Scritto da Jacopo Scita
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L’intervista che pubblichiamo è un estratto dal volume Il trono di sabbia. Stato, nazione e potere in medio oriente edito da
Il concetto di legittimità è centrale nella teoria dello stato. Legittimo è, in senso giuridico, quel potere che agisce – quando presenti – in piena conformità alle norme costituzionali, oppure, in ottemperanza di un diritto che può essere divino o di successione dinastica. Tuttavia, questa dimensione, per così dire formale, non risolve una questione più profonda che è tanto tipica delle democrazie, quanto dei regimi di tipo autoritario: il potere ha sempre la necessità di legittimarsi di fronte al proprio popolo, perché è solo attraverso la costruzione (o l’imposizione) di una traiettoria comune tra governanti e governati che i regimi trovano la propria stabilità.
In Medio Oriente la saldatura tra i regimi, spesso di tipo autoritario, e i cittadini è avvenuta e tuttora avviene tramite il ricorso alla violenza e al controllo orwelliano della popolazione, tramite narrative e strutture settarie, ma anche attraverso la forza, talvolta dirompente, delle ideologie, siano esse nazionalistiche, di stampo socialista o di origine religiosa. Tuttavia, la storia, anche quella più recente, ha mostrato come questa saldatura sia generalmente precaria, spesso viziata dall’incapacità propria dei regimi autoritari di crearsi uno spazio di legittimità che resista all’evolversi delle contingenze storiche e che, soprattutto, riesca a rispondere in modo elastico dalle richieste socioeconomiche e politiche dei cittadini. Dall’intervista che segue emerge chiaramente quello che forse è il peccato originale dello stato mediorientale: i confini e le strutture di potere che in larga parte definiscono ancora oggi la regione sono il frutto artificiale dell’azione delle potenze coloniali, potenze che hanno disegnato la mappa del Medio Oriente del Nordafrica secondo logiche di convenienza e interesse; le stesse logiche che, in forma diversa, spingono ancora oggi attori esterni a invischiarsi nelle dinamiche politiche regionali. In sostanza, per i regimi mediorientali la questione della legittimità si pone su almeno due piani diversi ma coincidenti: quello domestico, rappresentato dalla lotta per il mantenimento del potere, e quello esterno che si manifesta nella necessità di sfruttare a proprio favore o di respingere attivamente le pressioni ricevute dagli attori regionali e dalle potenze globali.
Per tutte queste ragioni, quando si parla di legittimità in riferimento ai regimi mediorientali e nordafricani si apre un vaso di Pandora che, abbracciando le più importanti tappe di evoluzione storica, politica e sociale della regione, contiene si sé stesso le caratteristiche peculiari e le criticità assunte dalla forma stato in Medio Oriente.
Quando si parla dell’intersezione tra stato e potere, il tema della legittimità è centrale. Questo è ancora più evidente in una regione, il Medio Oriente, in cui la somma di turbolenze politiche, economiche, sociali e religiose impone ai detentori del potere la continua sfida di dover legittimare – spesso attraverso l’uso della violenza – il proprio regime. A suo giudizio esiste oggi, nella regione, un regime che può dirsi veramente e completamente legittimo e dunque stabile?
Alberto Negri: Direi nessuno. E direi nessuno per un motivo legato alla storia della regione: praticamente tutti gli stati del Medio Oriente e del Nordafrica nascono dall’occupazione coloniale e poi attraversano l’epoca della decolonizzazione. Prima la disgregazione dell’Impero Ottomano, che è fondamentale perché dà luogo a entità territoriali che non erano storicamente mai esistite, e in secondo luogo gli stati coloniali che si consolidano dopo la spartizione anglo-francese (celebre l’Accordo di Sykes-Picot del 1916) e la Seconda guerra mondiale. Quindi quello dell’epoca coloniale e della successiva decolonizzazione è un marchio di origine che il Medio Oriente si trascina ancora oggi. In questo senso gli esempi sono molteplici.
