Recensione a: Eric Nelson, The Theology of Liberalism. Political Philosophy and the Justice of God, Harvard University Press, Cambridge (Mass.), 2019, pp. 232, 27 euro (scheda libro)
Scritto da Gio Maria Tessarolo
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Bob e Fred possiedono due conti in banca. Ad un certo punto è possibile (ma non certo!) che una certa somma di denaro venga trasferita dal conto di Bob a quello di Fred: di tale somma, tuttavia, è del tutto impossibile conoscere l’entità. Potrebbe trattarsi di un centesimo come di un intero stipendio, come anche di nulla. Quello che sappiamo per certo è che, prima dell’eventuale trasferimento, il conto di Fred non era vuoto. Che fare? E, soprattutto, cosa farebbe qualcuno che crede nei princìpi di base di una società liberale? La risposta più ovvia e più condivisibile è: nulla. Se non c’è alcun modo di accertare la sussistenza effettiva di un torto o di un errore da rettificare, non c’è semplicemente nulla da rettificare (o, per usare un termine chiave per il tema che si tratterà, da redistribuire).
L’ultimo libro del professore di Teoria Politica dell’Università di Harvard Eric Nelson, The Theology of Liberalism. Political Philosophy and the Justice of God, ha precisamente l’obiettivo di mostrare quanto esempi come quello che è stato appena fatto abbiano implicazioni profonde per alcuni dei “dogmi” della filosofia liberale contemporanea, e in particolare per quelli alla base dei vari filoni di ricerca sorti dalla Teoria della giustizia di John Rawls. La presa di posizione su questo punto è per molti aspetti dissacrante: di formazione Nelson è infatti non un filosofo analitico ma uno storico del pensiero politico, che ha studiato sotto la guida di Quentin Skinner nel cuore della “Scuola di Cambridge” durante gli anni d’oro del repubblicanesimo, su cui ha prodotto una serie di ricerche fra le più brillanti.[1] La virata in direzione del dibattito contemporaneo nasce dalla convinzione, espressa nella Prefazione, che «capirne la storia ci permetterà di fare filosofia meglio» (p. xi): anche al di là delle tesi sostenute, questo è un libro stimolante innanzitutto dal punto di vista metodologico perché si tratta di un caso (rarissimo, nell’ambito filosofico-politico) in cui un livello magistrale di competenza storiografica si associa a tesi teoriche innovative e sofisticate. L’obiettivo polemico del testo è ancor più significativo proprio perché quello della giustizia distributiva è un settore altamente tecnico, normalmente ritenuto dominio esclusivo degli specialisti, che ha però monopolizzato negli ultimi cinquant’anni la nozione di liberalismo nel mondo americano. Se infatti in altre culture, fra cui quella italiana, questa categoria ha ancora una ricchezza semantica maggiore, negli Stati Uniti in seguito alla pubblicazione delle opere di Rawls l’aggettivo liberal è divenuto in sostanza un sinonimo di rawlsian, e il dibattito liberale è divenuto in gran parte un dibattito sulla teoria della giustizia. Una serie di idee di base sono perciò diventate “liberali” per il semplice fatto che stavano alla base dell’architettura rawlsiana, ormai riconosciuta come atto di rinascita della filosofia politica occidentale dopo la sua morte annunciata da Peter Laslett a metà del secolo.[2]
Se la portata di questi problemi è in larga parte estranea alla scena culturale europea, ad essere molto famigliare è invece l’idea di base che Nelson mette nel mirino: per tornare all’esempio di partenza, quella che una risposta liberale alla domanda “che fare?” possa essere diversa da “nulla”. Convinzione condivisa dalle varie “famiglie liberali” americane è che una società giusta debba essere egualitaria non solo nel senso di garantire un’uguaglianza formale di fronte alla legge ma anche in quello per cui è necessario “neutralizzare” le differenze non imputabili a scelte e azioni volontarie e consapevoli. Le posizioni specifiche su come e quanto questo debba essere applicato variano molto, ma l’idea di fondo è piuttosto intuitiva: dal momento che le condizioni e i presupposti a partire dai quali ciascuno parte nella vita sono (con una celebre espressione rawlsiana) “moralmente arbitrari”, nel senso di non scelti e del tutto al di fuori del potere di ciascuno, e che essi sono palesemente ineguali, sono anche ingiusti. Una società giusta, perciò, deve far sì che queste differenze vadano per quanto possibile colmate, perché nessuno “merita” più di qualcun altro per il semplice fatto di essere nato più intelligente, più forte, più ricco o più bello: questo non significa abolire qualsiasi distinzione, ma (a seconda delle diverse teorie) consentire che ci siano disuguaglianze solo quando queste vanno a vantaggio dei meno fortunati, o prendere misure perché le istituzioni siano “immuni” da condizionamenti legati ai diversi “punti di partenza”. In breve, l’idea comune è che la politica sia una sorta di attività terapeutica, che ripara i torti subiti dai meno privilegiati o avvantaggiati: l’opzione più desiderabile per i soggetti rawlsiani, vincolati dal celebre “velo d’ignoranza”.
