Scritto da Giulia Dugar, Paola Fontanella Pisa
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Questo contributo è tratto dal numero cartaceo 1/2021 “Frontiere”. Questo contenuto è liberamente accessibile, altri sono leggibili solo agli abbonati nella sezione Pandora+. Per ricevere il numero cartaceo è possibile abbonarsi a Pandora Rivista. È inoltre disponibile la formula sostenitore che comprende tutte le uscite del 2020 e del 2021. L’indice del numero è consultabile a questa pagina.
Prossimo alla ricorrenza del decimo anniversario del disastro nucleare di Fukushima, il nuovo Primo ministro Yoshihide Suga ha preso posto alla guida del Paese introducendo nel piano nazionale obiettivi importanti per contrastare gli effetti del cambiamento climatico, come mai nessuna amministrazione nipponica aveva fatto prima. Suga ha infatti affermato di voler portare il Giappone a zero emissioni entro il 2050, seguendo la linea intrapresa dall’Unione Europea nel 2018 e di recente adottata anche dal leader cinese Xi Jinping. Questo obiettivo si basa sulle linee guida presentate nell’accordo di Parigi, ratificato dagli Stati membri in occasione della Conferenza di Parigi sul clima (COP21) nel dicembre 2015. L’accordo invita i Paesi che vi aderiscono a promuovere lo sviluppo sostenibile delle comunità, investendo in nuove tecnologie e incentivando azioni che permettano di limitare il surriscaldamento globale al di sotto dei 2°C. Con questa dichiarazione, Suga condivide così le sue intenzioni di coniugare obiettivi economici e ambientali, in tal modo limitando gli effetti del cambiamento climatico e contribuendo a formare una società più sostenibile. Questa notizia ha presto fatto discutere, poiché rappresenta un sostanzioso passo avanti per un Paese che fino ad ora è stato più volte additato per lo scarso impegno a limitare le emissioni, nonostante il suo prominente ruolo a livello globale, soprattutto a guida dei protocolli internazionali, per contrastare il cambiamento climatico.
L’obiettivo inerente alla “neutralità carbonica” era già stato introdotto a giugno 2019 in occasione del G-20 a Osaka, quando il Gabinetto giapponese ha annunciato l’adozione di una strategia a lungo termine per ridurre le emissioni sotto l’accordo di Parigi[1]. Ad un tale passo avanti devono conseguire azioni concrete, poiché la storia ci ha insegnato che non è la prima volta che il Giappone si fa promotore di cambiamenti per la riduzione delle emissioni, senza poi ottenere risultato alcuno. Rappresentativa è stata l’occasione della COP25 (Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici) tenutasi a Madrid pochi mesi dopo il G-20 nel dicembre 2019, quando il Giappone fu premiato dalla Climate Action Network (CAN) con il riconoscimento satirico di “fossile del giorno”, un premio riservato ai Paesi meno performanti nella lotta al cambiamento climatico. Ad allora risale infatti la criticata affermazione del Ministero dell’economia Kajiyama, che in una conferenza stampa ha confermato la preferenza del Paese per il carbon fossile.
La narrativa che unisce il Giappone contemporaneo alla lotta contro il cambiamento climatico è infatti fortemente legata ai temi di energia, consumi e inquinamento, a loro volta concatenati agli obiettivi economici del Paese. Il Giappone occupa oggi la quinta posizione al mondo per emissioni di anidride carbonica. Pur ospitando il 2% della popolazione globale, da solo è responsabile dal 3% al 4% delle emissioni globali. Oltre ad avere un impatto negativo a livello mondiale, il tema del cambiamento climatico è particolarmente delicato anche per la sfera domestica. Da un lato, la perdita dei servizi legati all’ecosistema e l’aumento di intensità e frequenza di eventi di pericolo come tifoni, alluvioni e frane hanno un duro impatto per il quotidiano dei singoli cittadini del Paese; dall’altro, il cambiamento climatico ha già mostrato un notevole effetto relativo alla perdita della biodiversità, con conseguenti ripercussioni per le microeconomie regionali e locali.
Per questo motivo, è imperativo che il Paese assuma un ruolo più prominente nella lotta mondiale contro il cambiamento climatico, per raggiungere obiettivi significativi di sostenibilità, tramite un radicale rinnovamento del piano economico ed energetico. L’annuncio di Suga si inserisce in un percorso che è stato intrapreso più volte dal Giappone, ma mai caratterizzato da un risvolto significativo a lungo termine.
