“La Turchia di Erdoğan e le sfide del Medio Oriente: Iran, Iraq, Israele e Siria” di Alberto Gasparetto
- 05 Giugno 2018

“La Turchia di Erdoğan e le sfide del Medio Oriente: Iran, Iraq, Israele e Siria” di Alberto Gasparetto

Recensione a: Alberto Gasparetto, La Turchia di Erdoğan e le sfide del Medio Oriente: Iran, Iraq, Israele e Siria, Carocci, Roma 2017, pp. 220, 23 euro (scheda libro)

Scritto da Matteo Del Conte

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Volgendo lo sguardo al Medio Oriente oggi è impossibile ignorare un Paese come la Turchia. Le dinamiche delle regione la vedono sempre più protagonista di una rinnovata assertività, la quale spesso confligge con le aspirazioni dei suoi vicini.

Un giovane ricercatore come Alberto Gasparetto[1], in La Turchia di Erdoğan, ci pone di fronte alla politica mediorientale dell’AK Parti a partire dalla sua ascesa al potere nel lontano 2002 con un focus su Iran, Iraq, Israele e Siria. L’autore si pone l’obiettivo di analizzare la politica estera turca tenendo primariamente conto dei tratti della personalità e dell’impatto delle percezioni dei decisori turchi e lo fa utilizzando l’approccio della foreign policy analysis di Michael Brecher[2]. Questo metodo, in contrasto con il filone neorealista che vede il determinarsi della politica internazionale come il risultato di cause strutturali[3], considera che la politica estera sia il risultato della compenetrazione tra fattori ideazionali legati alle percezioni dei decisori e le cause strutturali pertinenti al sistema internazionale. La domanda di ricerca attorno a cui ruota tutto l’elaborato è la seguente:

Qual è l’impatto delle percezioni sul foreign policy analysis della Turchia negli anni di governo dell’AK Parti? Fino a che punto tali percezioni influenzano l’atteggiamento dei decisori turchi nella loro politica mediorientale? Che peso esercitano le immagini e le visioni di politica estera dei decisori turchi e in che misura queste condizionano il loro approccio all’ambiente esterno in occasione di alcuni eventi significativi per i loro rapporti col Medio Oriente?[4].

 

La Turchia e la “sindorme di Sèvres”

Tra le direttrici storiche della politica estera turca, nonostante le discontinuità, persistono degli elementi ricorrenti, esplicitati dalla cosiddetta “sindorme di Sèvres”, vero e proprio «codice genetico della Turchia moderna»[5]. La paura dello smembramento, la diffidenza nei confronti degli attori esterni e la salvaguardia ossessiva della sicurezza nazionale rappresentano i fattori cognitivi dominanti dei decisori turchi. Invece dal punto di vista materiale, la permanenza nel Patto Atlantico rimane una costante, anche se suggellata da diversi contraccolpi, soprattutto da un rinnovato interesse turco nei confronti del contesto euroasiatico[6].

Dalla fine della Guerra Fredda la Turchia ha reimpostato la sua azione internazionale, tornando a intessere relazioni con quei paesi che con lei condividono legami culturali, religiosi e storici, dai Balcani fino al Caucaso e l’Asia Centrale. Durante lo scontro bipolare, la Turchia fu inclusa nella sfera di sicurezza del blocco occidentale e relegata a mero baluardo strategico degli Stati Uniti contro le sortite e il desiderio di influenza di Mosca, nel Mediterraneo e nell’Europa Centrale[7].

Con la fine della Guerra Fredda e delle rigide configurazioni di alleanze, la Turchia, nel pieno di una crisi di identità, ha avviato un’attiva politica estera nei confronti dei sui vicini mediorientali: dapprima suggellata dal periodo post-golpe del 12 settembre 1980[8] e poi con l’apertura dell’economia ai mercati internazionali avviata dall’allora primo ministro Turgut Ozal[9]. I principi cardine dell’azione internazionale turca odierna risiedono nella dottrina della “profondità strategica”, teorizzata dal politologo e consigliere di politica estera di Erdoğan, Ahmet Davutoğlu nel 2001. La dottrina è fondata su questi assunti di base: zero problems foreign policy, ovvero l’instaurazione di relazioni costruttive con i vicini regionali; una diplomazia di pace pro-attiva e preventiva che miri a scongiurare l’esplosione di crisi regionali; l’instaurazione di relazioni complementari e non competitive con ogni attore globale e su più fronti; un rinnovato protagonismo in tutte le questioni di rilevanza internazionale, dentro e fuori dalle organizzazioni internazionali.