L’obiettivo di Nelson è precisamente dimostrare che questi assunti di base, per quanto intuitivi, non sono condivisibili: per dirigere il suo attacco chiama in causa in modo piuttosto ingegnoso uno strumentario concettuale apparentemente lontanissimo da quello delle serrate argomentazioni analitiche con cui di solito queste tesi vengono proposte, ossia il rapporto filosofia-teologia. La prospettiva, tuttavia, non è quella della teologia politica che tanta fortuna ha avuto nel pensiero continentale contemporaneo a causa delle sue radici schmittiane, quanto una propriamente storica: Nelson sostiene infatti che l’egualitarismo liberale prenda posizione senza saperlo nel dibattito secolare sulla giustizia divina e sul peccato originale, ma sul fronte sbagliato.
Sostenere che la “distribuzione originaria” di mezzi e talenti sia moralmente arbitraria significa infatti «incorporare una premessa teologica silente e controversa: ossia, che nessuna teodicea è possibile» (p. 75). Significa, in altri termini, sostenere che se ci fosse un Dio giusto[3] non avrebbe mai distribuito in questo modo risorse e possibilità. La cosa sorprendente, a questo punto, è la constatazione che quello che oggi si chiama “liberalismo classico” si è sempre contraddistinto per una presa di posizione diametralmente opposta: come Nelson mostra nel primo capitolo, tali pensatori erano accomunati dall’idea che il mondo fosse giusto proprio perché ineguale e pieno di sofferenza. La giustizia divina si rivelava al suo massimo nella libertà di conoscere il vizio e tuttavia scegliere la virtù: premessa inevitabile di questo ragionamento è naturalmente la negazione del peccato originale, ossia la posizione dell’eresia nota come pelagianesimo. Nelson sostiene addirittura che «il liberalismo, o l’insieme di posizioni difese da quelli che siamo soliti identificare come “protoliberali” – da Milton a Locke a Rousseau a Kant – era, in fondo, la posizione teologica nota come Pelagianesimo» (pp. 1-2).
Il punto di rottura fra questa linea e il liberalismo egualitario contemporaneo è lo stesso Rawls: il terzo capitolo del libro, che è senza dubbio il più brillante dal punto di vista storiografico, è interamente dedicato a mostrare come il grande filosofo americano si sia consapevolmente ed esplicitamente assestato su posizioni anti-pelagiane fin dalla sua giovanile tesi di laurea, in cui varie correnti teologiche si combinavano con influenze marxiste in una critica della nozione di merito, per sfociare poi nell’accettazione della dottrina del peccato originale e nell’elaborazione di quella di “arbitrarietà morale”. Come confermato anche dalle ricerche d’archivio sui marginalia di alcuni volumi posseduti dallo stesso Rawls, idee di questo tipo sono poi confluite, depurate dalla loro matrice teologica, nella Teoria della giustizia: è da una scelta consapevole e poi occultata che provengono le idee che stanno alla base dell’egualitarismo contemporaneo, che si proclama liberale ma che, secondo Nelson, ha ben poco a che vedere con ciò che il liberalismo è sempre stato.