La Turchia stessa è un moncone di quello che era l’Impero Ottomano e che, nell’ideologia di Mustafa Kemal detto Atatürk[1], deve ricomprendere la popolazione di etnia turca dell’Impero. Tuttavia, proprio la realtà multietnica impone ad Atatürk di inventarsi la nozione stessa di turco: la popolazione turca era formata da componenti diverse, da quella armena a quella curda, da quella circassa ai vari gruppi linguistici, per non parlare poi delle diverse declinazioni dell’islam presenti nell’Impero, di cui la più evidente di tutti era quella degli Aleviti. Mustafa Kemal si trova, quindi, a costruire sotto l’ideologia nazionalista turca uno stato composto da etnie e religioni differenti: è la stessa storia che si trovano ad affrontate l’Iraq, la Siria, il Libano – che è forse l’esempio più chiaro – e che poi è alla base della questione israelo-palestinese. Ci troviamo di fronte a territori spesso e volentieri ricompresi entro confini, i cosiddetti stati-nazionali, che in realtà di “nazionale” hanno poco perché sono entità multietniche, multi-religiose e multinazionali, unite da confini molto spesso studiati a tavolino e stabiliti artificialmente attraverso i trattati che seguirono quello di Versailles del 1919, dalla Conferenza di Sanremo (1920) al Trattato di Losanna (1923).
Questo processo vale anche per l’area araba nordafricana. Lo stato che ha, probabilmente, la componente etnica più omogenea è l’Egitto, ma già lo stato tunisino presenta una forte componente berbera, per non parlare poi dell’Algeria e del Marocco, il quale può essere considerato, in qualche modo, lo stato più legittimato del Nordafrica vista la continuità monarchica che affonda nella tradizione secolare della monarchia alawide. La storia algerina, invece, è particolarmente singolare: si tratta dell’unico stato dell’area nato da un conflitto coloniale, quello contro la Francia che costa all’Algeria un milione di morti e che porterà agli Accordi di Évian del 1962 e all’indipendenza della Repubblica socialista algerina. La storia dell’Algeria è singolare anche vista la lunghissima eredità coloniale francese che comincia nel 1832 e che ne fa un territorio metropolitano: chi nasceva in Algeria otteneva direttamente il passaporto francese e questo diede origine a una serie di paradossi, il cui esempio più tipico è quello dei capi della rivolta anticoloniale, incluso il famosissimo Ahmed Ben Bella[2], che, in virtù della cittadinanza francese avevano combattuto per Parigi nella Seconda guerra mondiale.
La Giordania è poi un altro caso molto interessante: la nazione nasce come stato cuscinetto nell’area della Transgiordania voluto da Winston Churchill per dare un regno a quella monarchia hashemita che era stata sconfitta ed espulsa dall’Arabia Saudita, partecipando alla rivolta di Lawrence d’Arabia[3] che aveva dato il via alle rivolte arabe del 1916-1918.
La stessa Arabia Saudita, la cui unità territoriale ci può sembra- re di lunga data, in realtà è anch’essa uno spezzone dell’Impero Ottomano da dove i custodi della Mecca e Medina, ovvero gli hashemiti, vennero espulsi a favore della famiglia degli al-Saud e della dinastia wahabita. Lo stesso Wahabismo ha, proprio nella Arabia Saudita e soprattutto nella penisola araba, declinazioni molto diverse che sono arrivate finanche a esplodere, come nel caso del recente contrasto tra Riyad e Doha. In Arabia Saudita non va poi dimenticata la presenza di una forte componente sciita che occupa la zona nord del paese.
I casi che ci ha appena illustrato mostrano come la costruzione dello stato e della nazione in Medio Oriente sia profondamente legata alla storia coloniale. Quali sono, dunque, le principali dinamiche che hanno definito e tutt’ora tentano di definire la legittimità del potere negli stati della regione?