In sostanza, la ristrutturazione dell’azione internazionale turca mirava a recuperare lo spazio di manovra che le era stato negato durante la Guerra Fredda per rendersi non più mera spettatrice degli affari internazionali, ma protagonista e membro attivo. Ciò, in linea con la progressiva “regionalizzazione” della politica internazionale e attraverso la cooperazione economica in nome della ricerca di nuovi mercati e dell’interdipendenza economica. Quest’ultima infatti avrebbe protetto la Turchia dalla ciclica instabilità regionale. Dunque, l’economia avrebbe rappresentato il mezzo imprescindibile per una politica estera indipendente ed effettivamente i grandi tassi di crescita del PIL turco – 7-8% per il primo decennio di governo – hanno rafforzato il consenso nei confronti dell’AK Parti. Come afferma l’autore, nel mindset dei decisori turchi l’immagine suscitata dalla posizione geostrategica del Paese avrebbe giocato un ruolo fondamentale. In nome di ciò, l’idea della “profondità strategica” avrebbe dovuto permettere al paese di saldare i legami con le ex repubbliche sovietiche dell’Asia centrale, di emergere come hub energetico fra Medio Oriente ed Europa e infine stabilire nuove rotte di approvvigionamento energetico, cercando di diminuire la dipendenza da Russia e Iran. L’immagine della Turchia come “perno” materiale ed ideale tra due masse continentali – quella europea e quella asiatica – e la coscienza imperiale, sedimentata in secoli di storia comune con il suo vicinato, ha spinto la Turchia a gestire le sue relazioni esterne sorrette da una nuova weltanschauung. In buona sostanza, ciò ha significato riflettere sulla propria transizione post-imperiale, chiedendosi che posto fosse riservato alla Turchia nel mondo post-Sévres e nell’era del crollo del bipolarismo.

Tuttavia, essendo la “profondità strategica” un approccio olistico alle relazioni internazionali, e una dottrina fondata su dei principi normativi, non sempre ha superato la prova della realtà. L’autore del libro ci presenta diversi casi in cui la prova dei fatti ha spesso smentito la dottrina Davutoğlu.

 

Erdoğan e la Turchia nello scenario regionale

Per Ankara il tentativo di ergersi a mediatrice dei conflitti regionali e protagonista della stabilità del Levante entra in crisi innanzitutto con l’intervento americano in Iraq del 2003. La superpotenza, all’interno della strategia della war on terror del dopo 11 settembre convince Erdoğan a portare in parlamento la questione del dispiegamento di truppe e mezzi nel sud-est del paese. La Grande Assemblea rifiutò il permesso di sei mesi chiesto dagli Stati Uniti, e decise di stanziare le truppe nazionali al confine con l’Iraq – circa 15.000 uomini – a scopo difensivo. In questo frangente, per i decisori turchi la memoria storica gioca un ruolo fondamentale. La guerra del Golfo del 1991 portò uno spostamento massivo di rifugiati curdi, spinti dalla repressione della Guardia Repubblicana di Saddam, accompagnata da una perdita economica considerevole[10] per la Turchia.

Considerando Israele, i rapporti rimangono floridi per tutta la durata degli anni Novanta, corredati una cooperazione economica e militare[11] ben strutturata. La Turchia fu tra i primi paesi dell’area a riconoscere lo stato di Israele e bisogna rammentare che entrambi i paesi facevano parte del blocco occidentale. Gli anni che vanno dal 2006 al 2010, segnano lo sfilacciamento definitivo delle relazioni bilaterali. In primis, in occasione della guerra tra Israele e Hezbollah in Libano nel 2006, in cui la Turchia sostiene le milizie sciite. In secondo luogo per le proteste turche a seguito dell’operazione israeliana “Piombo fuso” del 2008 e infine per l’incidente della Mavi Marmara, una delle navi della Freedom Flotilla diretta a Gaza con aiuti umanitari e che il 31 maggio 2010 fu sequestrata dalla marina israeliana per aver forzato il blocco di Gaza in acque internazionali. Nel raid delle Forze di Difesa israeliane furono uccisi nove cittadini turchi, di cui uno di nazionalità statunitense. Da quella data del 2010, i rapporti con Israele si sono deteriorati definitivamente. L’AK Parti, nel tentativo di utilizzare la religione come cross-border issue e aumentare la propria influenza presso le opinioni pubbliche del mondo arabo, si erge periodicamente a paladina della causa palestinese, in maniera piuttosto strumentale. Ciò, ha spinto gli analisti a interrogarsi sulle radici religiose del partito e a formulare ipotesi sull’eventuale svolta islamista della politica estera turca, in contrasto con la natura kemalista delle istituzioni, ispirate alla laicità e all’occidentalizzazione. Erdoğan, un leader dotato di grande intelligenza politica sa di poter aumentare il consenso presso l’opinione pubblica turca, la quale mal sopporta la sofferenza dei palestinesi di Gaza.

