Scritto da Gabriele Palomba
8 minuti di lettura
Questo contributo fa parte di un dibattito su temi sollevati dall’articolo che apre il numero 6/2019 della Rivista «il Mulino», dal titolo Perché la democrazia è in crisi? Socialisti e liberali per i tempi nuovi, scritto congiuntamente da Giuseppe Provenzano ed Emanuele Felice. Tra i temi sollevati nella discussione la parabola storica del liberalismo e il possibile incontro con il pensiero socialista, le cause delle disuguaglianze, il ruolo e l’apporto delle culture politiche ai cambiamenti storici, le chiavi per comprendere il cambiamento tecnologico, le forme della globalizzazione e la crisi ambientale. Per approfondire è possibile consultare l’introduzione del dibattito con l’indice dei contributi pubblicati finora.
La teorizzazione di un “incontro” fra il pensiero e la politica socialisti e il pensiero e la politica liberali non è certo nuova, anzi questo incontro ha già lasciato segni ben visibili nella Storia, come peraltro ben delineato da Provenzano e Felice nel loro articolo per «il Mulino». Segni che vanno dall’ingresso del movimento operaio socialista nelle istituzioni liberaldemocratiche sul finire dell’Ottocento (così come auspicato, fra gli altri, dal padre della socialdemocrazia tedesca Eduard Bernstein), alla conseguente universalizzazione di queste ultime all’inizio del Novecento, fino alla nascita dello Stato sociale nella seconda metà del secolo scorso.
D’altronde, in molti hanno visto il socialismo come la diretta evoluzione del liberalismo stesso, fra questi il filosofo italiano Galvano della Volpe, che scrisse che “il socialismo è da considerare, come non è dubbio, uno sviluppo del liberalismo”[1]. Proprio il nostro Paese ha dato i natali a uno dei più arditi e compiuti tentativi di fondere le due filosofie politiche in maniera organica, sviluppatosi attorno alla rivista «La Rivoluzione Liberale» di Pietro Gobetti, ma ancor più grazie all’opera di Carlo Rosselli. Se infatti Gobetti si può considerare un liberale che guardava con interesse al movimento operaio e che studiava da vicino il socialismo (notissimo il suo legame amicale e intellettuale con Gramsci), Rosselli si spinse più avanti, arrivando a mettere insieme le due parole nella elaborazione di un “socialismo liberale” (già citato, meglio di quanto si possa fare qui, da Pasquale Terracciano nell’ambito di questo dibattito). Anch’egli considerava l’uno la prosecuzione dell’altro: “Il socialismo non è che lo sviluppo logico, sino alle sue estreme conseguenze, del principio di libertà. Il socialismo, inteso nel suo significato più sostanziale e giudicato dai risultati – movimento cioè di concreta emancipazione del proletariato – è liberalismo in azione, è libertà che si fa per la povera gente”[2].
Per chi voglia ragionare sui “se” e sui “come” questo incontro possa essere continuato oggi, forse è bene soffermarsi prima su cosa significhino oggi le parole “liberalismo” e “socialismo”. Quest’ultima in particolare negli ultimi tre decenni è stata particolarmente svuotata di significato. Per rispondere allo stimolo lanciato da Giacomo Bottos nell’introduzione a questo dibattito, occorre procedere a una sua nuova fondazione, ma per farlo non si può che riannodare i fili spezzati delle tradizioni precedenti. Senza dubbio, il filone liberalsocialista è da tenere in grande considerazione nella ricostruzione di un pensiero e di una pratica socialista. Alcune delle “13 tesi” rosselliane sono di importanza capitale, nonché di incredibile attualità. In particolare, lo sono le ultime quattro:
Il socialismo, nel nuovo millennio e nel mondo globalizzato, non può che essere democratico nel senso più ampio della parola, popolare, concreto, innovativo e rinnovato, plurale.
Tuttavia, come noto, l’intento di Rosselli era anche quello di sancire il “divorzio” fra socialismo e pensiero marxista. Divorzio che, a giudizio di chi scrive, non è possibile né tantomeno auspicabile. Le fondamentali intuizioni di Marx sul funzionamento del sistema socio-politico-economico capitalista e sulla necessità di organizzare un movimento di massa qualora lo si voglia cambiare rimangono centrali e imprescindibili. Tenerle bene in conto è dunque necessario, anche se è altrettanto necessario leggere Marx oggi in maniera “laica”, tenendo conto del contesto storico e politico in cui scriveva e in cui ci troviamo noi oggi, come suggerito ad esempio da Stefano Petrucciani[4].
