Scritto da Federico Lanza
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Non sono bastati 107 comizi elettorali in 50 giorni per trascinare le elezioni presidenziali in Turchia al secondo turno: la corsa di Muharrem İnce, il principale sfidante di Recep Tayyip Erdoğan e candidato del CHP, si ferma al 30,6% (15.336.594 voti). Il presidente turco, che cercava la riconferma e con essa la tanto agognata attuazione del sistema presidenziale esecutivo approvato tramite referendum il 16 aprile 2017, esce da questa tornata elettorale con il 52,6% delle preferenze e 10.987.888 voti in più dello sfidante repubblicano.
Un risultato del genere era prevedibile? Sì. L’opposizione poteva fare di meglio? No. İnce, ieri pomeriggio, ha ufficialmente ammesso e accettato la sconfitta, cancellando ogni illazione circa un ricorso al Consiglio Elettorale Supremo per il riconteggio delle schede e l’annullamento dei risultati del voto in alcune province del paese.
Se la gestione della campagna elettorale è stata esemplare e fin oltre le aspettative, il Partito Repubblicano del Popolo – erede delle tradizione kemalista di cui riporta ancora nel logo del partito le 6 frecce programmatiche – ha mancato di coesione e cooperazione durante il conteggio delle schede; tanto che per qualche ora – quando incessanti erano le voci di presunti brogli e manipolazioni mediatiche del risultato – sulla piattaforma turca di Twitter uno degli hashtag in tendenza è stato #incenerede ossia “dov’è İnce”.
Per il Partito Repubblicano del Popolo si dovrà necessariamente aprire un periodo di riflessione e ripensamento, soprattuto in vista delle elezioni municipali del 2019: Kemal Kılıçdaroğlu, il leader del CHP, appartiene alla “vecchia scuola” del partito, che è riuscito solo parzialmente a svecchiarsi in questi anni, atrofizzato da anni di cocenti sconfitte elettorali, lotte intestine e imbarazzante impotenza di fronte al fenomeno AKP-Erdoğan. Del resto, tra Kılıçdaroğlu e Muharrem İnce non corre buon sangue: i primi attriti tra i due esponenti del CHP emersero già ad aprile 2016, quando il CHP approvò la proposta targata AKP di abolire l’immunità parlamentare. L’ala del partito rappresentata da İnce si oppose a questo provvedimento, che di fatto aprì la strada all’incarcerazione dei deputati HDP e di Enis Barberoğlu, parlamentare del CHP condannato a 25 anni di carcere.
L’opposizione si è svegliata troppo tardi? Probabilmente sì. La retorica fresca, giovane e provocatoria di Muharrem İnce è stata davvero una ventata di aria fresca, e i suoi comizi – da un punto di vista meramente ludico – sono stati, a tratti, anche divertenti da guardare. Ma le manifestazioni oceaniche di İzmir, Ankara e İstanbul a conclusione della sua campagna elettorale non sono bastate per cancellare l’onta di anni in cui l’immobilismo politico dell’opposizione è stato uno dei fattori – seppur non determinante – che ha favorito la travolgente ascesa di Erdoğan e dell’AKP.
Il ruolo giocato dalla nuova legge elettorale
Per capire i risultati del voto di domenica 24 giugno è necessario, però, scendere più in profondità e analizzare sia i flussi elettorali – per quanto questo sia possibile, a meno di 48 ore dal voto – sia le dinamiche elettorali turche dopo l’approvazione a marzo della discussa legge elettorale. Quello di domenica è stato il primo voto congiunto in cui i cittadini hanno potuto votare, su due schede diverse, per il candidato presidenziale e per il rinnovo della Grande Assemblea Nazionale Turca che è passata, nel frattempo, da 550 a 600 seggi.
La legge elettorale approvata a marzo – il cui disegno di legge era stato avanzato da un gruppo di parlamentari dell’AKP – ammette la formazione di alleanze pre-elettorali per sottrarsi all’obbligo di ottenere almeno il 10% delle preferenze per superare la soglia di sbarramento ed ottenere una rappresentanza in parlamento.
