Tronti operaista
- 08 Luglio 2019

Tronti operaista

Scritto da Francesca Fidelibus

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Il contributo che qui presentiamo si inserisce in una collaborazione con Prospettive italiane, gruppo di ricerca promosso da alcuni studenti di filosofia dell’Alma Mater Studiorum-Università di Bologna, inaugurata da una recensione a Il demone della politica. Antologia di scritti (1958-2015) di Mario Tronti, curato da Matteo Cavalleri, Michele Filippini e Jamila M. H. Mascat. Questo articolo ripercorrere la densità teorica del primo periodo della riflessione trontiana (1958-1967), a cui è dedicata la prima sezione del volume Il demone della politica intitolata Il punto di vista. I contributi seguenti trattano la riflessione di Tronti del decennio tra il 1970 e il 1980, il pensiero di Tronti tra il 1985 e il 1998 e la riflessione speculativa dell’ultimo Tronti (2001-2015).


Ripercorrere i profili teorici e i soggetti in cui si incarna l’esperienza dell’operaismo degli anni Sessanta appare quanto mai anacronistico se si considera il fatto che fu un’esperienza fallimentare per il suo soggetto portante: la classe operaia. Nonostante ciò, l’operaismo continua a sopravvivere a se stesso, non tanto per l’esperienza storica che è stata ma per l’attualità di metodo che offre nell’analisi della società e delle conseguenti forme politiche. Volendo riassumere in poche battute su cosa verteva la proposta operaista rispetto al marxismo ortodosso, si potrebbero individuare due elementi: la soggettivazione e la necessità di storicizzazione della propria analisi. Era il rifiuto dell’assegnazione di un’indiscussa unità alle soggettività politiche e l’intuizione che le soggettività politiche emergono come risultato di un processo storico legato alla dimensione del conflitto che consentiva di spostare il cursore non tanto su “la classe” ma sulla composizione di classe. In tal senso, la domanda che sottende il discorso operaista è: quali sono i conflitti, qual è la loro natura, consistenza e struttura all’interno dello spettro sociale?

Per quanto la società non sia più la stessa degli anni ‘60-’70, la sua struttura resta divisa e all’interno di essa una cultura conflittuale di origine operaista resta, oggi, più che mai valida tanto dentro le lotte sociali all’interno dei singoli paesi quanto nella struttura geopolitica del mondo. Anche nella struttura-mondo, infatti, un pensare operaista può esercitarsi tentando, di volta in volta, di individuare faglie di conflitto. In tal senso, assume tutto il suo spessore la definizione che, dell’operaismo, dà Mario Tronti in un’intervista relativamente recente in cui ripercorre criticamente quella stagione di cui fu indubbio protagonista: «la definizione strategica dell’operaismo è quella di una cultura e di una pratica del conflitto» (G. Borio, F. Pozzi, G. Roggero (a cura di), Gli operaisti, DeriveApprodi, 2005, p. 307). Una cultura e una pratica che consentono, anche oggi, di assumere un punto di vista e un modo di guardare politici radicalmente diversi da quelli correnti: non la centralità dell’ordine ma del conflitto e la ricerca della definizione e della possibile organizzazione di forze antagonistiche in seno alla società.

Risulta prezioso, dunque, ripercorrere la densità teorica che assume, specificatamente, la riflessione di Tronti, il cui itinerario intellettuale è tracciato dall’Antologia curata da Matteo Cavalleri, Michele Filippini e Jamila M. H. Mascat, che dedica la prima sezione, titolata esplicativamente Il punto di vista, al periodo operaista (1958-1967).

Il punto di vista

Il primo saggio della sezione, Tra materialismo dialettico e filosofia della prassi. Gramsci e Labriola (pp. 67-94) è dedicato alla critica della ricezione di Marx nella tradizione italiana e alla sua lettura idealistica. A fare da sfondo al saggio si pone, sul piano teorico, la domanda relativa allo statuto del marxismo: se sia, cioè, un’ideologia o una scienza. In tal senso, Tronti riconosce a Gramsci il merito di aver rivendicato l’autonomia filosofica di Marx, ma fa anche emergere l’urgenza di individuarne una scienza al fine di sostituire all’equazione gramsciana filosofia=storia quella, dalla eco dellavolpiana, scienza=storia.