Alberto Negri: L’idea di legittimità in Medio Oriente si forma attorno a questa storia complessa e a volte difficile da seguire in tutte le sue ramificazioni, spesso e volentieri priva di una sua contemporaneità visto che, per esempio, lo stato turco nasce quando ancora i francesi controllavano come potenza coloniale la Siria e il Libano e gli inglesi, attraverso una sorta di protettorato monarchico, l’Iraq. Ci troviamo dunque di fronte a un concetto di legittimità difficile da formare e anche, in qualche modo, difficile da definire se non facendo riferimento alla stessa storia coloniale: nel momento della definizione dei nuovi stati si era posto il problema di definire, per esempio, chi fossero i governanti della Siria, piuttosto che dell’Iraq e della Giordania. Francesi e inglesi, in questi casi, scelsero di ricorrere alla dinastia hashemita, andando, dunque, a rintracciare nella storia quelle famiglie che, per prominenza e declinazioni monarchiche o tribali, costituissero in quei paesi nuclei di potere precedenti al periodo coloniale e all’Impero Ottomano stesso. Si va quindi a scavare nel passato nel tentativo di costruire dei governi in grado di poggiarsi su dinastie arabe ritenute storicamente più o meno legittime.
Questo aspetto è molto importante perché la catena di successione costituisce uno dei principali criteri di legittimità che ancora oggi osserviamo nella regione: tale catena può essere costituita dalla successione di famiglie che, tramite il riconoscimento della propria leadership tribale o monarchica, hanno ottenuto il controllo di vaste aree – questo è il caso dei già citati hashemiti; oppure si ricorre alla successione religiosa. Spesso questi due aspetti si incrociano: gli hashemiti stessi, antichi custodi della Mecca e Medina, hanno, in qualche modo, una legittimità non solo politica ma anche religiosa; oppure si può pensare alla monarchia alauita in Marocco che rivendica la propria discendenza da Maometto; o ancora alla Repubblica islamica iraniana dove i più prominenti degli Ayatollah sono quelli con il turbante nero, i Seyed che rivendicano anch’essi la discendenza dal Profeta, e non stupisce che le due Guide Supreme che si sono succedute fino a oggi facciano parte di questo gruppo. In realtà, l’Iran meriterebbe un discorso a parte perché, rispetto a tutti gli altri esempi che ho citato, è l’unica realtà, insieme all’Impero Ottomano, a vantare una continuità storica che inizia 2500 anni fa e che rende l’Iran il successore delle varie monarchie che hanno governato quei territori negli ultimi sette/otto secoli, dai Safavidi, passando per i Cagiari e arrivando fino ai Pahlavi e ai loro richiami all’Impero Persiano. E se vogliamo, tra tutti gli stati della regione, l’Iran è l’unico i cui confini ricalcano quelli storici, mantenendo il cuore della nazione nell’altopiano iranico. Mentre se si pensa alla Turchia contemporanea la situazione è opposta: Atatürk ha ridisegnato il cuore dello stato turco portandone la capitale ad Ankara, nel centro dell’Anatolia che non mai era stata il fulcro di un Impero Ottomano che partendo da Istanbul guardava verso i Balcani e l’Europa.
Quindi la legittimità stessa di questi paesi attraversa tutte queste caratterizzazioni che abbiamo individuato, riassumibili nel tentativo di rintracciare nella catena della storia e delle successioni dinastiche e religiose un fondamento di legittimità. Questo nel contesto di stati che, in realtà, comprendono popolazioni di origine molto diversa entro confini di tipo artificiale.
Diamo uno sguardo alla storia recente. Il Novecento è senza dubbio stato il secolo delle ideologie e il Medio Oriente non è certamente esente da questa definizione. Terzomondismo, panarabismo, socialismo arabo e islam politico sono alcune delle grandi narrazioni attorno alle quali i regimi mediorientali hanno costruito il proprio spazio di azione politica ed economica e, in qualche modo, anche la propria legittimità. È davvero finita l’epoca in cui i regimi della regione potevano cercare la propria legittimazione in ideologie forti e spesso sovranazionali?
