Scritto da Valerio Galletta
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Il 3 novembre 2023 il Consiglio dei Ministri ha presentato ufficialmente un nuovo piano, di cui si parlava da lungo tempo, di politica estera e rapporti internazionali, in particolare con l’Africa, chiamato Piano Mattei dal nome della figura chiave dell’industria energetica italiana del secolo scorso. Per capire in che misura il riferimento alla figura di Enrico Mattei sia pertinente in questo contesto risulta utile ripercorrere alcuni tratti della sua vicenda, così da provare a capire il suo metodo e avere gli elementi necessari per poter trarre, in autonomia, le proprie conclusioni.
La storia di Enrico Mattei è legata a doppio filo al petrolio e al gas naturale: AGIP, SNAM, ENI sono solo alcune delle società rinate (o nate) sotto la sua gestione. Per necessità di spazio e utilità, partiremo cronologicamente dalla costituzione dell’ENI. L’Ente Nazionale Idrocarburi è stato il principale progetto di Mattei, la cui gestazione è durata anni. Per la presidenza dell’ENI, a causa di una legge fatta approvare da Luigi Sturzo – al tempo senatore e ideologicamente distante da Mattei – egli rinunciò al seggio in Parlamento[1]. L’ENI nacque nel febbraio del 1953. L’Italia era un piccolo Paese senza grandi giacimenti e con una evidente carenza di risorse energetiche. Proprio queste risorse energetiche erano necessarie per avviare, a livello economico e industriale, la rinascita dello Stato postfascista italiano.
Nei primi anni, l’ENI era un ente di modeste dimensioni: nulla in confronto alle cosiddette “Sette sorelle”, cioè le principali compagnie degli idrocarburi nel mondo. Con l’espressione Sette sorelle, coniata da Mattei, si intendono la Exxon – detentrice del marchio Esso e nota anche come Standard Oil of New Jersey –, la Mobil, la Texaco, Standard Oil of California (SOCAL) – conosciuta pure con il nome Chevron –, la Gulf Oil, la Royal Dutch Shell e la British Petroleum – precedentemente Anglo-Persian Oil Company (APOC). Cinque compagnie americane, una anglo-olandese e una britannica. Il contesto internazionale vedeva, negli anni Cinquanta, numerosi casi di instabilità politica nelle aree storicamente sotto il controllo inglese e francese in Nord Africa e Medioriente che vennero sfruttati dall’ENI e da Mattei. Almeno fino al 1953 Mattei mantenne un atteggiamento filoatlantico e anticomunista, per poi variare la sua posizione nel tempo fino a confidare al giornalista Cyrus Sulzberger la sua avversione nei confronti della NATO.
Certamente a cambiare la posizione internazionale di Mattei contribuirono due elementi. Il primo fu l’esclusione dal Consorzio di Abadan, noto anche come Consorzio per l’Iran. Nel 1951 salì al potere in Iran Mohammad Mossadeq, che decise di nazionalizzare l’AIOC (Anglo-Iranian Oil Company) costituendo la NIOC (National Iranian Oil Company) e aprendo la lunga crisi di Abadan, conclusasi solo alcuni anni dopo con la deposizione dello stesso Mossadeq. Nel 1954, dalle ceneri dell’AIOC, nacque la British Petroleum. Contestualmente, venne costituito il consorzio di cui sopra, partecipato al 40% dalla BP, con una precisa divisione del mercato iraniano fra il consorzio multinazionale e la NIOC, sulla base del principio del fifty-fifty. L’ENI non venne ammesso nel consorzio, nonostante la lealtà di Mattei, almeno fino a quel momento, al cartello del petrolio. Il secondo elemento fu la rottura avvenuta fra il 1955 e il 1956 con la compagnia energetica francese Total per via del petrolio algerino. Di certo, anche negli anni precedenti rispetto ai mancati accordi sul petrolio algerino e all’umiliazione di Abadan, alcune delle Sette sorelle avevano attaccato l’operato dell’AGIP, dell’ENI e le leggi dello Stato italiano: per esempio, il rappresentante in Italia della SONJ, Ralph. B. Bolton, nel 1951 inviò un telegramma dal tono duro e minaccioso a Giuseppe Togni, allora ministro dell’Industria, e, in copia, ad Alcide De Gasperi, presidente del Consiglio. Egli attaccò quello che definì uno sfavorevole atteggiamento del Governo nei confronti dell’industria privata, preferendo tutelare l’AGIP. Occorre ricordare che nell’atto di costituzione dell’ENI si sancisce il monopolio dell’impresa pubblica nell’area della val Padana, ma questo è di due anni successivo al telegramma: dunque, la lamentela può risultare precoce, forse fatta in via preventiva, vista la direzione che si stava iniziando a seguire.