Al di là della patina superficiale, il saggio rappresenta l’allontanamento di Tronti dal marxismo del Pci. Un allontanamento aggravato, sul piano internazionale, dai fatti che, in quegli anni, misero in crisi l’intellettualismo europeo di sinistra di fronte all’invasione sovietica dell’Ungheria (1956) e alla brutalità del “socialismo realizzato”. D’altra parte, sul piano nazionale, l’Italia si avviava tardivamente al taylorismo-fordismo e il Pci appariva a Tronti chiuso in politiche riformiste strategicamente e tatticamente lontane dalle rivendicazioni operaie. In tale contesto, egli si rivolge ad un altro tipo di marxismo, lontano dalla lettura ortodossa portata avanti dal Pci: il marxismo antistoricistico, materialistico, scientista, che teorizzava la rottura, più che la continuità, tra Marx e Hegel di Galvano Della Volpe. Al marxismo critico dellavolpiano integra, tuttavia, un pensiero sulla e della soggettività.

In tal senso, Tronti scopre nel Capitale di Marx un’opera scientifica e un momento di lotta politica: si attua, cioè, il ribaltamento radicale dall’assunto idealistico per cui la teoria si mette in pratica all’assunto per cui la teoria è l’unica possibile determinazione reale del concreto. Punto dirimente è quello dell’unità organica tra teoria e prassi politica da raccordare nel più ampio processo di organizzazione della classe. Ciò è tanto più evidente nei saggi successivi della sezione, tesi all’individuazione di una soggettività forte, in grado insieme di interpretare e trasformare la logica capitalistica. In questo orizzonte si collocano sia il saggio La fabbrica e la società (pp. 95-122) sia La rivoluzione copernicana (pp. 123-136) influenzati dall’incontro con Panzieri e dall’esperienza di «Quaderni Rossi». Ne La fabbrica e la società Tronti individua la complessità del rapporto tra le trasformazioni interne alla sfera della produzione e quelle interne alla società tout court. L’intento è quello di far emergere la mistificazione del rapporto tra produzione capitalistica e società borghese poiché «quanto più il rapporto determinato della produzione capitalistica si impadronisce del rapporto sociale in generale, tanto più sembra sparire dentro quest’ultimo come suo particolare marginale» (p. 109). Quando la fabbrica estende la sua logica all’intera società impadronendosene, i tratti specifici della fabbrica si perdono dentro i tratti generici della società. Svelata la mistificazione, Tronti pone l’accento su quella parte interna al processo di produzione-riproduzione capitalistica e sulla sua essenzialità da riconoscere e rivendicare: la classe operaia.

In questa prospettiva, opera l’inversione tra capitale e operai andando oltre quel massimalismo che vedeva la classe operaia tutta fuori dal capitale, risultando incapace di fornire una conoscenza scientifica e una mirata lotta pratica. Al contrario, per il pensatore romano «bisogna arrivare a dire oggi che dal punto di vista dell’operaio si deve guardare non direttamente la condizione operaia, ma direttamente la situazione del capitale» (p. 117). Sullo sfondo del rapporto interpretazione-trasformazione, la classe operaia deve riconoscersi come parte del capitale per contrapporre tutto il capitale a sé stessa. Lungi dal presentarsi all’esterno, la classe è la negazione interna, la contraddizione insolubile del capitalismo (cfr. p. 121). In quanto sua negazione insolubile, se organizzata politicamente, è in grado di spezzare, dentro la fabbrica, la macchina dello Stato borghese. Emerge, dunque, la connessione biunivoca tra l’azione trasformativa e la fatica del concetto, tra l’urgenza dell’una e l’obbligo dell’altra che compare con forza anche ne La rivoluzione copernicana.

Filo rosso di questi scritti è la convinzione trontiana che sia la potenza delle lotte salariali a spingere il capitale a innovarsi dal punto di vista organizzativo e tecnologico e a socializzare le forze produttive. Ma quanto più il capitale si valorizza tanto più è costretto a incorporare la classe operaia in seno al processo di accumulazione, strutturandola come potenziale forza d’opposizione. In tal senso, la macchina dello Stato borghese va spezzata dalla classe operaia dentro la fabbrica poiché questa si è estesa su quella. Per fare ciò, la “rivoluzione copernicana” deve avvenire sia su un piano teorico che pratico: occorre esaminare le lotte sociali come il motore dello sviluppo capitalista per fare di questo una variabile dipendente da quelle. Da un lato, infatti, la classe operaia spiega il capitale poiché quella può esser pensata senza questo ma non viceversa; dall’altro, mentre la società borghese, espressione diretta del capitale, cresce solo sul piano economico, la crescita della classe operaia dentro il sistema economico del capitale, «si pone immediatamente come crescita politica» (p. 126). Il fulcro, dunque, attorno a cui ruota il discorso trontiano è l’anteriorità della classe operaia rispetto a quella dei capitalisti poiché essa rappresenta «il punto più alto dello sviluppo» (p. 124) capitalistico e, in quanto tale, il punto di vista operaio è l’unico che può cogliere il processo generale del capitalismo stesso. Peraltro, in quanto l’accumulazione caratteristica della classe operaia non è di tipo economica ma politica – di richieste e forme di lotta politiche –, essa deve trovare una sua organizzazione diversa da quelle esistenti – sindacato, partito, organizzazione spontanee – criticate da Tronti.