Alberto Negri: Per rispondere a questa domanda vorrei tornare al concetto di legittimità che abbiamo affrontato nella precedente domanda per specificare una cosa: perché abbiamo assistito a questa spasmodica ricerca di legittimità dello stato? La risposta è che questi stati non solo uscivano dalla decolonizzazione, ma, come ricordavo prima, ricomprendevano situazioni multietniche e multireligiose in cui i regimi tendevano da una parte a cercare di includere tutti i gruppi nella costruzione della legittimità dello stato, ma dall’altra erano i primi a escludere dalla vita pubblica e politica coloro che ne mettevano in dubbio la legittimità. Faccio un esempio: i curdi vennero divisi dai nuovi confini postcoloniali in quattro stati differenti e da lì hanno sempre messo in dubbio la legittimità dei regimi a cui erano sottoposti: è per questo che la storia ci mostra come il popolo curdo sia stato spesso e volentieri emarginato anche in modo violento.
Tornando alla domanda, le ideologie hanno funzionato come collanti in situazioni in cui la legittimità dei regimi non era salda come poteva sembrare o come le stesse potenze coloniali avrebbero voluto che fosse dopo l’insediamento dei propri protetti. Allo stesso tempo, le ideologie rispondevano alla necessità di inclusione da parte dei governi: tale necessità non riguardava esclusivamente le etnie e le declinazioni settarie e religiose, ma soprattutto le masse popolari. Il Novecento è infatti l’epoca delle masse che determinano prima la Rivoluzione di Ottobre in Russia e poi si fanno protagoniste di tutti i grandi movimenti socialisti europei, fino a lambire anche gli stati nati dalla disgregazione dell’Impero Ottomano. La necessità di includere queste nuove masse che si erano affacciate alla ribalta della storia riapre la questione della legittimità: non era più sufficiente affidarsi soltanto alla catena dinastica che abbiamo già descritto ma, nel pieno della decolonizzazione novecentesca, le ideologie diventavano il perfetto strumento di inclusione in grado di rispondere ai due principali fattori dietro all’emergenza delle masse: la crescita demografica e l’urbanizzazione.
Le ideologie, quindi, si diffondono anche in Medio Oriente, sia di importazione, sia, per così dire, di origine locale. Si tratta di un processo molto lungo, avviatosi già nella seconda metà dell’Ottocento all’interno dell’Impero Ottomano quando alla necessità di rinnova- mento corrisponde, per esempio, l’emersione di nuove élite di potere che sono in qualche modo funzionali al tentativo di modernizzazione dell’Impero che risulterà dal Tanzimat [4]. Poi, a cavallo tra la fine della Seconda guerra mondiale e il dopoguerra, si assiste all’arrivo delle idee socialiste che si imporranno a partire dall’Egitto di Nasser, dove avviene un colpo di stato se vogliamo di sinistra che, nel pieno del conflitto tra Est e Ovest, avvicina lo stato egiziano all’Unione Sovietica. Contemporaneamente si assiste all’emergere di partiti di stampo socialista e nazionalista di cui il rappresentante più importante e prestigioso è il Ba’th, nato in Siria alla fine della Seconda guerra mondiale e fondato da Michel Aflaq, cristiano ortodosso, e Salah al Bitar, arabo sunnita. La nascita del partito Ba’th[5] è fondamentale perché la nuova formazione si rivolge a un ampio spettro della popolazione siriana e araba in generale, cercando di attirare a sé le classi sociali emergenti. In Siria la prima diffusione del Ba’th non è soltanto urbana ma avviene nelle zone rurali tra i piccoli contadini che cercano emancipazione dalle dinamiche ancora presenti del latifondo ottomano. Non va dimenticato, infine, che l’ideologia baathista ha poi costituito il nerbo di regimi che sono rimasti al potere per decenni come quello di Saddam Hussein, e che sono ancora protagonisti della politica mediorientale con il regime siriano di Bashar al-Assad.
In definitiva, l’ideologia è uno strumento di legittimazione e inclusione, ma anche uno strumento di emancipazione delle nuove masse che irrompono sulla scena del xx secolo.
La gran parte dei regimi mediorientali sono di tipo autoritario e dunque non fondano la propria legittimità su un patto sociale orizzontale tra cittadini e stato. La questione che si pone, dunque, è quella di come cercare di mantenere il regime stabile e al potere cooptando la società civile. A parte l’uso della violenza, che è certamente un aspetto cruciale, quali sono gli altri elementi che i regimi autoritari attuano per far sì che la società a essi sottostante rimanga fedele al sistema di potere in atto e non ne cerchi il rovesciamento?
