta poco distante: la guerra civile siriana. Questa «apocalisse umana» viene restituita nel libro con molta enfasi dall’autore; ne è un esempio il racconto di alcune donne che, perfino durante raid aerei e bombardamenti sopra le loro città, riuscivano a trovare attimi di quiete e tranquillità. La guerra raccontata da Quirico non è fatta dagli eserciti e dalla diplomazia internazionale, bensì è vissuta dalla popolazione civile, da persone innocenti e indifese uccise da eserciti mercenari. Anche in questo caso, nonostante i numerosi video, racconti e testimonianze, l’Occidente è rimasto immobile e la sua cittadinanza ha delegato ogni responsabilità alle cancellerie anziché manifestare in prima persona.
A fronte di questo decadimento morale, rimane solo la speranza che in futuro le persone possano diventare più partecipi delle tristi vicende che Quirico ha raccontato durante tutta la sua carriera, ma che fino ad ora non hanno ricevuto la giusta attenzione. Per far sì che questo avvenga, l’unica soluzione suggerita dall’autore è viaggiare in Paesi lontani, per conoscere culture e realtà profondamente diverse. Con l’obiettivo di un profondo esame di coscienza che permetta di immedesimarsi nell’altro, per liberarsi dall’egoismo, dal mutismo e dal disinteresse. Solo questo, secondo l’autore, può aiutare le persone a uscire dall’indifferenza, che altro non è che un impoverimento della coscienza.
Infine, Quirico si sofferma sulla crisi provocata dalla pandemia di Covid-19 che, avendo colpito trasversalmente i popoli di tutte le nazioni, può costituire un’occasione per ripensare il concetto di comunità basandolo su un sentimento di empatia universale. Quirico nota anche un’importante differenza tra le società del Nord e del Sud globale, cioè tra quelle che hanno mezzi più adeguati per contrastare la pandemia e quelle che ne sono prive. Nelle prime, abituate al benessere, la morte è solitamente poco più che uno sgradevole argomento di conversazione; perciò, l’impatto di Covid-19 ha cambiato le basi del vivere comune e il terrore di morire non di vecchiaia, ma a causa di un virus, ha riportato l’incertezza nella vita quotidiana. Altrove, per esempio nei Paesi centro-africani, dove il morbillo può essere tuttora un’importante causa di mortalità infantile, SARS-CoV-2 è invece solo uno tra i tanti vettori di malattie e sofferenze. Una volta passato questo pericolo, l’incertezza permarrà in una quotidianità segnata da pericoli e problemi, e forse soltanto l’Occidente avrà il lusso di tornare a una tranquilla normalità.
In conclusione, il saggio di Domenico Quirico presenta una riflessione trasversale su quanto sia diventata egoista la società occidentale. Per un giornalista che ha vissuto e visto con i propri occhi profondi drammi e tragedie, ciò è moralmente inaccettabile e rende quasi insignificante e nullo il proprio ruolo di testimone.