Sulla base di questa complessa trama storico-teorica, il testo si volge poi a confutare in termini molto tecnici e dettagliati le varie possibili posizioni che sostengono la fondatezza del concetto di “arbitrarietà morale”: senza ripercorrere le intricate argomentazioni sviluppate, i risultati possono essere riassunti nell’idea che ragionare in termini di “distribuzione originaria” sia fuorviante e fallace. Se anche fosse possibile dimostrare che l’attuale “distribuzione” fosse ineguale (operazione già di per sé molto difficile, a meno di non ridurre le “risorse” ai semplici beni materiali: quanto “ineguale” è che A sia povero, intelligente e sano, B benestante, brutto e poco intelligente, C ricchissimo ma malato di una malattia incurabile?), questo non implica che essa sia ingiusta: non c’è infatti alcun modo di mostrare che essa non sia il “migliore dei mondi possibili”. È questa quella che Nelson chiama la theodicy challenge: come facciamo ad escludere la possibilità che proprio questa “distribuzione originaria” sia la più giusta, intendendo con “giusta” precisamente quello che i liberali egualitari intendono, ovvero l’ottimo paretiano più desiderabile per i meno avvantaggiati? In termini teologici: come facciamo a sapere che un Dio giusto e benevolo non avrebbe creato proprio questo mondo, con tutte le sue apparenti sofferenze e disuguaglianze? Se questo fosse vero, intervenire e modificare la “distribuzione originaria” non sarebbe solo ingiustificato e forse dannoso, ma anche profondamente ingiusto.
La risposta è che naturalmente non c’è alcun modo di saperlo per certo, e che pertanto non c’è alcun motivo per cui la filosofia politica debba arrogarsi il compito di correggere mali che ha essa stessa decretato come tali: la sofferenza e il dolore dei singoli casi individuali che si incontrano nella vita quotidiana possono suscitare empatia, rabbia, indignazione, ma non sono sufficienti a provare che il mondo o la società siano ingiusti nel senso filosoficamente rilevante del termine. Se pertanto «è vero che la attuale distribuzione di doti e vantaggi tra gli esseri umani non può essere giustificata», ossia non è possibile mostrare che essa è giusta, quello che il liberalismo rawlsiano non coglie è che «essa non ha alcun bisogno di esserlo» (p. 75), perché è sufficiente constatare che non è nemmeno possibile mostrare che essa non è giusta per togliere forza al progetto redistributivo.[4] Per tornare a Bob e Fred, pronunciarsi a favore della giustizia distributiva significherebbe pronunciarsi a favore di un trasferimento “alla cieca” di una somma arbitrariamente scelta dal secondo al primo, senza alcuna certezza che questo sia giusto: difficile pensare a qualcosa di più “moralmente arbitrario”.
La conclusione che è a questo punto importante mettere a fuoco è che da tutto ciò non discende affatto una negazione di legittimità a qualsiasi politica che abbia obiettivi egualitari: quello che Nelson nega è semplicemente che l’argomentazione più frequentemente utilizzata come sua giustificazione teorica, quella della “arbitrarietà morale”, regga. Il liberalismo deve, insomma, tornare a fare quello che ha sempre fatto: prendere come punto di partenza un mondo che è semplicemente così com’è, e che non ha bisogno di essere né giustificato né corretto, e mettere al centro il valore fondamentale della libertà. L’unica valida giustificazione del potere politico su queste basi è quella che ha a che fare con il concetto di rappresentanza, ossia con l’idea che agenti liberi autorizzino degli altri ad agire per loro conto all’interno di una certa struttura: non c’è bisogno di nulla di più per fondare politiche che abbiano anche scopi egualitari «per differenti tipi di ragioni, da quelle prudenziali (livelli estremi di ineguaglianza sono incompatibili con la stabilità politica nel corso del tempo) a quelle morali (abbiamo l’obbligo di prevenire la sofferenza quando farlo non implica per noi gravi costi)» (p. 165). In altri termini, alla funzione terapeutica una politica liberale dovrebbe preferire quella costruttiva: non curare l’umanità di colpe che nessuno ha commesso,[5] ma costruire un futuro migliore con i mezzi a disposizione.