Alberto Negri: La prima cosa che notiamo arrivando in Medio Oriente è che ogni regime della regione ha il ministero dell’informazione. In occidente non esistono questi ministeri. Queste istituzioni non sono dedicate a informare ma in qualche modo a controllare e limitare proprio l’informazione stessa, cioè qualcosa di paradossale e di assai ironico. In genere il ministero dell’informazione contiene il messaggio che viene mandato a tutti, dalla popolazione ai media, cioè che tutto è sotto il controllo del regime.
Ci sono poi gli apparati di sicurezza e i servizi. Molto spesso notiamo che questi apparati sono pletorici: in Iraq, ai tempi di Saddam, si contavano ben dodici branche dei servizi segreti; una dozzina sono anche le branche che c’erano e probabilmente ancora operano nella Siria di Bashar al-Assad; lo stesso si può dire dell’Egitto dove, tra l’altro, la competizione tra i servizi è emersa molto chiaramente – e drammaticamente – nel caso di Giulio Regeni. Tuttavia, noi che frequentiamo da tanti anni l’Egitto e la regione abbiamo a che fare con il Mukhabaràt – i servizi – in tutte le sue declinazioni e in ogni regime. Un altro esempio a cui pensare è quello algerino, dove gli apparati di sicurezza sono stati utilizzati in modo capillare per contrastare il terrorismo islamico. Molto spesso vediamo che i capi dei servizi sono gli uomini più potenti di questi paesi, in genere provenienti dai ranghi militari e molto spesso in grado di controllare i gangli del potere.
Poi ciò che veramente colpisce è la capillarità del controllo del territorio da parte di questi regimi, per esempio attraverso l’utilizzo di determinate categorie sociali: probabilmente non esagero se dico che i tassisti sono tutti spie. Questo non deve sorprendere: chi è costantemente in contatto con la popolazione e addirittura con gli stranieri viene periodicamente interrogato dai servizi sull’attività che svolge. È difficile pensare che muovendosi con un autista a Tehran o ad Algeri, piuttosto che a Damasco, gli apparati di sicurezza non siano a conoscenza di questi spostamenti. Spesso i ricercatori e i giornalisti occidentali si meravigliano per questa situazione – che talvolta ha risvolti drammatici – ma in qualche modo questa è un’ingenuità visto che il controllo continuo e capillare è una caratteristica fondamentale di questi regimi.
Naturalmente, con l’arrivo del flusso di informazioni legato all’utilizzo di internet questo controllo è diventato totale anche sui telefoni mobili e sui computer: io stesso ho spesso dovuto aggirare la censura che impedisce di accedere a svariati siti internet, dal blocco di Wikipedia in Turchia al monitoraggio della Bbc. La censura, il controllo dei messaggi e delle mail, l’ascolto delle telefonate sono anch’essi capillari. Ovviamente c’è anche un controllo sulla popolazione più tradizionale che viene attuato attraverso vari settori sociali: per esempio non c’è dubbio che le Moschee e gli Iman siano attenzionati costantemente da parte dei servizi.
Un altro aspetto fondamentale e interessante è l’utilizzo delle minoranze come strumento di controllo: per i già citati motivi legati alla multietnicità e multireligiosità tipica degli stati mediorientali, le divisioni settarie all’interno del quadro di ciascun paese possono essere sfruttate da chi detiene il potere per controllare la popolazione. Questo avviene, per esempio, con i cristiani in Siria o, ai tempi di Saddam Hussein, con l’utilizzo di alcune minoranze presenti in Iraq, tra cui, in taluni casi, persino i curdi: Masoud Barzani, leader del Partito democratico del Kurdistan (Pdk), è diventato miliardario vendendo il petrolio di Saddam alla Turchia nel periodo delle sanzioni internazionali contro Baghdad. Quindi quello a cui assistiamo è il controllo di informazioni e risorse attraverso l’uso delle minoranze. Una cosa che mi diceva qualche tempo fa l’Arcivescovo di Baghdad Shlemon Warduni è che le minoranze in Iraq non erano state usate solo in contrapposizione ma in una sorta di giustapposizione, questa è la definizione che lui mi dava, nel senso che veniva attuata una sorta di divisione del lavoro sociale tra le minoranze presenti nel paese, non tanto per contrapporle ma per farle convivere tra loro e servire il potere. Potere che ha interesse a sfruttare le divisioni settarie per i suoi obbiettivi di controllo, ma non ha certamente vantaggio a contrapporre questi gruppi perché ciò rischierebbe di minare la stabilità stessa del regime. La monarchia hashemita giordana, per esempio, ha un controllo capillare attraverso i servizi della popolazione che, come si sa bene, è formata in larga maggioranza da popolazione di origine palestinese e non beduina; in questo contesto, però, i beduini costituiscono il gruppo di tribù a cui vengono affidati il controllo dei servizi.