Proprio sotto l’urgenza di una riformulazione del rapporto classe-partito e di un’organizzazione politica nuova, si pone il quarto saggio della raccolta del 1964, Lenin in Inghilterra (pp. 137-144), che mira a riportare il partito dentro la fabbrica per abbordare l’apparato statale dal centro nevralgico del comando neocapitalistico facendo saltare la dicotomia tra lotte economiche e lotte politiche. Precisamente l’ambizione ad un’organizzazione autonoma delle lotte all’interno delle fabbriche determina l’uscita di Tronti da «Quaderni Rossi» e la fondazione della nuova rivista, «Classe operaia», intesa come meccanismo di controllo sulla validità strategica delle singole lotte. Da questo punto di vista, gli obiettivi polemici di Tronti e dei compagni confluiti nel nuovo giornale sono le manovre riformiste criticate nel saggio 1905 in Italia (pp. 145-152) in cui Tronti, sullo sfondo della crisi inflazionistica che stava investendo l’Italia e dell’ascesa della combattività operaia, auspica ad un’aggressione alla congiuntura poiché «al punto più difficile della evoluzione congiunturale deve corrispondere il momento più acuto delle lotte operaie» (p. 151). Un’aggressione alla congiuntura, volta a impedirne la stabilizzazione economica, provocando «una crisi politica reale, che non è crisi di governo, ma crisi di potere e quindi sostanziale mutamento nei rapporti di forza fra le due classi in lotta» (p. 152). Per raggiungere tale obiettivo, occorre che la classe operaia si organizzi in partito e ricerchi una nuova pratica marxista che radicalizzi, intensifichi e acceleri le pratiche di rivolta operaia esasperando «la dinamica salariale» (p. 151), colpendo la «produttività del lavoro», agendo nei punti strategici della fabbrica (p. 152). In tal senso, l’insubordinazione spontanea degli operai costituisce la strategia, mentre il partito deve riconquistare il momento della tattica raccogliendo, esprimendo e organizzando l’insofferenza operaia fino a stabilire un’autentica crisi nella macchina dello Stato.

Emerge, qui, un primo spostamento della riflessione trontiana sul rapporto tattica-strategia che si ripresenta con più forza in Marx, forza-lavoro, classe operaia (pp. 153-198). È il saggio più analitico di Tronti che commenta il Marx dei Grundrisse costruendo un solido impianto teorico per giustificare quanto teorizzato fino a quel momento: il rovesciamento del rapporto tra lavoro e capitale. Il saggio, scritto nel 1965 – dopo la morte di Togliatti, la ristrutturazione interna del Pci e la ripresa dell’agitazione –, esprime un momento di transizione nella riflessione trontiana: dal legame fabbrica/società Tronti si rivolge al rapporto fabbrica/politica; dall’analisi del capitalismo si sposta verso una teoria della rivoluzione. Qui, il pensatore romano ripercorre tutti gli elementi articolati fino a quel momento argomentandoli in modo più efficace attraverso un consistente ritorno alle fonti e ai testi marxiani. In particolare, passando per un’archeologia delle lotte del XIX secolo, mostra come la concezione marxiana della forza-lavoro contenga già in sé le forme della classe operaia (cfr. p. 161).

La teoria del valore-lavoro diviene, così, una teoria politica più che una legge economica. Da un punto di vista analitico, l’attenzione è posta sulla differenza tra lavoro vivo e lavoro morto, «lavoro soggettivo contrapposto al lavoro oggettivato, […] lavoro contrapposto al capitale: il lavoro come non-capitale» (p. 177). Proprio in quanto il lavoro si presenta come un “non-qualcosa”, esso risulta «un Nicht piantato nel cuore di una rete di rapporti sociali positivi, che tiene in sé insieme la possibilità del loro sviluppo come quella della loro distruzione» (p. 177). È un pensiero dell’Uno scisso e travagliato dalla negazione piantata al suo interno: il lavoro rappresenta la contraddizione del capitale presentandosi, assieme, come miseria oggettiva e possibilità di ricchezza soggettiva (cfr. p. 178). In tal senso, il processo produttivo si presenta, contemporaneamente, come «l’atto della produzione di capitale» e il «momento della lotta operaia contro il capitale» (p. 183).

