Tutte le dicotomie di USA 2016
- 11 Gennaio 2016

Tutte le dicotomie di USA 2016

Scritto da Rosa Fioravante

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Sovente, per definire gli orientamenti politici o discutere il pensiero che vi si sottende, è utile usare delle dicotomie. Liberalismo e Socialismo, Democrazia Rappresentativa e Democrazia Diretta, e ancora Capitalismo e Socialismo, Autoritarismo e Corporativismo, Neoliberismo e Socialdemocrazia. È utile usare delle categorie politiche a confronto non solo per gli studiosi e gli accademici che vogliano approfondirle, ma anche e soprattutto per i comuni cittadini, chiamati ad esprimersi al voto, per capire quali siano le radici profonde e la visione d’insieme a cui si rifanno partiti politici, i candidati a cariche governative, e persino i mass-media che raccontano la dialettica politica per restituirla, necessariamente filtrata, all’opinione pubblica. Mancano poche settimane all’inizio delle primarie statunitensi, democratiche e repubblicane, che definiranno le leadership espresse dal partito dell’asinello e dell’elefantino, le quali si confronteranno nella sfida per la le presidenziali USA 2016. Alcune delle dicotomie attraverso le quali si possono leggere queste elezioni sono alla base dell’intero impianto liberal-democratico sul quale si fonda il sistema politico “occidentale”.

Per i repubblicani sono in corsa una decina di candidati, i più noti alle cronache e ai sondaggi sono Donald Trump, miliardario palazzinaro dalla retorica dissacrante, Ted Cruz vicino al Tea Party – movimento di ispirazione libertaria di estrema destra –, Ben Carson chirurgo in pensione di colore che vorrebbe curare quello che lui chiama il “paziente America”, Marco Rubio di origini cubane e di bell’aspetto, e Carly Fiorina ex AD di Hewlett-Packard (azienda alla cui rovina ha contribuito in modo determinante); in corsa c’è anche Jeb Bush, il fratello di George W., figlio di George H.W., che tuttavia è dato per sfavorito non si sa se più a causa della sua incapacità retorica o dell’eredità del governo del fratello, ormai inviso alla maggioranza degli americani. Nonostante il consueto slogan “Dio, patria, famiglia” del mondo conservatore sia stato da tutti loro sostituito in un più militante e militare “guerra all’ISIS, guerra alle riforme di Obama (in particolare sui temi del controllo delle armi e della riforma sanitaria) e guerra all’aborto e ai gay”, la candidatura dell’outsider Trump sembra sempre più “in”. I suoi fan lo amano perché è un uomo di successo che può apertamente dire ciò che loro non possono, perché sarebbero tacciati di mancanza di politicamente corretto: è contro i messicani, contro i cinesi, contro i musulmani, contro le donne e contro l’establishment repubblicano. Il fatto che abbia fatto affari con tutti coloro che oggi pubblicamente critica non sembra un problema, ma la dimostrazione che è il mondo ad aver bisogno di lui e non lui del mondo. “Make America Great Again”, il suo motto, è una promessa di tracotante autarchia. Autarchia ed imperialismo, un’interessante dicotomia che per gli Stati Uniti ha un sapore antico. Su di essa si incagliano le speranze di una destra repubblicana che vorrebbe tenere insieme l’asse USA-Wahhabismo contro l’accordo per il nucleare iraniano che sembra aprire agli sciiti, vorrebbe una riedizione della Guerra in Iraq contro l’ISIS ignorando le conseguenze di quella stessa invasione iraquena, così intimamente connesse all’espansione di Daesh. Vorrebbero, i repubblicani (su questo fronte in buona compagnia di larga parte della destra europea), tenere insieme una tradizione anti-Big Government di impianto inequivocabilmente liberale di autodeterminazione individuale, contro ogni paternalismo proveniente da Washington, con la contestuale regolazione fin nei minimi dettagli delle scelte morali e sessuali dei cittadini statunitensi, delle loro preferenze sentimentali, del diritto delle donne di controllare il proprio corpo. Liberalismo e moralismo, una dicotomia che ha assunto le forme di un nodo gordiano così difficile da sbrogliare che non stupisce sia arrivato un Trump a tagliarlo di netto, offrendo l’opportunità di votare non per le sue idee (poche e confuse) ma per il suo successo; non è alla sua campagna elettorale che prendono parte i suoi fan, ma al suo show, e quando la politica cessa di interrogarsi sulle dicotomie, questo è quello che rimane: un palcoscenico vuoto ma pieno di riflettori.