A seguito della Seconda guerra mondiale, il Giappone ha infatti dato priorità al recupero economico, per cui le tematiche ambientali sono passate in secondo piano in favore dell’industrializzazione e urbanizzazione. Così è stato fino agli anni Settanta, quando le preoccupazioni riguardanti l’inquinamento dell’aria in relazione allo stato di salute dei cittadini hanno iniziato a diventare più prominenti, soprattutto come conseguenza degli scarichi chimici e inquinanti di molte industrie nell’ambiente. Emblematico è il caso di Minamata, in cui molti residenti dell’omonima città riportarono seri problemi di salute causati dal rilascio di scarti industriali nelle falde acquifere della zona. Il caso risale agli anni Trenta, ma fu solo un ventennio dopo che le autorità centrali riconobbero ufficialmente le responsabilità delle industrie coinvolte. Al tempo, il riconoscimento da parte del governo di problemi legati al binomio industrializzazione ed impatto ambientale avrebbe infatti minato il tanto agognato sviluppo economico. Fu proprio a seguito alle proteste delle vittime di Minamata e dei loro sostenitori che negli anni Settanta nacque l’Agenzia Ambientale giapponese, rendendo così possibile una maggiore copertura mediatica su temi che fino ad allora erano rimasti volutamente taciuti. Dagli anni Ottanta in poi il Giappone, votato da un marcato impeto all’internazionalizzazione, si è spinto ad una corsa per la firma di trattati e convenzioni internazionali specialmente per la tutela dei diritti umani, come la ratifica della Convezione sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione sulla donna del 1985, o della Convenzione internazionale dei diritti sull’infanzia del 1989. Difatti il Paese, forte del suo boom economico e desideroso di distinguersi dagli attori statali dell’area regionale asiatica – se non addirittura aspirante leader della stessa – con tali passi intendeva presentarsi come partecipante attivo nella plancia internazionale e capace di mostrare un livello di impegno e responsabilità pari a quello delle altre potenze industrializzate dell’ordine liberale. È perciò solo negli anni Novanta che il Giappone ha iniziato ad avere un ruolo più attivo anche nelle trattative internazionali per l’ambiente. Nel 1992, ha accettato l’Agenda 21, promossa in occasione della Conferenza delle Nazioni Unite sull’ambiente e lo sviluppo tenutasi a Rio de Janeiro. L’anno successivo è stata istituita in Giappone la Legge fondamentale sull’ambiente (1993), che menziona anche l’importanza della biodiversità e degli ambienti sani. Più tardi, nel 1995, il Primo ministro Sohei Miyashita ha ottenuto che la COP3, ovvero la Convezione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici, fosse ospitata dal Giappone e nel frattempo è stato ratificato il Primo Piano d’Azione del Paese, introducendone l’aspirazione di diventare una nazione ambientalista leader. Ospitare la COP3 significava anche ospitare la ratifica di quello che è diventato poi il protocollo di Kyoto, sebbene questo sia stato un processo molto doloroso, soprattutto perché l’obiettivo di riduzione delle emissioni si scontrava con i livelli di consumi ed emissioni delle industrie giapponesi e dunque con le ritrosie del settore privato.
Risale allo stesso periodo il raggiungimento del massimo numero di reattori nucleari operativi del Paese (per esattezza, 51 nel 1997), il quale aveva infatti nel frattempo iniziato, non senza critiche, a investire in questo tipo di energia. Nonostante i notevoli sviluppi del settore nucleare nel Sol Levante, la sua storia non si è sottratta a problematiche di natura politica e a preoccupazioni sulla messa in sicurezza dei reattori stessi, che hanno sempre reso quello del nucleare un tema controverso. A influenzare negativamente gli sforzi giapponesi verso l’abbandono del carbon fossile è indubbiamente stato il disastro dell’11 marzo 2011, quando a seguito di una forte scossa di terremoto e del conseguente tsunami si è registrato un incidente alla centrale nucleare Fukushima Daiichi. Questo evento ha sollevato un’altra questione molto delicata per il Giappone, per cui la scelta di investire sull’energia nucleare come soluzione alternativa al carbon fossile si è rivelata poco sicura e pubblicamente dibattuta, riaprendo vecchie ferite che legano il Paese ai rischi del nucleare. A seguito dell’incidente del 2011, tutte le centrali nucleari sono state chiuse (salvo per pochissime eccezioni a distanza di qualche anno), determinando una rinnovata dipendenza del Paese dal carbon fossile. Prima di allora, le centrali nucleari in Giappone provvedevano al 30% del fabbisogno energetico domestico, sceso drasticamente al 7,5% nel 2019, con un totale di 9 reattori attivi[2]. Inoltre, secondo gli ultimi rapporti sul Sol Levante dell’Agenzia internazionale per l’energia[3] (AIE, nel suo acronimo italofono), nel 2019 i combustibili fossili corrispondevano all’88% della fornitura di energia primaria, posizionando il Paese al sesto posto per le relative quote più elevate tra i Paesi aderenti all’AIE.
