Tra forza e liberazione: la via stretta del socialismo liberale
- 06 Aprile 2020

Tra forza e liberazione: la via stretta del socialismo liberale

Scritto da Alberto Baffigi

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Questo contributo fa parte di un dibattito su temi sollevati dall’articolo che apre il numero 6/2019 della Rivista «il Mulino», dal titolo Perché la democrazia è in crisi? Socialisti e liberali per i tempi nuovi, scritto congiuntamente da Giuseppe Provenzano ed Emanuele Felice. Tra i temi sollevati nella discussione la parabola storica del liberalismo e il possibile incontro con il pensiero socialista, le cause delle disuguaglianze, il ruolo e l’apporto delle culture politiche ai cambiamenti storici, le chiavi per comprendere il cambiamento tecnologico, le forme della globalizzazione e la crisi ambientale. Per approfondire è possibile consultare l’introduzione del dibattito con l’indice dei contributi pubblicati finora.


È un articolo importante quello di Emanuele Felice e Giuseppe Provenzano. Mette a fuoco un tema cruciale, ma storicamente trascurato dalla cultura di sinistra in Italia: quello del rapporto, o del possibile nesso, fra socialismo e liberalismo. Un tema che dovrebbe stare al centro dell’attenzione di chiunque tenga al riscatto degli sfruttati, al loro benessere, alla loro dignità, ai loro diritti e, quindi, alla loro libertà. Un tema trascurato, appunto: il libro più importante su tale questione, Socialismo liberale, che purtroppo non compare nelle pur interessanti argomentazioni dei due autori, fu scritto tra il 1928 e il 1929 da Carlo Rosselli, durante il suo confino a Lipari (qui tralascio, per minore affinità intellettuale, il liberalsocialismo di Guido Calogero). La prima edizione italiana apparve solo nel 1973, da Einaudi. John Rosselli, figlio di Carlo, ci aiuta a comprendere i motivi di un ritardo che lascia allibito chiunque si trovi oggi a sfogliare quell’aureo libretto: un tesoro di idee e di passione politica tolto al dibattito e alla conoscenza per lunghi anni. John attribuisce parte della responsabilità del ritardo all’«evoluzione della politica italiana, rispecchiata in quella intellettuale della casa editrice Einaudi» (John Rosselli, Prefazione in Stanislao G. Pugliese, Carlo Rosselli. Socialista eretico ed esule antifascista, Bollati Boringhieri, 2001).

Le difficoltà editoriali di Socialismo Liberale testimoniano dell’assenza, nel corso del dopoguerra, di un terreno culturale sul quale costruire un socialismo che superi il pensiero di Marx senza disconoscerne la perdurante vitalità e affermando l’assurdità di un suo rinnegamento, magari finalizzato a «un ritorno all’utopismo, o a correnti solidaristiche, giustamente obliate per il loro formalismo» (Carlo Rosselli, Socialismo liberale, Einaudi, 1979, p. 73). Rosselli avrebbe visto come un arretramento culturale, prima ancora che politico, il riferimento a Proudhon che Bettino Craxi tentò di utilizzare per una rinnovata ma dubbia prospettiva socialista. Quello di Rosselli era un socialismo che non mette Marx al centro della sua visione del mondo ma che dichiara a chiare lettere che «l’esperienza secolare del moto proletario non si cancella. Il figlio si emancipa, ma non può rinnegare il proprio padre»; e che conclude sottolineando che «i socialisti moderni sono figli di Marx, anche se oggi si rifiutano di ricevere la sua eredità senza un larghissimo beneficio d’inventario» (ivi). Sono parole sulle quali vale la pena riflettere ancora oggi.