Parlando di legittimità in senso generale, oltre agli aspetti per così dire domestici, c’è sicuramente una dimensione internazionale: a partire dall’inizio del xx secolo, il Medio Oriente è sempre stato al centro della politica estera delle grandi potenze, le quali sono a più riprese intervenute direttamente o indirettamente per tentare di consolidare i propri interessi politici ed economici nella regione, favorendo o ostacolando taluni regimi a seconda dell’orizzonte politico del momento. A suo giudizio l’essere legittimati da parte di una o più potenze internazionali è davvero così importante?
Alberto Negri: È assolutamente vero. Ci sono numerosi esempi da questo punto di vista: pensiamo soltanto, per quanto riguarda l’Iran, a che cosa accadde nel 1942 quando le grandi potenze, Stati Uniti e Gran Bretagna, ebbero bisogno di Tehran come retrovia nella lotta contro il Terzo Reich. La scelta fu quella di deporre lo shah Reza, mandandolo in esilio in Sudafrica, per sostituirlo con suo figlio Mohammed Reza. Sempre restando in Iran, pensiamo al colpo di stato del 1953 contro il primo ministro nazionalista Mohammad Mossadeq: nell’agosto di quell’anno lo shah fu costretto a fuggire dal paese – ritirandosi, tra l’altro, all’Hotel Excelsior di Via Veneto a Roma – per rientrare solo grazie al golpe anglo-americano organizzato tramite l’Operazione Aiace. Guardiamo quello che succede all’indomani della Seconda guerra mondiale in Siria con l’indipendenza del paese: si susseguono in quattro o cinque anni, penso, una dozzina di colpi di stato di cui alcuni chiaramente orditi dall’esterno, tra cui uno sicuramente di matrice statunitense attraverso il quale, grazie al supporto della Cia, nell’estate del 1949 il generale siriano Housni al-Zaim prende il potere con lo scopo di favorire la costruzione di un oleodotto che doveva partire dall’Arabia Saudita, attraversare la Giordania e arrivare fino alle sponde del Mediterraneo. Questo esempio è solo uno dei tanti che ci portano fino agli eventi più recenti: Quando Saddam Hussein, che era un alleato dell’occidente sostenuto per otto anni dagli Stati Uniti e dalle monarchie del Golfo nella guerra contro l’Iran, invase il Kuwait nell’agosto del 1990 fu immediatamente scaricato dall’occidente che impose durissime sanzioni all’Iraq fino all’invasione finale del 2003. C’è poi il caso della Guerra civile siriana, forse la più grande guerra per procura degli ultimi 50 anni, dove con la regia di Washington, la Turchia e le monarchie del Golfo hanno tentato di esautorare Bashar al-Assad, alleato dell’Iran e di Hezbollah, fino all’ingresso in campo della Russia nel 2015 che è intervenuta con il dichiarato intento di mantenere Assad al potere. O ancora pensiamo a quanto accaduto in Libia nel 2011 dove la situazione, se non ci fosse stato l’intervento di Francia e Stati Uniti, rafforzato dai bombardamenti Nato, si sarebbe forse evoluta specularmente a quanto accaduto nella Siria di Assad, cioè i ribelli avrebbero preso un pezzo di Cirenaica ma non sarebbero mai arrivati in Tripolitania.