Rispetto all’Iran, l’autore ci dice che i rapporti hanno una natura duale. Dal punto di vista energetico, Teheran è un partner affidabile per ciò che concerne gli approvvigionamenti di gas naturale e petrolio (secondo partner dopo la Russia, con un 25% sul totale). Sul piano geopolitico, i due paesi, per questioni legate alla distribuzione di potenza nella regione battono su un terreno competitivo. In termini di soft power l’Iran sta cercando da decenni di mantenere i porti sicuri dello sciismo, proiettando la sua influenza laddove c’è una forte componente sciita nelle società di stati come l’Iraq, il Libano e la Siria.

Ed è proprio Damasco che attualmente rappresenta una matrioska per Ankara. Dopo decenni di schieramenti opposti, la Turchia nel sistema occidentale e la Siria fedele baluardo mediorientale di Mosca, i rapporti si stabilizzano solo nel 1998, con l’Accordo di Adana[12]. Tale accordo mise fine al supporto siriano verso il PKK e in particolare al suo leader Abdullah Öcalan. Ciò mise in rilievo la politica estera opportunista di Damasco ma di fatto, dopo l’accordo, si aprì un periodo di cooperazione doganale ed economica che perdura fino agli albori della rivolta siriana del 2011. In occasione della primavera siriana, la Turchia aveva invitato Bashar al-Assad alla moderazione e ad alleggerire la repressione soprattutto nei confronti dei civili e dei manifestanti. Dopo iniziali incontri diplomatici di alto livello tra i due vicini, la Turchia comprende di non avere alcun grip diplomatico sulla questione e decide di appoggiare l’opposizione al regime di Damasco, in particolare l’Esercito Libero Siriano e successivamente gruppi jihadisti e con componenti etniche turkmene. Risulta chiaro come il soft power turco vada a interessare anche gruppi paramilitari senza alcuna statualità, ma possibili ricettori di influenza nella regione.

Ciò considerato, Gasparetto ci illumina sul fallimento del principio “zero problemi con i vicini” voluto dall’establishment turco, dicendo che:

«Nel breve volgere di un biennio, da interlocutore privilegiato di Israele e Siria e mediatore delle loro dispute, il governo turco è riuscito a inimicarseli entrambi in modo quasi irrimediabile. […] le ragioni di questo fallimento riguardano anche l’oggettivo mutamento del quadro regionale dato da fattori materiali indipendenti dalla volontà dei singoli decisori».[13]

Invece, dal punto di vista delle percezioni, che è l’oggetto d’analisi dell’autore, si nota come le lezioni della storia e la memoria storica abbiano un peso preponderante. Infatti, la cultura strategica turca, che vede una concezione territoriale della sicurezza, porta i decisori a tenere sotto controllo il confine sud-orientale, e ad evitare le conseguenze catastrofiche che si verificarono con l’intervento NATO in Iraq del 1991[14]. Se dal punto di vista della politica interna, a partire dal 2009 Erdoğan apre una stagione di riforme pro-curde[15], dal punto di vista esterno, la «Sindrome di Sévres» lo porta a militarizzare il confine con la Siria e a supportare proxies sul campo, per evitare che il conflitto si propaghi in territorio turco e che ingenti flussi migratori investano il paese. Ciò detto, il vero obiettivo di Erdoğan in Siria è quello di spingere le milizie curde dell’YPG (alleate del PKK), braccio armato del PYD, ad est dell’Eufrate. Ciò con un duplice scopo: incendiare il sentimento nazionalista nelle masse turche, incrementando il consenso nei propri confronti e dunque mettendo alle strette i propri avversari interni.

La “sindrome di Sévres”, anche detta la “sindrome dell’insicurezza” è «un tratto caratteristico della cultura politica dominante in Turchia sin dalla fondazione della Repubblica» (p.167) e come abbiamo detto rappresenta il fattore ideazionale più influente, le lenti attraverso cui il “gigante anatolico” scruta le minacce provenienti dal mondo esterno ed interno, con il timore della disgregazione dell’integrità territoriale, dei confini nazionali e della sovranità.