Per capire l’atteggiamento delle Sette sorelle, è necessario risalire alla loro origine come “cartello”: esse si riunirono nel 1928 nel castello scozzese di Achnacarry, a centoventi chilometri da Glasgow, dove si diedero fino a sei mesi di tempo per raggiungere un accordo equivalente, a tutti gli effetti, a un patto di non concorrenza, vietato nella coeva legislazione americana. Fu tracciata una linea rossa[2] sulla cartina geografica del Medio Oriente per indicare l’area, in particolare della penisola arabica, all’interno della quale le compagnie contraenti non si sarebbero create problemi a vicenda. Il patto rimase valido sostanzialmente fino alle crisi petrolifere dei primi anni Settanta. Ciò detto, è facile capire per quale motivo l’inserimento dell’ENI fosse stigmatizzato, andando a minare i delicati equilibri dell’accordo. Le Sette sorelle, nel momento della nascita dell’Ente, controllavano più del 90% delle riserve petrolifere mondiali al di fuori di Messico, Stati Uniti e Unione Sovietica, il 90% della produzione e il 75% della raffinazione del greggio: dunque, potevano pilotare il prezzo del petrolio in un sostanziale accordo di cartello. Nel tempo, Mattei aveva tentato di entrare in affari direttamente con le compagnie, consapevole del rischio di una rottura con loro, sia a livello economico che politico: infatti, chiese che all’ENI fosse riservato il 3% dell’Aramco (Arabian American Oil Company), gruppo creato anni prima dalla SOCAL e dalla Texaco, alle quali si aggiunse nel 1948 anche la SONJ. Seppur con l’avversione del cartello petrolifero, l’AGIP e l’ENI condussero in quegli anni una politica di espansione all’estero: infatti, in Italia erano collocate importanti raffinerie, come quella di Ravenna, privata, o quella di Bari, al 50% dell’Anic, società del gruppo ENI, e per la restante metà della Esso; esse permettevano di lavorare nel Paese anche petrolio proveniente da fuori. Vennero aperte sedi dell’AGIP in Austria, Svizzera e Germania, oltre all’importante AGIP London. Il compito delle controllate estere era quello di costruire reti e raffinerie nel resto d’Europa, operazione che fu avviata. Dopo la morte di Mattei, anche a causa dell’enorme esposizione finanziaria dell’ENI e dell’incertezza degli istituti di credito nei confronti della nuova dirigenza – divenne presidente Marcello Boldrini, vice di Mattei e suo strettissimo collaboratore, e andarono via molti componenti dell’importante Ufficio studi economici, fra i quali lo stesso direttore Giorgio Ruffolo –, l’espansione all’estero subì una pesante rimodulazione, con una riduzione degli investimenti tale da dover vendere all’Exxon la rete inglese. Sempre a proposito del mercato europeo, un evento segnò definitivamente i rapporti già compromessi fra il cartello e l’ENI: si tratta dell’incontro di Montecarlo del dicembre 1959 fra Enrico Mattei, Nicola Melodia e Arnold Hofland, al tempo uno dei sette amministratori delegati della Royal Dutch Shell. Durante il confronto, di cui non si è avuta notizia per anni, Mattei propose alla Shell una collaborazione relativa principalmente all’oleodotto da Genova a Monaco di Baviera e alla costruzione di una raffineria in Nord Africa, a Biserta: dall’altra parte trovò un muro che causò uno scontro violentissimo. Viste le numerose difficoltà riscontrate con le Sette sorelle, Mattei si rivolse ai sovietici, agli algerini, ai marocchini e a chiunque potesse assicurare all’Italia delle fonti indipendenti e trovò in questi Paesi le sue stesse motivazioni «populistico-nazionalistiche»[3]. Lo scontro di Montecarlo portò a una intervista molto nota, rilasciata da Mattei, nella trasmissione Tribuna politica[4]. L’incontro televisivo tra Mattei e quattro giornalisti fu oscurato, in parte, della notizia del successo della missione di Jurij Gagarin, annunciata lo stesso giorno e che fu al centro dell’attenzione. Alcuni passaggi dell’intervista sono ugualmente rimasti storici, in particolare quelli riferiti al diverbio avuto con Hofland – mai nominato apertamente – e all’arroganza delle Sette sorelle.