L’incontro tra il pensiero liberale e quello socialista, che secondo Felice e Provenzano sarebbe «giunto a compimento in Occidente fra gli anni Sessanta e Settanta del Novecento», in realtà non trova riscontro nel dibattito culturale e politico dell’epoca. In Italia quella prospettiva ebbe chiare difficoltà. Ma anche altrove. Norberto Bobbio, nella sua Teoria Generale della politica (Einaudi, 1999) ricorda il giudizio di Ralf Dahrendorf sull’«etichetta “liberalsocialista”» che il politologo anglo-tedesco riteneva non convincente. Secondo Lord Dahrendorf i liberalsocialisti «nei fatti sono liberali». Il termine “liberalismo sociale” ha avuto una sua importanza in Germania, in quanto si riferiva all’alleanza di governo tra liberali e socialisti. «Ma quella era ed è un’alleanza, non una prospettiva ideologica unitaria» (citato in Bobbio, 1999, p.307). Si tratta di un compromesso tra famiglie ideologiche che si incontrano per il bene comune del Paese. Testimonianza di tale compromesso e della sua vitalità è la Costituzione italiana, certo; che però è appunto un compromesso, peraltro in ampia misura subito da liberali come Luigi Einaudi. Alla fine, la Costituente è il luogo alto del conflitto fra le culture politiche dell’epoca, non ne costituisce la sintesi. Il compromesso è la cifra ideologica del secondo dopoguerra, nel corso del quale non vi è traccia di una fusione ideologica, di un’armonizzazione tra culture politiche.

Gli indizi abbondano in questo senso. Ne ricordo due per mettere a fuoco due questioni: da una parte, l’immaturità e la scarsa consapevolezza del Paese, e delle forze di sinistra, nella battaglia per i diritti civili e, dall’altra, la difficoltà di dichiararsi riformisti dal punto di vista economico-sociale. Lo faccio traendo spunto da due personaggi molto diversi tra loro, ma che ancora oggi possono illuminarci con le loro idee: Pier Paolo Pasolini e Federico Caffè.

Rileggiamo l’articolo che Pasolini scrisse in occasione della vittoria del NO al referendum sul divorzio, nel 1974. L’articolo apparve sul Corriere della Sera il 10 giugno 1974 col titolo Gli italiani non sono più quelli. Negli Scritti Corsari viene raccolto come Studio sulla rivoluzione antropologica in Italia (Boringhieri, 1990, pp.39 e ss.). Lo ricordiamo tutti, Pasolini aveva osservato, col suo incedere amaramente disincantato e tagliente, che «il cinquantanove per cento dei “no”, non sta a dimostrare, miracolisticamente, una vittoria del laicismo, del progresso e della democrazia». «Il “no” è stato una vittoria, indubbiamente. Ma la reale indicazione che esso dà è quella di una “mutazione” della cultura italiana: che si allontana tanto dal fascismo tradizionale che dal progressismo socialista» (pp.40-41). Una vittoria né laica né socialista, insomma.

In tutto questo, sostiene Pasolini, «ora il Vaticano piange sul proprio errore. Il PCI, invece, finge di non averlo commesso ed esulta per l’insperato trionfo» (p.40). Del resto in un Paese in cui lo stesso liberalismo più tradizionale non ha mai messo radici, non stupisce l’assenza di una sua forma più evoluta e più adatta al mondo contemporaneo, come il socialismo liberale.

La lettura che Pasolini in tempo reale diede del referendum sembra ancor oggi convincente: la lotta laica e liberale per i diritti civili era stata sostanzialmente trascurata. Si tratta di un’interpretazione che Felice e Provenzano conoscono bene e che a occhio potrebbero anche condividere; un’interpretazione che pone un problema fondamentale: nella politica italiana almeno fino agli anni Settanta non vi è traccia di liberalismo, se si eccettua la pur importante azione dei radicali di Marco Pannella, liberale severo ma certo non socialista, sul quale ha pure scritto belle pagine Pier Paolo Pasolini nel volumetto corsaro. Vi è invece un importante e imprescindibile sforzo ugualitario, all’interno di una cornice democratica. Il Partito Comunista è un partito sempre più vicino a posizioni socialdemocratiche, senza averne consapevolmente ed esplicitamente maturato la prospettiva ideologica, un partito che, dopo aver dato un contributo culturale e politico fondamentale nella stesura della Costituzione, si muove all’interno delle regole del gioco democratico e vigila affinché quelle regole siano rispettate dagli avversari politici; un partito che ha favorito con impegno il progresso materiale e l’emancipazione delle classi lavoratrici. Ma tutto questo non basta per sostenere che, tra gli anni Sessanta e gli anni Settanta, si assiste a un incontro fra le due ideologie originariamente rivali.