Con la nuova legge elettorale, infatti, il voto espresso per il singolo partito viene contato a nome della coalizione stessa; una mossa, quella del parlamentare Mustafa Şentop – principale ideatore della riforma – mirata a consolidare il rapporto, nato dopo il colpo di stato, con il MHP (Partito del Movimento Nazionalista), assicurarsi il loro sostegno e, al tempo stesso, garantire all’alleato l’ingresso in parlamento. L’AKP ha co-optato il partito di Devlet Bahçeli, e questo l’ha ripagato con un risultato senza precedenti: il MHP ha ottenuto un incredibile 11,1% (49 seggi e uno dei risultati migliori di sempre) che ha permesso al partito di Recep Tayyip Erdoğan di mantenere inalterata la maggioranza in parlamento pur perdendo 6,9 punti percentuali rispetto alle elezioni parlamentari del novembre 2015. L’MHP ha confermato e in alcuni migliorato i risultati ottenuti a novembre 2015 nelle province del sud-est anatolico ai confini con la Siria: Osmaniye (31,7%), Kilis (20,4%), Kahramanmaraş (16,3%) ma anche Kayseri (21,5%) hanno preferito il MHP al pur altrettanto nazionalista İYİ Parti. Entrambi i partiti hanno fatto levata sulla questiona siriana, che sia a livello demografico che politico sta acquisendo sempre più importanza sulla scena politica turca: secondo i dati UNHCR diffusi ad inizio giugno, la Turchia ospita 3.579.254 rifugiati siriani regolari, ma una stima dei numeri reali è difficile da fare, considerando i numerosi rifugiati irregolari presenti nelle metropoli di İstanbul, Ankara e İzmir. L’ostilità verso la comunità siriana è in rapida crescita, e il MHP non si è fatto problemi ad utilizzare in campagna elettorale una retorica piuttosto belligerante nei confronti dei rifugiati siriani:
“Refugees have definitely turned into a national security problem. The issue of uncontrolled Syrians is a matter of survival for Turkey. Is there any guarantee that in the short, medium, or long-term all these people will not become pawns/tools of terrorist organisations or enemies of Turkey?”
Anche Meral Akşener non si è risparmiata su questo fronte: ha detto che, se eletta, avrebbe permesso a tutti i rifugiati siriani di “festeggiare l’Iftar del 2019 (la fine quotidiana del digiuno durante il mese di Ramadan, ndr) in Siria con i loro fratelli e sorelle.”
L’AKP si è attestato al 42,6% dei voti portando in Assemblea 295 parlamentari. La Cumhur İttifakı (Alleanza del Popolo) ha ottenuto il 53,7% dei voti, contro il 33,9% della Millet İttifakı (Alleanza della Nazione) formata dal CHP, dal filo-islamico Saadet Partisi (Partito della Felicità) – erede resiliente dell’Islam politico di Necmettin Erbakan – e dall’İYİ Parti (Partito Buono) fondato da Meral Akşener, fuoriuscita del MHP che mal digerì la decisione del suo ex partito di allinearsi con l’AKP e sostenere il referendum costituzionale.
Proprio il partito di Meral Akşener merita alcune considerazioni: innanzitutto, chiamarlo partito forse, alla luce dei risultati ottenuti, potrebbe essere un azzardo. L’İYİ Parti è stato un esperimento riuscito a metà, e rappresenta più una fazione che un partito tout-court: se non per l’alleanza con Erdoğan, non si notato nel programma elettorale dei due partiti – MHP e İYİ – delle discontinuità sostanziali. L’ İYİ Parti ha tentato, da subito, di presentarsi come una valida alternativa di centro-destra all’AKP e al MHP e, per le elezioni presidenziali, sembrava essere proprio Akşener la minaccia principale alla rielezione di Recep Tayyip Erdoğan. Qualcosa, però, non è andato per il verso giusto. Sicuramente l’ İYİ Parti ha “rosicchiato” un po’ la base del MHP, ma il MHP è stato altrettanto bravo ad evitare un eccessivo drenaggio di parlamentari verso il dirimpettaio più moderato; inoltre, è riuscita ad erodere la base del CHP, i cui elettori – data la possibilità di un voto disgiunto – hanno scelto di votare per İnce alla presidenza e per l’İYİ Parti in parlamento. Ma la sua strategia, ossia intercettare i voti degli scontenti dell’AKP e di coloro che soffrono della sindrome del “one-man-rule”, non ha inciso più di tanto sull’economia del voto finale. Il suo partito, se non si fosse presentato in coalizione, avrebbe superato a fatica lo sbarramento del 10%, cosa che in realtà ha fatto, attestandosi al 10% spaccato e guadagnando una rappresentanza di 43 parlamentari.