Come tutti i libri ambiziosi, anche The Theology of Liberalism è una lettura tutt’altro che facile. Non solo, infatti, l’ordine in cui gli argomenti vengono presentati (del tutto diverso da quello che è stato qui adottato) è a tratti disorientante e impedisce di seguire con chiarezza il percorso argomentativo, ma molti punti sono deliberatamente solo accennati: tutta l’ultima parte del progetto teorico, quella che ha a che fare con l’alternativa al modello rawlsiano, è proposta in modo sommario, demandando ad un’altra occasione lo sviluppo di «una teoria completa dell’autorità politica» (p. 165): non si può che attendere con curiosità.
Per quanto riguarda l’incontro fra storia del pensiero politico e teoria politica un po’ di curiosità non può che essere suscitata anche dal “canone” scelto da Nelson per rappresentare il “liberalismo classico”, sostanzialmente identificato con Milton, Locke, Rousseau e Kant. Al di là dei meriti di questi quattro autori certamente imprescindibili, la cui scelta è stata evidentemente dettata dalla loro rilevanza per i dibattiti teologici in questione, viene spontaneo chiedersi cosa rimanga fuori da questa genealogia, che salta direttamente dalla Könisberg di fine Settecento al Massachusetts di metà Novecento. Non solo infatti essa esclude una serie di autori della prima modernità, da Montesquieu a Hume (evocato solo in conclusione per una questione molto specifica) a Smith, ma anche e soprattutto tutti quelli che nel XIX secolo hanno dato vita (come Nelson stesso ricorda) al vero e proprio concetto di liberalismo: di Constant, Tocqueville, Mill, Lord Acton (così come del liberalismo novecentesco non rawlsiano) non c’è quasi traccia, e il loro ruolo non sarebbe forse irrilevante in una storia di questo tipo.
Tutto ciò non toglie che The Theology of Liberalism sia un libro di cui non si può non sperare si parlerà. Se una delle cose di cui questo primo scorcio di XXI secolo sente la mancanza è proprio un ripensamento delle grandi ideologie del Novecento, anche il liberalismo dovrà inevitabilmente riconsiderare il suo ruolo e i suoi obiettivi: forse guardarsi alle spalle può essere un buon punto di partenza.
[1] Cfr. Eric Nelson, The Greek Tradition in Republican Thought, Cambridge University Press, Cambridge, 2004; Id., The Hebrew Republic: Jewish Sources and the Transformation of European Political Thought, Harvard University Press, Cambridge (Mass.), 2010; Id., The Royalist Revolution: Monarchy and the American Founding, Harvard University Press, Cambridge (Mass.), 2014.
[2] Cfr. Philosophy, Politics and Society, ed. by Peter Laslett, Basil Blackwell, Oxford, 1956.
[3] Inevitabilmente quando si ragiona in termini di “distribuzione originaria” si assume il punto di vista di un “distributore originario”, che lo si voglia chiamare Dio, fortuna, caso o in qualsiasi altro modo.
[4] Per di più, se anche questa distribuzione fosse effettivamente ingiusta, se si accetta che non si tratta di un gioco a somma zero il fatto che qualcuno sia più avvantaggiato di altri non implica automaticamente alcun obbligo di redistribuzione, dal momento che il fatto che qualcuno abbia avuto “più” di qualcun altro non significa che l’altro abbia per questo avuto “meno”.
[5] Incluse, paradossalmente, anche quelle che qualcuno ha effettivamente commesso, ossia ingiustizie, sfruttamenti e crudeltà del passato, su cui il sesto capitolo, che costituisce una confutazione del “libertarismo di sinistra”, ha argomentazioni molto convincenti da proporre.