Del resto, come ci ricorda Norberto Bobbio nell’introduzione all’edizione 1979 di Socialismo liberale «in genere i socialdemocratici, considerandosi prima socialisti che non democratici, ritengono di essere l’antitesi della tradizione liberale» (p.XXIX). I socialdemocratici non sono socialisti liberali. Le questioni che ho appena richiamato non vengono colte nell’articolo di Felice e Provenzano. In realtà, la tesi dei due autori, dell’incontro fra liberalismo e socialismo, può probabilmente essere sostenuta solo se si definisce l’idea liberale come «pensiero di emancipazione, fondato sulla centralità del lavoro», come essi fanno: è un liberalismo parente stretto della socialdemocrazia, un proto-socialismo come ha osservato Pasquale Terracciano in questo stesso dibattito. Ciò lascia perplessi. E non va trascurato questo punto nel valutare il discorso dei due autori. Si tratta di uno snodo delicatissimo, perché dal modo in cui pensiamo all’incontro fra liberalismo e socialismo dipendono le lotte che potranno essere condotte in futuro nella società e il punto di vista dal quale saranno portate avanti.

Ma vi è poi un’ulteriore questione altrettanto importante che definirei di prospettiva storica, di inquadramento prospettico del sistema capitalistico. Per continuare nella ricerca degli indizi, è esemplare, da questo punto di vista la lezione di Federico Caffè, un economista socialista e liberale come lo definì Paolo Leon (P. Leon, Un grande amico, p.258, in F. Caffè, Contro gli incappucciati della finanza, pp.257-262). Caffè scrisse La solitudine del riformista il 10 gennaio 1982 sulle colonne de Il Manifesto (è riprodotto nella raccolta omonima di articoli caffeiani curata Nicola Acocella e Maurizio Franzini – Boringhieri, 1990). Riformista allora era colui che si proponeva di trasformare in senso progressista la società in cui storicamente viviamo, un’accezione sostanzialmente diversa, forse opposta, rispetto a quella che la stessa parola avrebbe assunto nel corso dell’era neoliberista, quando riformista diverrà chi intende trasformare la società in modo da farla somigliare il più possibile alla rappresentazione che ne danno i libri di testo di economia.

Il riformista, per Caffè, è «convinto di operare nella storia, ossia nell’ambito di un “sistema”, di cui non intende essere né l’apologeta, né il becchino; ma, nei limiti delle sue possibilità, un componente sollecito ad apportare tutti quei miglioramenti che siano concretabili nell’immediato e non desiderabili in vacuo. Egli preferisce il poco al tutto, il realizzabile all’utopico, il gradualismo delle trasformazioni a una sempre rinviata trasformazione radicale del “sistema”».

Per questo motivo accadeva che il riformista fosse attaccato da destra come da sinistra. Ma per Caffè il lato da cui provenivano le critiche al suo riformismo non era indifferente. Egli si rammaricava per le critiche da parte progressista: «Più che essere colpito dagli strali del retoricume neoliberista (sempre dello stesso stampo), il riformista – avverte con maggiore malinconia le reprimende di chi gli rimprovera l’incapacità di fuoriuscire dal “sistema”. Egli è tuttavia, troppo abituato alla incomprensione, quali che ne siano le matrici, per poter rinunciare a quella che è la sua vocazione intellettuale. In questa non rientra, per naturale contraddizione, il fatto di dover occuparsi di palingenesi immaginarie. Sollecitato in vari modi a farlo, il riformista ha finito col rendersi conto che si pretendeva da lui qualcosa di simile a quello che si chiede a un pappagallo tenuto in gabbia, dal quale, con la guida di una bacchetta, si cerca di ottenere che scelga, con il suo becco, uno dei variopinti manifestini che si trovano in un apposito ripiano della gabbia».

L’ironia di Caffè è profonda e indica una strada che potremmo seguire; egli richiama una metafora, quella del pappagallo, nota agli economisti della sua generazione, come abbiamo recentemente ricordato insieme a Giacomo Gabbuti. Le indicazioni di Caffè non furono ascoltate.

Questo è il quadro dunque. Sembra difficile trovare nella cultura politica dominante a sinistra negli anni Sessanta e Settanta indicazioni feconde e ricettive rispetto al socialismo liberale. Non vi fu apertura esplicita e combattiva sui diritti civili e, d’altra parte, la parola riformista veniva spesso vista con sospetto e spesso condannata. Come ricorda chi ha vissuto quegli anni, non era comune il riconoscimento di una via progressista intermedia fra l’essere il becchino o l’apologeta del “sistema”.