 

Conclusione

Una delle tesi fondamentali del testo afferma l’importanza del fattore economico nel “prisma attitudinale” dei decisori turchi. In tutti i casi esaminati nel volume si vede che tutti gli altri fattori sono strumentali al raggiungimento di un alto livello di integrazione economica internazionale, obiettivo fondamentale della politica estera dell’AK Parti, e fattore operazionale domestico. La stessa dottrina della “profondità strategica” attraverso il costrutto della zero problems foreign policy sarebbe stato l’edificio teorico sul quale avrebbe poggiato un aumento dell’integrazione economica internazionale e della competitività delle imprese dal punto di vista delle esportazioni, vero volano del consenso politico per Erdoğan.

Per questo l’autore riprendendo il pensiero di eminenti studiosi turchi[16], invece di avanzare la tesi dell’islamizzazione della politica di Erdoğan parla di “gollismo turco”, che intende superare lo storico cleavage interno tra kemalisti e islamisti, ma vede un risorgere di un nazionalismo comune agli schieramenti politici principali (“neo-nazionalismo” del CHP e “neo-ottomanesimo” dell’AK), il quale fa leva sull’orgoglio nazionale della popolazione (in chiave anti-israeliana ad esempio) per il perseguimento dell’”autonomia strategica”. Quest’ultima, è necessariamente influenzata dalla relazione bilaterale dominante con gli Stati Uniti e della collocazione NATO del paese, che ricade nell’alveo dei fattori operazionali esterni. La politica estera turca non può definirsi islamista, ma è proiettata in un’ottica di emancipazione dalle relazioni dei tradizionali alleati occidentali e del perseguimento di un piazzamento strategico all’interno della regione. Infatti, nella parte finale del libro (p.162), Gasparetto ci dice che il perseguimento di profondi legami economici può essere facilitato dai legami di affinità culturale e religiosa che legano la Turchia e i paesi che vanno dai Balcani al Caucaso. L’insistenza su un comune passato e sul legame religioso fanno parte del patrimonio simbolico della politica estera turca. Ciò è risultato evidente nell’appoggio turco a Hizbollah nel conflitto con Israele del 2006, e nell’ergersi a paladina della causa palestinese. Nello scenario regionale ciò servirebbe il duplice scopo di aumentare il proprio prestigio contrastando Israele e sottrarre dall’orbita iraniana attori storicamente rilevanti per la sua proiezione nella regione.

Tuttavia, nonostante i fattori identitari, due sono gli elementi che hanno facilitato l’assertività turca: la fine della competizione bipolare e la crescita economica che perdura dall’era Ozal a oggi. La base dell’elettorato dell’AK Parti, la borghesia conservatrice, è anche la classe media turca che spinge per l’apertura di nuove opportunità di mercato nei paesi mediorientali. Essa è conservatrice nei costumi ma liberale in economia. La dottrina Davutoğlu, cerca di andare in questa direzione. Proprio per queste ragioni, lo sforzo accentratore di Erdogan nella conduzione della politica estera, è volto al realismo più puro e al perseguimento dell’interesse nazionale. Nonostante la relazione dominante con gli Stati Uniti – e la partnership NATO – e le iniziali negoziazioni con l’UE per l’ingresso, l’AK Parti ha compreso che politicamente ripaga molto di più soffiare sul fuoco del nazionalismo e tentare il dialogo con paesi che geopoliticamente rappresentano una sfida ma che economicamente rappresentano un’opportunità come Russia Iran e Cina. Ciò è evidente anche con i rapporti tra Ankara e i curdi iracheni del KRG, che attualmente forniscono il 23% dell’approvvigionamento di petrolio, puntando al soddisfacimento del fabbisogno energetico nazionale nonostante la presenza della questione curda.

In conclusione, Gasparetto sembra suggerirci che i fattori materiali e ideazionali interagiscano in un ballo dialettico a seconda delle considerazioni strategiche dei decisori turchi, unitamente a una buona dose di opportunismo. Nel rispondere alla domanda originaria dell’elaborato, sembra che la simbologia politica dell’azione internazionale turca possa considerarsi un sostegno strumentale all’interesse nazionale turco, volto alla proiezione geoeconomica del Paese e della sua influenza politica in Medio Oriente.


[1] Alberto Gasparetto ha conseguito il dottorato di ricerca in sociologia e scienza politica all’università di Torino. Attualmente è cultore di Scienze Politiche all’Università di Padova. I suoi ambiti di ricerca riguardano la politica estera di Turchia e Iran e il loro impatto nello scenario mediorientale.