Se l’ENI riuscì a ottenere significativi accordi in Nord Africa e Medio Oriente, ciò è dovuto in gran parte alla “formula Mattei”: essa consisteva in un accordo di base 50/50, a cui veniva aggiunto un ulteriore 25%, costituito dalla metà delle quote di una compagnia mista creata ad hoc. In tal modo, il Paese produttore manteneva il 75% dei profitti, diventando allo stesso tempo partner d’impresa, riducendo i costi di intermediazione e permettendo di abbassare il prezzo del petrolio in modo consistente. La storia della formula Mattei ebbe inizio in Egitto: nel 1954, poco dopo la presa del potere da parte di Nasser e Naǧīb, Mattei iniziò a tessere rapporti con l’Egitto. Nello stesso anno, l’ENI acquisì alcune azioni della IEOC (International Egyptian Oil Company), divenuta interamente proprietà dell’Ente nel 1961. Nel 1955 l’ENI trovò le prime fonti di petrolio nel Sinai. Nel 1956, annunciata da Nasser l’intenzione di nazionalizzare lo stretto di Suez, ottenne l’appalto per costruire, attraverso la Dalmine-SNAM, l’oleodotto di collegamento fra Suez e Il Cairo. Tuttavia, il primo Paese con cui fu applicata la formula 75/25 fu l’Iran – infatti le percentuali con l’Egitto erano state un po’ più equilibrate –, con cui venne siglato un accordo il 13 ottobre 1956, entrato in vigore poi nel 1957. Se nel caso dell’Egitto l’ENI aveva acquisito delle quote di un’impresa esistente, in Iran ne venne istituita una da zero insieme alla NIOC: chiamata SIRIP (Société Irano-Italienne des Pétroles) di proprietà dell’AGIP e, appunto, della NIOC. Secondo l’intesa, i costi di esplorazione erano a carico dell’AGIP Mineraria; in caso di ritrovamenti, la SIRIP avrebbe partecipato alle spese. Inoltre, L’AGIP Mineraria si impegnava a fornire all’Iran sia il personale tecnico che l’attrezzatura necessaria per le esplorazioni e l’estrazione del petrolio. L’accordo in sé non destò grandissime preoccupazioni da parte delle potenze occidentali: ciò che si temeva di più era che altri Paesi seguissero lo stesso esempio e individuassero la politica dell’ENI come un utile mezzo per aumentare il controllo sulle risorse presenti nel loro territorio. Secondo una testimonianza di Giorgio Ruffolo, a muovere Mattei era la sincera convinzione che fosse necessaria un’indipendenza del mondo arabo e del Medio Oriente e che questi popoli dovessero poter disporre delle proprie risorse.
Secondo il presidente dell’ENI, le Sette sorelle trattenevano una quota troppo grande dei profitti, operando in condizioni di oligopolio, cosa che impediva lo sviluppo autonomo dei Paesi produttori. Il modello americano, inoltre, prevedeva un sistema particolare di rendicontazione delle spese. Quando si lavora a un pozzo petrolifero, si devono sostenere dei costi di perforazione e sviluppo. Di norma, questi vengono considerati investimenti e non spese: tali investimenti saranno ammortizzati attraverso i guadagni derivati dai ritrovamenti, impossibili senza simili costi di avvio della coltivazione del giacimento. Pertanto, all’atto pratico i profitti sono più alti di quanto sarebbero se, piuttosto che investimenti, questi costi fossero considerati spese, cioè perdite. Al contrario, le imprese americane “spesavano” i costi di ricerca e sviluppo, inserendoli dunque fra le perdite e riducendo nominalmente i profitti. Le tasse erano sui profitti: un minor guadagno significava una minore tassazione. Inoltre, sostenere subito i costi e non optare per un ammortamento negli anni a venire consisteva in una politica economica estremamente prudente che garantiva la creazione di una importante solidità economica[5]. A questo metodo di rendicontazione va aggiunto un sostanziale vantaggio fiscale di cui godevano sempre le stesse imprese petrolifere americane. Nel momento in cui si estraggono idrocarburi all’estero, si devono pagare delle royalties ai Paesi produttori: esse sono giuridicamente delle imposte, ma all’atto pratico sono dei veri e propri costi di produzione. Al tempo, con l’obiettivo di evitare una doppia tassazione (che di fatto non c’era), gli Stati Uniti permettevano di scalare quelle royalties versate ai Paesi produttori dalle tasse sui profitti dovute “in casa”: in questo modo, le compagnie americane erano quasi del tutto esenti dal pagamento delle vere imposte, con un conseguente importante vantaggio economico sulle concorrenti. Peraltro, le compagnie americane potevano contare su un ulteriore beneficio fiscale, cioè la percentage depletion allowance. Ancora più chiaro, quindi, diventa il motivo per cui Mattei e l’ENI scelsero di non acquistare dalle Sette sorelle, contrastando il legale ma iniquo sistema dei guadagni delle grandi compagnie.