Potremmo continuare a lungo con questi esempi tenendo però presente un’eccezione: le infiltrazioni e le influenze straniere, che in tutte queste vicende sono state palesi, non hanno coinvolto l’Algeria e questo in ragione della sua storia coloniale. Algeri deriva la sua legittimazione da una feroce lotta anticoloniale e quando si è presentato sulla scena politica un movimento islamico, che per altro è passato dalla vittoria elettorale al primo turno per poi trasformarsi in una resistenza armata jihadista, gli algerini sono stati gli unici a riuscire a sigillare il proprio paese dall’influenza esterna. In questo sta, almeno finora, l’eccezione algerina.
In ultimo, sono poi due i paesi che si sono, come dire, distinti nel respingere le influenze esterne negli ultimi anni: uno è l’Iran della Repubblica islamica, uscito rafforzato dalla guerra Iraq-Iran e in grado di esercitare un controllo molto forte sulla popolazione. L’altro è la Turchia di Erdoğan, nonostante le spinte interne ed esterne – basta ricordare che la Turchia è un paese della Nato che ha negato per un anno e mezzo la base di Incirlik agli americani. Su Ankara vorrei aggiungere una cosa: la legittimità di Erdoğan nasce dal partito musulmano tradizionalista Akp ma soprattutto dall’aver dato, come dire, un palcoscenico politico ad ampi settori della popolazione tradizionalista turca che non erano inclusi nella gestione del paese. Oggi Erdoğan ha in qualche modo messo da parte gli accenti sugli aspetti religiosi della propria propaganda per fare un’alleanza con l’Mhp, cioè il partito dei Lupi Grigi, che è l’espressione più estrema del nazionalismo turco, andando dunque a rafforzare la propria legittimità con il carburante del nazionalismo, il quale rimane pur sempre il collante più potente del paese.
La parabola dell’Isis sembra aver raggiunto la sua fase di declino, soprattutto per quanto riguarda la dimensione della costruzione di un vero e proprio califfato che potesse diventare un soggetto statale. È proprio questa ambizione, che forse potremmo definire utopia, che ha maggiormente distinto l’esperienza dell’Isis rispetto, per esempio, a quella di al-Qaeda. L’ambizione di costruire uno stato nei territori conquistati violentemente ha certamente posto l’Isis di fronte alla questione della legittimi- tà: se da lato lo strumento retorico principale è senza dubbio quello della jihad e della restaurazione del califfato, dall’altro è meno chiaro come questa entità avrebbe potuto veramente legittimarsi nei territori occupati se non attraverso l’uso senza fine della violenza e dell’estremismo religioso. Si può dire che lo Stato Islamico si sia dimostrato totalmente incapace di trovare una legittimità, oltre che internazionale, anche all’interno dei propri territori? A quali interrogativi sulla legittimità ci pone di fronte l’esperienza dell’Isis?
Alberto Negri: Quello dell’Isis è un caso molto interessante. Vediamo quali sono gli elementi che in qualche modo rendevano più difficile, almeno in un certo senso, una legittimità del Califfato. In primo luogo, c’è sicura- mente la forte caratterizzazione settaria assunta da Daesh. Lo Stato Islamico ha le sue origini nel gruppo di al-Qaeda della Terra dei due Fiumi guidato da Abu Musab al-Zarqawi. Zarqawi muore nel 2006 ma ha il tempo di influenzare fortemente al-Qaeda in Iraq, indirizzando le azioni in senso fortemente settario: la lotta contro gli Stati Uniti rimane, ma la lotta primaria diventa quella contro lo sciismo. Non stupisce, quindi, che il periodo che va dal 2003 al 2009 sia colmo di attentati proprio contro gli sciiti. Il Daesh eredita questa svolta storica, tanto è vero che si sviluppa nelle roccaforti sunnite dell’Iraq, in primo luogo Falluja, dove si erano create le situazioni funzionali a dare una forte connotazione settaria a questo tipo di resistenza. Senza arrivare a farne la storia, Falluja, che io conoscevo ben prima della battaglia del 2004, era il luogo dove governavano i Dulaimi, tribù sunnita alleata di Saddam. Il problema è che a un certo punto un generale dei Dulaimi aveva messo i bastoni tra le ruote a Saddam e per questo venne barbaramente decapitato dal regime che poi ebbe la premura di recapitarne la testa ai compagni di tribù dentro a una scatola di scarpe. È anche per questo episodio che quando nel 2003 comincia il caos a Falluja emerge una particolare situazione di malessere nei confronti del regime che viene poi in qualche modo sfruttata da al-Qaeda e da altri gruppi della resistenza irachena.