A conti fatti, nonostante la rincuorante spinta della nuova amministrazione verso il raggiungimento di mire ambientalmente sostenibili, il trascorso energetico del Paese e le sue attuali persistenti dipendenze dal carbon fossile danno adito a fondati dubbi sull’effettivo raggiungimento degli obiettivi preposti.
È quindi giunto il momento per il Giappone di prendere posizione verso il raggiungimento degli obiettivi prefissati nell’accordo di Parigi. Ad oggi, l’annuncio del Primo ministro Suga rimane un semplice intervento di natura politica, al quale non sono ancora stati aggiunti dettagli tecnici concreti su come il Paese intenda procedere per l’ottenimento dell’ambizioso risultato preposto. Ad alimentare la confusione a riguardo sarebbe il diffuso parere degli esperti per cui il raggiungimento di questi obiettivi sembra prevedere inevitabilmente la reintroduzione dell’energia nucleare. Nonostante Suga non abbia fatto diretta menzione di questo tipo di risorsa, le tecnologie alternative da lui proposte sembrano essere ad oggi non ancora disponibili. Tra queste figurano le tecnologie di cattura, stoccaggio e riutilizzo della CO2 (dall’inglese Carbon capture and storage) il cui numero di impianti operativi in tutto il globo può contarsi sul palmo della mano. Allo stesso modo, non vi è riferimento ad alcun piano di monitoraggio, elemento fondamentale per un’attendibile implementazione delle politiche ambientali ed ulteriore fattore alla base di molti dubbi su tali mire energetiche. Le specifiche della strategia da adottare per raggiungere la neutralità carbonica entro il 2050 restano dunque una responsabilità del comitato tecnico ministeriale. Indubbiamente, una rilevante riadozione del nucleare porrebbe una soluzione decisiva per il raggiungimento degli obiettivi nell’arco di tempo prefissato. Ciononostante, come sopracitato e come nuovamente sottolineato in occasione della conferenza stampa dei corrispondenti esteri in Giappone[4], fare affidamento sull’energia nucleare sembra essere fuori questione. Questo suscita ulteriore scetticismo in coloro che vedono il nucleare come unica possibile soluzione nel piano dell’emissioni zero entro il 2050.
La gran parte degli attori internazionali, tra cui la stessa AIE, premono dunque affinché il Giappone si concentri sull’accelerazione della messa in atto di piani energetici che possano fare affidamento su strumenti che siano effettivamente disponibili in data odierna, come l’adozione di tecnologie a basse emissioni di carbonio e soluzioni relative al settore delle risorse rinnovabili. In tale direzione sembrano difatti rivolgersi le proposte del Ministero del commercio nipponico, che invitano investimenti statali nel settore del rinnovabile per attrarvi attori ed industrie privati. I settori menzionati sono in particolare l’eolico, l’idrogeno, il settore automobilistico, del trasporto, delle compagnie aeree, agricolo, domestico e – in apparente opposizione con quanto asserito durante la conferenza con i delegati delle stampe estere – il settore dell’energia nucleare.
L’attuale situazione è quindi contraddistinta da un alto livello di scetticismo e numerosi dubbi legati all’effettiva attuabilità degli obiettivi preposti. La confusione generata da annunci e prese di posizione contradditori in occasione di comunicati stampa e presentazione dei report ministeriali – soprattutto sul tema del nucleare – contribuisce, inoltre, a rendere la situazione ancora poco chiara. Ad ogni modo, è doveroso riconoscere al Primo ministro Suga i meriti per aver avviato il Giappone, terza economia mondiale e quinta per livello di emissioni di anidride carbonica, verso un cambiamento di rotta. Se fino a pochi mesi addietro era una questione di “se” il Paese avrebbe mai intrapreso una strategia per ridurre le emissioni, ci si trova oggi ad attendere “come” e “quando” le parole si concretizzeranno in azione.
[1] Reuters, “Japan adopts long-term emissions strategy under Paris Agreement”, 11 giugno 2019.
[2] World Nuclear News, “Japan needs nuclear power, says energy minister: Nuclear Policies”, 03 febbraio 2021.
[3] Report consultabile online presso IEA – International Energy Agency.
[4] Conferenza stampa del The Foreign Correspondents’ Club of Japan del 1° marzo 2021.