L’unione fra socialismo e liberalismo, anzi l’idea che il socialismo sia il vero erede del liberalismo, in realtà non si è mai realizzata, sicuramente non in Italia. E sostenere che in realtà l’incontro fra le due culture politiche sia già avvenuto, in qualche modo indebolisce l’impresa che abbiamo di fronte, in gran parte da realizzare. In realtà, non abbiamo esperienze del passato già pronte all’uso sulle quali fare affidamento o prendere esempio, ma idee storicamente fondate da sviluppare di fronte a un futuro nuovo da costruire, tanto lavoro da fare; abbiamo bisogno di spirito critico acuto e profondo. E in questa prospettiva è chiara l’importanza di Carlo Rosselli, in polemica sia con la destra, che non ha gli strumenti culturali e non coltiva i valori necessari per comprendere cosa sia effettivamente il liberalismo, sia con la parte della sinistra che accetta, masochisticamente, l’idea di liberalismo sostenuta dalla destra – il liberismo – e quindi prende acriticamente le distanze dal metodo liberale, comunque declinato; prende le distanze anche dalla visione rosselliana, spesso sconosciuta. Non è questo il caso di Felice e Provenzano e, del resto, non possiamo sottovalutare il fatto che il loro articolo ha attratto gli strali di un giornale di centro-destra come Il Foglio, difensore di un liberalismo che fa rima con liberismo.

Purtroppo, però, se da una parte, gli strali di un retrogrado “retoricume neoliberista” mostrano che siamo sulla strada giusta, l’operazione di Felice e Provenzano desta alcune perplessità in una prospettiva di sinistra riformista. Carlo Rosselli, grande antifascista, non ha mai avuto buona stampa in Italia e continua a essere penalizzato; forse il suo pensiero è difficile da digerire: spariglia, cambia il gioco ideologico, mettendo insieme e sullo stesso piano la libertà e l’eguaglianza, dimostra che il conflitto fra liberali e socialisti trae origine dal fatto che i veri liberali sono proprio i socialisti, mentre coloro che liberali si definiscono sono solo i pappagalli del liberalismo delle origini, quando, sì, il liberismo aveva un senso come strumento di liberazione dall’assolutismo delle società tradizionali. Ma purtroppo Felice e Provenzano non citano Rosselli. E la cosa colpisce, appare incoerente con il loro obiettivo: dimostrare l’importanza di tener insieme liberalismo e socialismo; un obiettivo oggi urgente che però, nella prospettiva dei due autori, sembra risolversi nell’indicare la possibilità e l’utilità di un incontro, di una riconciliazione tra le due ideologie. Ma non è questa l’operazione di Rosselli per il quale liberalismo e socialismo hanno ruoli ben chiari: il liberalismo è un metodo, una “forza ideale ispiratrice”, un quadro di riferimento che però ha bisogno di sostanza etica e storica, di una “forza pratica realizzatrice” affinché non si limiti a enunciare principi astratti. Il liberalismo deve parlare agli uomini in carne e ossa: a ciò provvede il socialismo.

Come avverte Bobbio, «errerebbe chi fosse indotto a pensare che per “socialismo liberale” si debba intendere una astratta dottrina che combini o fondi o integri i due principî sommi della libertà e dell’eguaglianza, concepito il liberalismo come la filosofia della libertà, il socialismo, dell’eguaglianza, in una sintesi tanto sublime filosoficamente quanto povera di contenuti reali e politicamente sterile (nella citata prefazione a Socialismo liberale, p.XXVII)».