Di categorie politiche dicotomiche, si nutre anche la sfida in casa democratica. Hillary Clinton, data per favorita alla nomination, ne ipostatizza una già solo nella sua figura, che sta tormentando e spaccando il giudizio delle femministe d’oltreoceano: donna di successo, Segretario di Stato e moglie-madre-nonna, o donna-moglie e in quanto tale di successo?  Il giudizio su di lei si divide lungo la linea dei sostenitori di questa o quella parte della dicotomia fra eguaglianza e partecipazione politica: da un lato, chi crede che l’eguaglianza debba essere garantita nella situazione di partenza di ciascuno, che poi può sviluppare, date eguali condizioni, i propri talenti; dall’altra parte chi crede che, stante la situazione di partenza differente, il gap di diseguaglianza possa essere recuperato da accorgimenti correttivi inseriti “in corsa”: norme dedicate alla partecipazione politica delle minoranze, del gentil sesso, a categorie altrimenti sotto-rappresentate. In quest’ultimo caso, un cognome importante può infondo valere più di mille quote rosa.

Il suo successo non è però in nessun modo riducibile alla sola vicinanza a Bill. Clinton rappresenta oggi la quintessenza del nerbo liberal del Partito Americano: è da sempre favorevole al controllo delle armi, ha recentemente, nel 2013, ha ritoccato le sue posizioni in materia di diritti gay (che ha sempre difeso pur sostenendo precedentemente che “il matrimonio è solo fra uomo e donna”), e pro scelta della donna in merito all’aborto. La sua attenzione per le associazioni filantropiche è stata costante – da neolaureata a Yale si è messa a disposizione come avvocato per assistiti svantaggiati – così come la sua attività di advocacy per le minoranze etniche, che infatti seguono la sua campagna con interesse.

Hillary non è stata solo First Lady prima dell’Arkansas e poi degli Stati Uniti. Non è stata solo Senatrice per lo stato di New York, la sfidante alle primarie di Barack Obama nel 2008 e poi Segretario di Stato sotto la presidenza di quest’ultimo. È stata una “Goldwater Girl” durante la campagna del repubblicano nel 1964 – esperienza che rivendica con orgoglio, perché cambiare idea ammettendo l’errore è segno di onestà intellettuale e crescita personale –, e nel 1986 è entrata nel Consiglio di Amministrazione di Walmart, la maggiore catena della grande distribuzione statunitense, persistentemente sotto i riflettori per lo sfruttamento dei suoi lavoratori e l’impegno antisindacale della famiglia Walton che la possiede. Tutt’altro che un neo nel suo curriculum, questa esperienza le è servita, a detta dei suoi colleghi, per rivendicare maggiore protagonismo femminile nei centri di amministrazione privati così come lo rivendicherà nell’arena pubblica.

La valutazione che si dà della figura di Hillary è sempre intimamente connessa alla concezione che si ha dell’uso e della vicinanza al potere. I suoi sostenitori ritengono che la presenza di una donna dalle convinzioni progressiste nelle “stanze dei bottoni” permetta una maggiore efficacia nell’azione riformatrice di queste realtà, mentre i suoi detrattori non vedono di buon occhio i finanziamenti che la candidata riceve dal mondo di Wall Street e da facoltosi individui (pare che la fondazione dei Clinton abbia in passato ricevuto denaro anche dallo stesso Trump). Ma le dicotomie, anche quando riguardano le concezioni inerenti la gestione del potere, non sono contraddizioni, possono racchiudere concetti complementari, ed è anche per questo che il ritratto migliore di Lady Clinton è rappresentato dal sottotitolo usato da The Nation per una raccolta di opinioni sul suo conto: “Depending on whom you ask, Clinton is a triangulating pro-corporate Democrat or a heroic shatterer of glass ceilings—or both”.

Chi invece crede che la dicotomia eguaglianza-partecipazione democratica sia nient’altro che un’endiadi è lo sfidante di Hillary più accreditato: Bernie Sanders. L’inaspettata ascesa nei sondaggi di questo ultrasettantenne con una trentennale carriera politica alle spalle come eletto “Indipendente”, che si dichiara apertamente socialista (negli USA!), e che rifiuta le donazioni provenienti dalle grandi multinazionali statunitensi, dai lobbisti e dal mondo della finanza, ha scandalizzato i benpensanti, contraddetto le previsioni dei media mainstream – che hanno largamente ignorato finché è stato possibile la sua campagna elettorale –, e sta gettando nel panico gli headquarters del Partito Democratico.