La possibilità del voto disgiunto sembra essere anche una delle cause della dispersione del voto al Partito Repubblicano: nel 2015, il partito di ispirazione kemalista aveva conquistato il 24,95% dei voti. Questa volta si è fermato al 22,6%. Perchè? L’HDP ha potuto superare la soglia di sbarramento anche grazie ai voti dei social-democratici, che hanno votato per İnce alle presidenziali ma hanno deciso di sostenere il partito libertario filo-curdo alle parlamentari, con lo scopo di erodere il più possibile il numero di seggi a disposizione della coalizione AKP-MHP.
L’HDP si è confermato il primo partito nelle regioni intorno al Lago Van (ad eccezione della provincia di Bitlis) e lungo il confine iracheno, conquistando un notevole 11,7% dei voti e ritornando in parlamento con 67 parlamentari. L’exploit dei curdi è stato vanificato da quello del MHP, ma è comunque un buon segnale: l’opposizione politica in Turchia, forse per la prima volta nella storia, si è mossa non lungo linee e istanze puramente identitarie (laici, nazionalisti, curdi) ma è stata animata da rivendicazioni di maggiore pluralità politica, maggiore accesso agli spazi pubblici, una migliore allocazione delle risorse e un maggior liberismo politico e sociale.
Il candidato presidenziale dell’HDP, Selahattin Demirtaş, ha ottenuto 4.205.243 di voti, ossia l’8,4% delle preferenze totali. Un risultato abbastanza sorprendente, se consideriamo che Demirtaş è, da novembre 2016, nel carcere di massima sicurezza di Edirne accusato di propaganda terroristica. Rischia 142 anni di carcere. In una nota piuttosto grottesca pubblicata da Anadolu Ajansı, si faceva notare come “per la prima volta nella storia della democrazia, è stato permesso ad un candidato presidenziale di fare campagna elettorale da dietro le sbarre.”
Il futuro della Turchia
Cosa rimane di queste elezioni e quali sono i trend che ci possiamo aspettare? I governi di coalizione non hanno mai funzionato in Turchia, e potrebbero non funzionare nemmeno questa volta. L’MHP si è già opposto alla revoca dell’OHAL (lo stato di emergenza) promessa dall’AKP in campagna elettorale, e a poco meno di 48 ore dallo scrutinio, sono emerse le prime schermaglie tra gli alleati AKP e MHP circa l’assegnazione di un seggio parlamentare conteso nella provincia di Hatay. L’equilibrio della maggioranza parlamentare e della Cumhur İttifakı dipenderà dall’alleato nazionalista: non è scontato che l’MHP tenti di smarcarsi dal controllo dell’AKP per acquisire più autonomia e spazio di manovra, rifiutando quindi il ruolo di “stampella” del partito di Erdoğan.
Il capo dello Stato continuerà a servirsi della profonda e affinata retorica fatta di provocazioni nei confronti dei paesi dell’Unione Europea (Olanda, Germania e Austria) e di una costante ricerca di un “nemico” a cui imputare qualsiasi debolezza personale o del suo paese.
Dal punto di vista economico e fiscale, Erdoğan non ha mai nascosto il suo desiderio di controllare la Banca Centrale, decidendo personalmente le politiche fiscali e i tassi di interesse; sul lungo periodo, però, potrebbe cedere alle pressioni del mercato, spaventato dalla possibilità di una crisi economica ancora più profonda e da una svalutazione della lira turca ancora più grave. La stabilità dell’economia turca dipenderà da quanto e come Erdoğan deciderà di limitare l’autonomia della Banca Centrale.
In politica estera, è probabile che prevalgono gli interessi consolidati con gli alleati atlantici in nome della realpolitik: ossia una relazione costantemente tesa ma non a rischio strappo con la NATO e una sempre maggiore collaborazione e dipendenza da Mosca per muoversi con relatività tranquillità nel teatro mediorientale e in quello siriano in particolare. Questo dipenderà da un delicato gioco di equilibri tra Washinton, Bruxelles e Mosca che nessuna delle parti in gioco sembra interessata a rompere. Bruxelles sarà costretta a digerire gli attacchi ai suoi paesi membri in nome dell’accordo sui rifugiati, mentre Washington continuerà l’implementazione della road-map con Ankara per il ritiro delle truppe YPG-YPJ da Manbij e la creazione di una zona cuscinetto lungo il confine turco siriano.
A 48 ore dal voto, è possibile solo fare ipotesi e congetture: le elezioni del 24 giugno potrebbero mantenere inalterato lo status quo, ma lo status quo in cui si trova la Turchia è estremamente fragile e turbolento.