[2] Ciò che vuole il fpm di Brecher è mettere insieme un approccio eclettico in cui l’aspetto psicologico (percezioni, le idee e i valori dei decisori) interagisce con i fattori materiali (quantificabili), dell’ambiente operazionale in cui gli Stati giocano il loro ruolo.

[3] Padre del filone neorealista è Kenneth Waltz (1924-2013) il quale sostiene che la politica internazionale viene determinata attraverso l’impatto di fattori strutturali come la distribuzione della potenza a livello internazionale e dunque la polarità del sistema che può essere unipolare, bipolare, multipolare.

[4] A. Gasparetto, La Turchia di Erdogan e le sfide del Medio Oriente: Iran, Iraq, Israele e Siria, Carocci, Roma, 2017. P. 33.

[5] Ibidem, p. 33 Prende il nome dal Trattato di Sèvres, dell’agosto 1920 che determinò l’amputazione territoriale dell’Impero Ottomano, riducendola alla sola penisola anatolica e alimentando il sospetto nei confronti di Francia e Regno Unito. Da quel momento in avanti la “sindrome di Sèvres” sarà una delle chiavi di lettura utilizzate dai decisori politici repubblicani nelle relazioni col mondo esterno, rappresentando un pilastro della psicologia nazionale turca.

[6] Si veda a tal proposito il report collettaneo dell’ISPI Turkey: towards a eurasian shift?, edito da Valeria Talbot.

[7] La Russia, nella sempiterna ricerca di uno sbocco sui mari caldi considerava gli stretti del Bosforo e dei Dardanelli. Le priorità strategiche dei due vicini avevano portato i due paesi a combattere nel corso della storia ben 13 guerre, dalla formazione dell’Impero Ottomano fino al presente. Oltre al Mediterraneo, la contesa dei territori dell’Europa Centrale fu una delle cause dei conflitti intercorsi tra le due potenze

[8] Il colpo di stato impose al paese una svolta conservatrice, volta a inibire le pulsioni di sinistra, comuniste e socialiste. Gli anni ottanta furono noti per la frequenza degli omicidi politici, effettuati nell’ambito di una “strategia della tensione” tra organizzazioni di destra e di sinistra.

[9] Leader del partito della Madrepatria (ANAP), primo ministro in carica dal 13 dicembre 1983 al 31 ottobre 1989.

[10] L’operazione Provide Comfort del 1991 porta delle conseguenze nefaste per la Turchia, con una perdita di denaro pubblico nell’ordine di 60 miliardi di dollari a causa del regime di sanzioni applicato all’Iraq di Saddam.

[11] Gli anni Novanta rappresentano il periodo più florido delle relazioni tra Turchia e Israele. Nel 1996, incoraggiati dalla strategia del dual containment americano (bilanciamento iracheno e iraniano), i due paesi stringono un’alleanza che prevedeva accordi su esercitazioni militari congiunte” Anatolian Eagle” un patto di cooperazione sull’industria di difesa e un’intesa sull’aggiornamento dei cacciabombardieri Phantom F4 ed F5 turchi.

[12] L’Accordo prevede la fine del sostegno siriano al PKK (firmato dall’Iran nel 2003) in cambio della fine della disputa su Hatay e sullo status delle acque del Tigri e dell’Eufrate.

[13] P. 156

[14] Non solo il problema dei flussi massivi di rifugiati, ma anche l’interruzione dei rapporti commerciali e degli approvvigionamenti energetici dall’Iraq per via delle sanzioni economiche fortemente volute dagli Stati Uniti.

[15] Riforme che riguardano soprattutto i diritti culturali della comunità curda, come l’istituzione di un canale televisivo interamente in lingua turca o l’insegnamento come seconda lingua nella scuola dell’obbligo. Tuttavia, si può affermare che queste riforme rappresentarono una posta elettorale per Erdoğan, in vista delle successive elezioni. Il cessate il fuoco con i curdi termina nel 2015 a seguito di una serie di attentati di matrice curda che Erdoğan sfrutta abilmente nelle elezioni del 1° novembre 2015 per guadagnare il consenso dei nazionalisti.

[16] In particolare Omar Taspinar.

Scritto da
Matteo Del Conte

Nato ad Ancona nel 1992. Laureato in Scienze Internazionali e Diplomatiche presso l’Università di Bologna. Si occupa di Politica e Sicurezza Internazionale, con un taglio multidisciplinare che spazia dalla filosofia alla sociologia agli Studi Strategici, con particolare riferimento ai problemi dell’uso della forza, della sicurezza e dei diritti umani.

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