Tronti e il problema del politico

A quest’altezza cronologica, la polarizzazione tra strategia propria della classe e tattica propria del partito è compiutamente delineata: non più ricerca di un’unità organica ma, sotto il nome di Lenin, necessità di una tattica che rovesci la strategia per applicarla, come emerge nel saggio La linea di condotta (pp. 199-220) del 1966. Qui, Tronti teorizza il “brusco salto” e l’auto-negazione della classe operaia in quanto parte del capitale: «nella ripresa dello sviluppo del pensiero operaio bisogna rivalutare di nuovo, daccapo, il lato attivo, il lavoro creativo» (p. 203). In tal senso, la conoscenza è legata alla lotta: la parzialità coglie, conosce teoricamente la totalità nella misura in cui lotta per distruggerla nella pratica delle cose (p. 204). Ma per fare ciò è necessaria un’organizzazione politica che ponga in atto un’azione intesa come «invenzione soggettiva», «aderenza alle cose reali […]» (p. 214). Nessun equilibrio statico, dunque, tra lavoro politico e scoperte teoriche, ma un rapporto di movimento in cui l’uno serve all’altro a seconda del momento e della congiuntura. È la teorizzazione della rottura in un punto in cui far convergere tutte le forze della soggettività operaia per spezzare in blocco la rete sempre più fitta del capitalismo.

Una teorizzazione, tuttavia, destinata a subire uno scacco nel 1967, anno che segna la fine dell’esperienza di «Classe operaia» icasticamente rappresentata dalla chiusa dell’ultimo saggio della sezione, Classe partito classe (pp. 221-226): «Adesso noi ce ne andiamo» (p. 226). È il termine di un discorso politico-strategico per la classe operaia e per il movimento operaio di cui, fino a quel momento, Tronti auspicava la pretesa di imporsi. Il filo rosso del saggio è emblematico: la svolta o sarà di massa o non sarà. Ma l’incapacità della soggettività operaia di svilupparsi dovuta alla mancanza di un’organizzazione politica e ad un capitalista collettivo che, attraverso l’aggiustamento salariale, prendeva sempre più le forme della pianificazione democratica, porta Tronti ad un riavvicinamento al Pci e ad una riflessione sul politico per un ripensamento tattico della rottura rivoluzionaria mancata. L’orizzonte discorsivo si sposta, dunque, dalla fabbrica all’istituzione, dal problema della presa di potere al problema del governo che apre alla seconda sezione dell’Antologia e chiude il periodo dell’operaismo con l’illusione ottica di un Tronti che, nell’esuberanza intellettuale e nell’entusiasmo giovanile, di fronte al rosso del tramonto ha pensato di vedere, come tanti altri, il rosso dell’aurora (cfr. Gli operaisti, cit., p. 295). Quella fase di lotte degli anni Sessanta sembrava aprire una stagione, un nuovo punto di partenza ma si dimostrò il finale scintillante di una storia operaia legata alla figura, allora centrale, dell’operaio-massa. A distanza di anni, guardando al fallimento della stagione operaista Tronti, leninista da sempre, sottolinea ricchezze e limiti, continuità e distacchi da quel momento teorico: «ho sempre pensato e continuo a pensare che senza una direzione politica nessun movimento sociale vince […] E il motivo per cui poi alla fine questa soggettività operaia non ha vinto, non ha sfondato è perché non ha trovato la direzione politica […] Di qui poi tutta la mia attenzione negli anni seguenti a questo maledetto problema del politico» (Gli operaisti, cit., p. 296). Un problema, quello del politico, che porta Tronti a distaccarsi, in parte, dall’esperienza dell’operaismo senza, tuttavia, abbandonarne lo strumentario teorico che, lui, più di tutti, aveva contribuito a costruire.

Scritto da
Francesca Fidelibus

Dottoranda all’Università di Trento. Laureata in Scienze Filosofiche all’università di Bologna. Cultrice della materia in Filosofia morale all’Università di Bologna e membro fondatore del gruppo di ricerca Prospettive italiane. Ricerche di storia della filosofia.

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