Dunque, oltre alla formula Mattei, venne cercato anche un altro tipo di accordo per l’acquisto di idrocarburi: vennero comprate dall’Unione Sovietica dodici milioni di tonnellate di petrolio per un valore di cento milioni di dollari attraverso uno scambio di beni di pari valore, come gomma sintetica, impianti petrolchimici, stazioni di pompaggio per il petrolio negli oleodotti, eccetera. Mattei sottolineò che il prezzo del petrolio in sé non era inferiore rispetto a quello praticato da molte compagnie; tuttavia, l’ENI non aveva dovuto pagare divise estere, utilizzando invece prodotti del proprio lavoro. Lo stesso avvenne in Egitto, dove furono scambiati quindici milioni di dollari di petrolio con altrettanti milioni di dollari di fertilizzanti. E ancora, nello stesso Paese, cinquantasei milioni di dollari di petrolio in cambio di vari tipi di impianti e fertilizzanti. Tale sistema permetteva, peraltro, di eliminare gli intermediari, risparmiando fino al 40%, cioè la fetta degli extraprofitti trattenuti dalle compagnie internazionali. Oltre ai rapporti con l’Unione Sovietica, Mattei ritenne di fondamentale importanza coltivare legami con l’Algeria, al tempo in pieno conflitto con i coloni francesi. L’ENI garantì la formazione per i dirigenti del Front de Libération Nationale (FLN) algerino presso la Scuola di studi superiori sugli idrocarburi di San Donato Milanese, fondata nel 1957. Ancora oggi in Algeria Mattei è ricordato come uno degli artefici dell’indipendenza. I metodi dell’ENI di quegli anni furono rivoluzionari, come intuibile. Se l’Italia è riuscita a emergere dalla crisi postbellica si deve anche alle politiche energetiche e ai rapporti che queste hanno creato.
Enrico Mattei è stato un unicum nella storia del nostro Paese: imprenditore privato e poi pubblico, uomo politico al contempo, principale sponsor – e per molti il vero creatore – della corrente della “sinistra di base” della Democrazia Cristiana, persona in grado di sfidare e tenere testa, per certi versi, alla potenza economica e politica delle più grandi compagnie petrolifere del mondo.
[1] La legge 60/1953, nota anche come “Legge Sturzo”, fu promulgata il 13 febbraio del 1953. Secondo l’Articolo 1, «I membri del Parlamento non possono ricoprire cariche o uffici di qualsiasi specie in enti pubblici o privati, per nomina o designazione del Governo o di organi dell’Amministrazione dello Stato. […]»; il presidente del Consiglio De Gasperi ricevette Mattei per offrirgli la presidenza dell’Ente il 18 febbraio, cinque giorni dopo.
[2] Infatti, gli accordi sono noti come “della Linea rossa” o “di Achnacarry”.
[3] Archivio Storico Eni, Fondo Fonti Orali, Intervistato: Giorgio Ruffolo (fine degli anni Ottanta e i primi anni Novanta), p. 22.
[4] La parte più famosa è nota come “parabola del gattino”.
[5] Testimonianza di Giuseppe M. Sfligiotti, intervista di Valerio Galletta, 24 agosto 2023.
Il presente articolo è una rielaborazione di parte della tesi di laurea dell’autore.