Infine, un altro grande contributo, forse il più grande, dovrebbe venire dal filone socialista democratico. Ciò anche sulla scorta di quanto accaduto oltreoceano, dove la candidatura di Bernie Sanders, socialista democratico dichiarato, alle primarie democratiche ha contribuito, nonostante l’esito negativo della prima esperienza e ormai probabilmente anche della seconda, ad affermare e diffondere nella culla del neoliberalismo idee che fino a pochissimi anni fa si pensava fossero praticamente proibite. Dopotutto è stato proprio questo filone che ha dato il contributo maggiore alla costruzione dello Stato sociale europeo nella seconda metà del XX secolo. Certamente, nel pantheon del nuovo socialismo italiano spetterebbe un posto in prima fila a Lelio Basso, fra i più importanti esponenti del socialismo democratico in Italia e principale ideatore dell’Articolo 3 della nostra Costituzione, la cui enorme rilevanza è giustamente rimarcata da Provenzano e Felice.
Dunque, se nuova sintesi deve essere, questa non può che essere che fra un socialismo rinnovato, riformista e democratico ma radicalmente intenzionato a cambiare il capitalismo, e un liberalismo “ripulito” dalle degenerazioni neoliberali e conscio delle sue radici umanistiche ed egualitarie così ben delineate nell’articolo di Provenzano e Felice. Soprattutto, entrambi devono essere ben consapevoli delle minacce che i problemi del capitalismo globale di oggi pongono alla democrazia e del fatto che, se davvero si tiene a quest’ultima, è necessario ripensarlo, questo capitalismo, se non addirittura superarlo.
Tuttavia, un nuovo compromesso fra socialismo e liberalismo non sarebbe all’altezza di una delle sfide più imponenti che ci troviamo di fronte, quella del cambiamento climatico, se non includesse anche una terza componente, quella del pensiero ecologista. Crisi climatica e questione ambientale sono forse un po’ a margine nell’articolo di Provenzano e Felice, anche se certamente non ignorate. Ma nell’ambito di un ripensamento della struttura economica e politica odierna, l’ecologismo può e deve occupare un ruolo di primo piano. Il contributo etico e politico del compianto Alexander Langer sembra a chi scrive fondamentale nel processo di costruzione di una nuova politica progressista e democratica. Certamente quest’ultima dovrebbe preoccuparsi di assicurare uno sviluppo economico solido ed equo, per trascinare via dalle secche della crisi perdurante da un decennio (e che le conseguenze della pandemia di COVID-19 non potranno che peggiorare) il mondo occidentale, ma perché non immaginare uno sviluppo “lentius, profundius, suavius”? La conversione ecologica dell’economia potrebbe infatti rappresentare una formidabile occasione di creazione di nuova ricchezza, di rilancio dell’occupazione e di innovazione tecnologica.
L’eredità di Langer sarebbe peraltro utile non solo in ambito ecologico, ma anche nell’ambito della cooperazione internazionale e nella gestione della crisi migratoria. Anche se il mondo post-coronavirus sarà molto probabilmente un mondo meno globalizzato ed interconnesso e forse anche meno soggetto a flussi migratori, almeno per qualche tempo, ed anche se l’emergenza ha portato alla ribalta gli Stati nazionali, la convivenza all’interno dei loro confini di culture e comunità diverse è ormai un fatto non reversibile. Il suo «Tentativo di decalogo per la convivenza inter-etnica», per quanto visionario ed utopistico possa essere, può fornire elementi importanti per la costruzione di una società più giusta e pacificata.
Come tradurre questo sforzo di ricostruzione in pratica, cioè in politiche concrete? La risposta non era facile già prima della pandemia e delle misure volte a contrastarla, che hanno chiuso in casa metà della popolazione mondiale, con ovvi ma incalcolabili effetti sull’economia globale, la società, la geopolitica. Il compito è quindi ancora più arduo adesso, in un momento in cui risulta molto difficile immaginare come sarà il mondo “dopo”. L’unica cosa che è quasi del tutto certa è che non ci sarà un ritorno alla “normalità”, per come la intendevamo fino a qualche mese fa, né forse tutto sommato è auspicabile che ci sia, visto che forse è stata proprio quella normalità a condurci a questo punto. Dunque, sarà necessario costruire una nuova normalità, ed è partendo da questo assunto che una politica di prospettiva democratica e socialista dovrà farsi atto concreto. D’altra parte, le grandi sfide (le disuguaglianze crescenti, il governo del cambiamento tecnologico, l’emergenza climatica ed ambientale) sono ancora tutte lì, anzi si può argomentare che il coronavirus sia stato un clamoroso e definitivo reality check, che ci ha sbattuto in faccia una volta per tutte l’enormità di queste sfide.
Le 15 proposte del Forum Disuguaglianze Diversità costituiscono un ottimo punto di riferimento non solo per quanto riguarda la riduzione delle disuguaglianze economiche, ma anche per contrastare i divari territoriali, per disegnare politiche efficaci nell’incentivare e nell’indirizzare lo sviluppo tecnologico e nell’affrontare l’emergenza climatica. Peraltro, il Forum e l’Alleanza Italiana per lo Sviluppo Sostenibile hanno anche prodotto delle proposte per affrontare le conseguenze più immediate e terribili del lockdown dal punto di vista economico.