Ora se si osserva la parabola del Daesh, quello settario è un elemento che verrà rimarcato più di una volta e, ancora prima della nascita dello Stato Islamico, anche nella stessa Siria: a partire dal 2008-2009 emergono movimenti jihadisti che fanno proclami contro gli alauiti, tanto è vero che quando qualche giorno fa [luglio 2018] è stata annunciata la morte del giovane figlio di Abu Bakr al-Baghdadi in un’operazione dalle parti di Homs il comunicato diffuso dal Califfato indica che questa è avvenuta combattendo non contro gli occidentali ma contro gli alauiti. Questa forte caratterizzazione settaria è uno dei motivi per cui il movimento ha ottenuto un certo consenso nelle popolazioni sunnite in Iraq e poi anche, almeno in parte, in Siria; ma dall’altra parte, la natura settaria impedisce al Califfato il raggiungimento di quello che è il suo scopo principale, ovvero governare tutti i musulmani e non soltanto quelli appartenenti a una determinata declinazione dell’islam.
Il secondo aspetto che costituisce, anche questo un fattore allo stesso tempo positivo e negativo nella ricerca di legittimità del Daesh, è la multietnicità delle sue truppe. L’afflusso di jihadisti stranieri costituisce, all’inizio, una grandissima spinta all’espansione del Daesh, permettendo l’inglobamento di gruppi concorrenti, come alcuni rami di al-Qaeda, ma soprattutto permette l’inserimento nei propri ranghi di guerriglieri ceceni, tunisini, libici, caucasici e finanche europei. Ciò costituisce un aspetto molto positivo perché dà alla fase iniziale della parabola del Califfato una connotazione multietnica e multinazionale che in qualche modo è in linea con la tradizione califfale. Allo stesso tempo la multietnicità diventerà un problema quando si tratterà di organizzare il governo dei territori controllati, perché l’iracheno e il siriano vedranno come propri comandanti sul campo e amministratori del Califfato guerriglieri stranieri e dunque estranei al territorio stesso. Questo naturalmente rappresenta un aspetto grosso di vulnerabilità di Daesh. Oggi, poi, abbiamo a che fare con ampie sacche di guerriglieri di Daesh catturati nelle operazioni di liberazione dei territori che pongono il problema del loro ricollocamento a fine processuale e detentivo: i combattenti iracheni e siriani possono essere rimandati nei loro paesi, più difficile gestire il rimpatrio di quelli provenienti da altre regioni.
[1] Mustafa Kemal (1881-1938) è stato un militare e politico turco, unanimemente considerato il fondatore della Turchia moderna, tanto da guadagnarsi il soprannome di Atatürk, letteralmente il padre dei turchi.
[2] Ahmed Ben Bella (1916-2012) è stato un importante esponente del Fnl, il fronte di liberazione nazionale algerino, nonché primo presidente eletto in Algeria.
[3] Lawrence d’Arabia, pseudonimo di Thomas Edward Lawrence (1888-1935), è stato un militare britannico divenuto famoso per aver guidato la Rivolta Araba del 1916-1918 e per questo riconosciuto come uno dei simboli del nazionalismo arabo.
[4] Con il termine Tanzimat si indica un importante periodo di riforme e riorganizzazione dell’Impero Ottomano messo in atto tra il 1839 e il 1876.
[5] Sulle origini del partito Ba’th faccio riferimento agli scritti e alle ricerche del grande studioso iracheno Hanna Batatu che ha rintracciato e approfondito le radici storiche, politiche e soprattutto sociali del baathismo.