Bobbio invita a cogliere la complessità del rapporto tra socialismo e liberalismo nell’opera di Rosselli del quale è importante documentare il pensiero: «il socialismo non è che lo sviluppo logico, sino alle sue estreme conseguenze, del principio di libertà. Il socialismo, inteso nel suo significato più sostanziale e giudicato dai risultati – movimento cioè di concreta emancipazione del proletariato – è liberalismo in azione, è libertà che si fa per la povera gente. Dice il socialismo: l’astratto riconoscimento della libertà di coscienza e delle libertà politiche a tutti gli uomini, se rappresenta un momento essenziale nello sviluppo della teoria politica, ha un valore ben relativo quando la maggioranza degli uomini, per condizioni intrinseche e ambientali, per miseria morale e materiale, non sia posta in grado di apprezzarne il significato e di valersene concretamente. La libertà non accompagnata e sorretta da un minimo di autonomia economica, dalla emancipazione dal morso dei bisogni essenziali, non esiste per l’individuo, è un mero fantasma. L’individuo in tal caso è schiavo della sua miseria, umiliato dalla sua soggezione; e la vita non può avere per lui che un aspetto e una lusinga: il materiale. Libero di diritto, è servo di fatto. E il senso di servitù aumenta in pena ed ironia non appena il servo di fatto acquista coscienza della sua libertà di diritto e degli ostacoli che la società gli oppone per conseguirla. Ora di questi individui, dice il socialista, era piena la società moderna allorquando il socialismo nasceva; di questi individui ancor oggi è composta in regime capitalistico buona parte della classe lavoratrice, priva di ogni diritto sui suoi strumenti di lavoro, d’ogni compartecipazione alla direzione della produzione, d’ogni senso di dignità e di responsabilità sul lavoro – dignità e responsabilità, primi scalini della scala che conduce dalla schiavitù alla libertà.

[…] Il liberalismo borghese è impotente a intendere il problema sollevato dal movimento socialista: non comprende cioè che la libertà politica e spirituale non è in grado, da sola, di realizzare l’esigenza liberale. Arbitrariamente estende la propria esperienza storica al proletariato, e assurdamente ritiene che il problema della libertà possa porsi in modo eguale per tutte le classi. È chiaro ad esempio che mentre la conquista della libertà politica costituì per la borghesia la sublimazione, il coronamento della sua potenza, già affermatasi in sede economica e culturale; per il proletariato, privato d’ogni effettiva influenza sulla direzione della vita economica, la rivendicazione e successiva conquista della libertà politica nulla rappresentò se non l’inizio della emancipazione anche economica. Il percorso è nettamente inverso». (Socialismo liberale, 1979, pp.90-93).

Allora occorre chiedersi: perché lasciare la bandiera del liberalismo ai liberisti, perché non puntare il dito contro le loro rozze e antistoriche contraddizioni logiche? Il liberalismo non serve ad annacquare il socialismo, come qualcuno a sinistra potrebbe credere, ma dovrebbe servire a rafforzarlo, a rafforzare la sua battaglia di liberazione che altrimenti rischia di poggiare esclusivamente su un giudizio etico sulle differenze di classe, sulle diseguaglianze sociali, trascurando per questo il problema della libertà. La battaglia per l’uguaglianza (non solo delle opportunità) deve invece essere battaglia per la libertà, come insegnano ad esempio un economista come Amartya Sen e una filosofa come Martha Nussbaum, con il loro capability approach. E a questo fine il liberalismo è importante per fare un discorso sul potere (strettamente legato a quello sulla libertà) che il socialismo non ha mai fatto: il potere va limitato, legalizzato, orientato al bene pubblico; su questo il socialismo ha molto da imparare dal liberalismo che ha sempre agito in questa prospettiva, seppur all’interno di clausole di esclusione classiste. Queste vanno combattute ed eliminate, il metodo va preservato e valorizzato.