L’emergenza ha portato alla ribalta, come si diceva, lo Stato a garanzia e protezione ultima della società. Soprattutto, sembra aver dimostrato l’ineluttabilità della produzione e fornitura statale di quelli che in gergo economico si definiscono public goods, che il mercato non è evidentemente in grado di assicurare nella quantità necessaria. Fra questi c’è appunto la sanità pubblica, protagonista di questo tragico periodo. Possiamo individuare qui un punto di partenza nel delineare delle politiche concrete: sviluppare i sistemi sanitari nazionali (per inciso, nel nostro Paese non è più rinviabile agire per rimediare agli effetti del decentramento sancito con la riforma del Titolo V) e ripristinare un livello adeguato di risorse a loro destinate, puntando al contempo a renderli reti capillari piuttosto che un insieme di cattedrali sparse nel deserto, magari sfruttando anche le nuove tecnologie. Questo permetterebbe non solo di combattere meglio questa pandemia e le prossime, ma anche di ridurre le disuguaglianze economiche (poiché la fornitura statale di beni e servizi pubblici è stato forse il principale mezzo con cui queste sono state contrastate nei “trenta gloriosi”), sociali e territoriali. Il ragionamento naturalmente è valido non solo per la sanità, ma anche per l’istruzione, la ricerca, la sicurezza e tutte le altre voci a cui solitamente è associato l’aggettivo “pubblico”.
Ciò presuppone in prima istanza una ridefinizione dei confini e dei ruoli di Stato e mercato. Il mercato non è santo né demoniaco, è un’istituzione come le altre, che può fare alcune cose risultando utile al progresso della società e non può fare altre cose. Affidarsi a questo in toto, come ben argomentato da Provenzano e Felice, non è solo ideologico ma anche controproducente. Secondo poi, implica chiaramente un’espansione del bilancio pubblico e quindi un ripensamento delle sue fonti di finanziamento. Va ristabilito il concetto di progressività nella tassazione dei redditi e va affrontato il discorso di una tassazione, sempre progressiva, della ricchezza, come chiedono ormai anche i più insospettabili.
Va inoltre inevitabilmente affrontato il capitolo Unione Europea. Capitolo che naturalmente è complesso ed enorme e che dunque sarà affrontato in questa sede solo per sommi capi. Un fronte progressista e democratico dovrebbe darsi possibilmente una dimensione europea, ma senza subalternità e senza rinunciare alla prospettiva di un conflitto, anche duro, col blocco ideologico dominante. All’ordine del giorno andrebbero posti con forza temi quali le politiche di investimento europee, meglio se finanziate da titoli comuni (augurandoci che l’operazione guidata da Italia, Spagna e Francia sui “Corona-bond” vada a buon fine), la necessità di rafforzare il pilastro sociale con un “nocciolo duro” di diritti e pratiche valide in tutta l’Unione e, soprattutto, la riforma dell’architettura economica, con l’archiviazione definitiva del Patto di Stabilità e Crescita e il consolidamento del ruolo della Bce. In merito a quest’ultimo punto, l’appello di 110 economisti italiani a Ue e Bce va più nello specifico di quanto si possa fare in questa sede.
Per finire, l’ultimo stimolo lanciato dal Direttore di «Pandora Rivista» riguarda le forze in campo e i blocchi sociali sui quali imperniare il cambiamento del sistema economico verso un equilibrio più sostenibile e inclusivo. Anche qui, come per le politiche concrete, l’incertezza che avvolge il futuro non aiuta. Forse, così come nel Dopoguerra, emergerà un nuovo consenso attorno alla necessità di una ricostruzione che sia al contempo l’occasione per cambiare il sistema. Già oggi ci sono alcuni segnali incoraggianti in questo senso, ma chiaramente nulla è scontato. Perché le cose vadano in questa direzione, è probabilmente necessario non solo proteggere ad ogni costo e il più possibile coloro che sono più esposti ai vari rischi che questa emergenza presenta, ma anche che essi stessi siano resi attori, con voce in capitolo, di questo nuovo consenso che costruirà il domani.
[1] G. Della Volpe, Opere, a cura di I. Ambrogio, Editori Riuniti, Roma, 1972-1973.
[2] C. Rosselli, Socialismo liberale, a cura di J. Rosselli, Einaudi, Torino, 1997.
[3] C. Rosselli, op. cit.
[4] Si vedano ad esempio S. Petrucciani, Marx, Carocci, Roma, 2009 e A lezione da Marx. Nuove interpretazioni, Manifestolibri, Roma, 2012.