La campagna di Sanders si basa sull’accostamento alla definizione “procedurale” della democrazia come “government by the people”, di quella assai più “sostanziale” di “…and for the people”. La sua convinzione è che la democrazia americana, che pure si presenta formalmente salda nei suoi principi, sia diventata nel concreto più simile ad un’oligarchia nella quale governano i ricchi contribuenti alle campagne elettorali. Costoro, comprano e dispongono dei candidati, e in questo modo ottengono dagli eletti un governo che faccia i loro interessi, quelli delle grandi aziende e del mondo della finanza che li sovvenziona, invece che quelli delle persone comuni che quegli stessi candidati li votano. Questa commistione di potere politico ed economico si è mostrata col suo volto peggiore nella crisi del 2008: crisi economica sì, imputabile all’avidità e al comportamento illegale di Wall Street, ma anche crisi di un ceto politico che si è affrettato a salvare le grandi banche sull’orlo del fallimento da loro stesse causato, senza chiedere garanzie in merito ad una radicale modificazione di quei comportamenti. Al salvataggio non è corrisposta né la richiesta di usare i fondi pubblici ricevuti per aiutare le realtà produttive statunitensi, né il reintegro di quelle norme che impedivano al mondo finanziario avventate speculazioni, usando per coprirle i risparmi dei cittadini comuni.

Allo stesso modo, la Fed e il governo di Washington avrebbero concesso sovvenzioni e ampi sgravi fiscali a individui facoltosi e grosse e profittevoli aziende – anche chiudendo un occhio sul loro abituale flusso di denaro verso paradisi fiscali di ogni genere – , senza assicurarsi che queste ponessero fine alla massiccia delocalizzazione produttiva che hanno posto in essere negli ultimi trenta-quaranta anni, alla ricerca di manodopera a basso costo altrove; i prodotti finiti ottenuti sfruttando i lavoratori messicani, cinesi, e di altri paesi sarebbero poi stati facilmente reimportati negli USA per essere venduti, grazie a politiche commerciali promosse dalla presidenza repubblicana e democratica in modo bipartisan, che consentono di fare questa operazione sostenendo costi nulli.

Il risultato di questa lunga stagione politica è uno scenario di diseguaglianza sociale ed economica così profonda da essere sconosciuto per la sua entità nella storia. In questo senso, gli Stati Uniti si inseriscono in un trend proprio di tutto il mondo occidentale, nel quale le conseguenze della globalizzazione si sono fatte conoscere sotto la forma di una sempre maggiore polarizzazione fra i molti che si impoveriscono, materialmente e in termini di titolarità di diritti, e i pochi che si arricchiscono, ponendosi de facto sopra il potere sovrano come formalmente costituito. Bernie Sanders, denunciando da sempre con la sua lunga attività politica come Sindaco, poi Congressman, poi Senatore, le contraddizioni sopra accennate, vorrebbe rappresentare e fare gli interessi, proprio di quei “molti”, che qualcuno ha chiamato “il 99%”, qualcuno “i nuovi proletari”, e qualcuno, più modestamente, la vecchia classe media che scompare, portandosi via anche la colonna vertebrale della democrazia rappresentativa come l’abbiamo sin qui conosciuta, fatta di corpi intermedi, associazioni, sindacati e società organizzata.

Noberto Bobbio, un intellettuale che ha discusso a lungo e presentato nel dettaglio le dicotomie che definiscono la politica moderna, e in particolare quella democratica, ha ricordato nel suo Il futuro della democrazia (1984) che quest’ultima non può perdurare a lungo senza divenire un costume. Quando Bernie Sanders afferma di voler portare, attraverso la sua candidatura alla Casa Bianca, una vera e propria rivoluzione politica, non afferma altro che il desiderio di dare al popolo americano la possibilità di “indossare” quel costume democratico, la consuetudine della partecipazione politica finalizzata a portare le proprie istanze sociali all’interno delle istituzioni, dove muovere le leve che dovrebbero consentire, attraverso politiche assennate, a ciascuno la possibilità di vivere a pieno il “sogno americano”. Quest’ultimo, egli, figlio di un immigrato polacco arrivato negli USA senza un penny e di una modesta newyorkese, cresciuto in povertà a Brooklyn e oggi in corsa per diventare l’uomo più potente del mondo, non lo richiama retoricamente, ma lo incarna nel suo senso più autentico.

La sua rivoluzione non è sinonimo di ribaltamento dell’ordine costituito, piuttosto, si richiama al concetto di fare un giro completo lungo un’orbita per tornare nella posizione originaria: egli vuole tornare a dare agibilità concreta al sogno di libertà ed eguali diritti e possibilità per tutti, sul quale fu costruita la nazione che è stata di Franklin Delano Roosevelt e di Martin Luther King, e che si è spostata così lontano da diventare quella di Reagan dei Bush e di Trump. Dicotomia filosofica? No, dialettica Politica.


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Scritto da
Rosa Fioravante

Phd Student, Global Studies – Economy, Society and Law, presso l’Università di Urbino “Carlo Bo”.

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