Sulla questione del potere è interessante la posizione di un comunista come Domenico Losurdo, che egli esprime nel suo preziosissimo libro Controstoria del liberalismo. Losurdo non è mai stato un intellettuale arrendevole, le sue posizioni non sono state mai posizioni anodine, compromissorie, deboli. Ciò rende ancor più degne di nota le articolate valutazioni che egli formula sul liberalismo. Nella sua “controstoria”, dopo aver ricostruito i crimini imputabili all’ideologia liberale – lo schiavismo, il razzismo, lo sfruttamento classista – egli conclude con alcune considerazioni che vale la pena leggere riga per riga: «proprio da questa ricostruzione storica, lontana da ogni tono apologetico ed edificante, emergono i reali meriti e i reali punti di forza del liberalismo. Dando prova di una straordinaria duttilità, esso ha cercato costantemente di rispondere e adattarsi alle sfide del tempo. È vero, ben lungi dall’essere spontanea e indolore, tale trasformazione è stata in larga parte imposta dall’esterno, ad opera di movimenti politici e sociali coi quali il liberalismo si è ripetutamente e duramente scontrato. Ma per l’appunto in ciò risiede la duttilità. Il liberalismo ha saputo apprendere dal suo antagonista (la tradizione di pensiero che, prendendo le mosse dal “radicalismo” e passando attraverso Marx, sfocia nelle rivoluzioni che in modi diversi a lui si sono richiamate) ben più di quanto il suo antagonista abbia saputo apprendere dal liberalismo. Soprattutto, l’antagonista non ha saputo apprendere quello che costituisce il secondo grande punto di forza del liberalismo. Certo, il processo di apprendimento dal liberalismo è tutt’altro che agevole, almeno per coloro che vogliono superare le clausole d’esclusione che attraversano in profondità questa tradizione di pensiero. Nessun’altra più di essa si è impegnata a pensare il problema decisivo della limitazione del potere. Epperò, storicamente, questa limitazione del potere è andata di pari passo con la delimitazione di un ristretto spazio sacro: maturando un’autocoscienza orgogliosa ed esclusivistica, la comunità dei liberi che lo abita è spinta a considerare legittima la schiavizzazione ovvero l’assoggettamento più o meno esplicito, imposti alla grande massa dispersa per lo spazio profano. Talvolta si è giunti perfino alla decimazione e all’annientamento. È dileguata del tutto questa dialettica in base alla quale il liberalismo si trasforma in un’ideologia del dominio e finanche in un’ideologia della guerra?» (Domenico Losurdo, Controstoria del liberalismo, Laterza, 2006, p. 339). E conclude: «E tuttavia, per difficile che possa essere tale operazione per coloro che sono impegnati a superare le clausole d’esclusione del liberalismo, assumere l’eredità di questa tradizione di pensiero è un compito assolutamente ineludibile» (ivi, p.340).

Carlo Rosselli avrebbe applaudito. Ma allora cosa traiamo da questa riflessione? Ne traiamo che una forza di sinistra non può limitarsi a trovare una formula ideologica astratta, come a mio avviso rischia di essere quella del liberalismo sociale proposta da Felice e Provenzano. Una forza di sinistra deve avere una “forza ideale ispiratrice”, e ciò è importante, ma deve anche imprescindibilmente far leva su una “forza pratica realizzatrice”, per usare il linguaggio rosselliano: la prima è l’idea di libertà, di liberazione, che non può essere realizzata semplicemente astenendosi dal fare e dal pianificare, ma nemmeno intervenendo senza limitazioni, al difuori di un quadro istituzionale democratico e liberale; la seconda è la forza, l’energia che deriva dal far riferimento a movimenti sociali reali, dall’apprendere da essi, ma anche dall’educarli; ai tempi di Rosselli, questa forza era data dal proletariato, dal movimento operaio. E così gli ideali liberali dovevano essere portati ai più deboli e agli sfruttati, per dare loro gli strumenti per la libertà, cioè accesso alle risorse economiche, alla cultura, al pieno esercizio dei diritti liberali. Oggi è più difficile, ma l’obiettivo di una forza di sinistra non può non essere analogo; è però più arduo e più complesso dare identità e prospettiva a una “forza pratica realizzatrice”. Occorre identificare le classi, i soggetti sociali, cui far riferimento, ai quali rivolgersi per comprendere la situazione materiale in cui vivono, il modo in cui si collocano nella vita economica e sociale, i rapporti di produzione che ne influenzano lo status; occorre inoltre coordinarne l’azione politica. Le idee come si sarebbe detto un tempo debbono avere gambe per camminare, altrimenti rischiano di ridursi a elucubrazioni a tavolino: Bobbio esclude che quelle di Rosselli lo fossero. Quelle di Felice e Provenzano hanno bisogno di qualche messa a punto e, soprattutto, di essere messe alla prova.

Scritto da
Alberto Baffigi

È economista e responsabile dell’Archivio storico della Banca d’Italia. Si occupa di storia economica e di storia del pensiero economico ed è autore di studi sulla storia della statistica e del pensiero economico nell’Italia liberale e fascista: “Il PIL per la storia d’Italia. Istruzioni per l’uso” (Marsilio 2015), “Luigi Einaudi: teoria economica e legislazione sociale nel testo delle Lezioni” (Banca d’Italia 2010) e “Cultura statistica e cultura politica: l’Italia nei primi decenni unitari” (Banca d’Italia 2007). Le opinioni espresse in questo articolo sono personali, non coinvolgono l’Istituto presso il quale lavora.

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