Scritto da Francesca Bria
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Siamo ancora nel mezzo di un’emergenza globale, che rappresenta uno shock economico senza precedenti, ‘la peggiore recessione dalla Grande Depressione’ che ci ha costretti ad adattarci al volo, a pensare e ad agire in modo rapido e nuovo. Decenni di polarizzazione economica hanno aumentato le disuguaglianze e creato una precarietà diffusa, con moltissime persone che si trovano in una condizione di insicurezza debilitante. Rispetto a questa condizione di partenza il lockdown ha determinato un ulteriore e drammatico peggioramento. Molte persone considerano l’economia come un sistema al quale non sentono di appartenere, un sistema disegnato per favorire altri.
Il Covid-19 riconfigurerà la nostra società? Questa tragedia sarà anche un’opportunità irripetibile per Ricostruire delle economie migliori? La pandemia, che ha causato danni economici al tessuto di società già polarizzate, rende ancora più urgente un’azione politica radicale, che guardi al futuro. La crisi che stiamo vivendo crea l’opportunità di articolare una nuova direzione per la nostra società. Le crisi, siano esse guerre o pandemie, a volte possono alimentare l’immaginazione sociale. Nuovi accordi devono essere creati velocemente e le vecchie norme devono essere profondamente riviste. Più profonda è la crisi, più è probabile che le persone non chiedano un ritorno alla normalità, ma un salto verso qualcosa di diverso e migliore. I grandi cambiamenti da mettere in moto richiedono un disegno strategico-istituzionale per indirizzare la ripresa e gli investimenti verso le missioni di politica industriale da identificare chiaramente nel Recovery Plan europeo. Come sostengono vari analisti, una conseguenza della pandemia che possiamo prevedere con una certa sicurezza è una tendenza verso un ruolo maggiore dello Stato nell’economia in molti paesi. I governi di tutto il mondo hanno già messo in atto interventi inediti e ambiziosi per arrestare la pandemia e per fronteggiare le conseguenze economiche del lockdown. Anche la nuova fase che si è aperta, nella quale sarà necessario affrontare il danno economico molto profondo che la pandemia ha inferto alle nostre già fragili società, richiederà senza dubbio un’azione politica e un’agenda di trasformazione radicale. Ci vuole ambizione sia nel pubblico che nel privato, per prendere le grandi decisioni sul futuro, indirizzando gli investimenti verso progetti che trasformino la nostra economia, proiettandoci in un futuro digitale e carbon-neutral.
Al centro di queste grandi questioni che vanno affrontate per ridisegnare l’economia del futuro, si colloca con forza anche il bisogno di restaurare la sovranità tecnologica europea – e quindi anche italiana. Quest’ultima è, infatti, un fondamentale fattore di competitività globale e produttività nella rivoluzione industriale e digitale in cui siamo inseriti. Questa emergenza ha innescato una sorta di digitalizzazione ‘forzata’ di moltissimi aspetti della nostra vita quotidiana: dallo smart working all’educazione a distanza, all’uso di piattaforme digitali per food delivery. Le vendite online a maggio sono cresciute del 22% rispetto a un anno fa. Oggi ordiniamo generi alimentari e prodotti online più spesso di prima. Comunichiamo di più tramite le tecnologie digitali, come dimostra la crescita delle videoconferenze. Paghiamo più frequentemente con i nostri smartphone. Grazie ai servizi digitali i nostri figli possono studiare a distanza. Gli strumenti digitali e i dati hanno svolto un ruolo importante anche nella risposta sanitaria al Covid-19, dalla tracciabilità del virus con le app per il tracciamento dei contatti, all’uso dei dati dei sistemi sanitari regionali per monitorare il quadro clinico in maniera tempestiva e attendibile. I dati di mobilità provenienti dagli operatori telefonici possono servire per identificare i focolai e valutare l’impatto delle politiche di contenimento. Non solo: i dati demografici e occupazionali serviranno per programmare la ripresa, per studiare l’impatto ambientale e occupazionale.
Questa situazione ha reso ancora più evidente l’importanza della connettività e delle infrastrutture di Rete, che si sono rivelate essere infrastrutture critiche, da cui dipendono servizi essenziali alla società. L’accesso alla connettività è dunque da considerarsi un diritto fondamentale di tutti i cittadini. Completare i lavori per la banda ultralarga, accelerare nel dispiegamento di reti 5G più veloci e investire in infrastrutture di cloud computing e Intelligenza Artificiale, sono diventate improvvisamente priorità nazionali. Questa trasformazione in chiave digitale della società va resa strutturale, adattando le nostre istituzioni e strutture organizzative. Al tempo stesso, però, dobbiamo essere coscienti delle sfide politiche e sociali che questo comporta, comprendere l’impatto della digitalizzazione e divenire in grado di guidarla e governarla. È una questione centrale nell’agenda politica: non è sufficiente accelerare i processi di digitalizzazione, ma occorre anche e soprattutto dare loro una direzione, impiegando le tecnologie digitali come strumento per perseguire la sostenibilità sia sociale che ambientale.
Quale futuro digitale? La tecnologia al servizio delle persone
Una domanda che è fondamentale porsi è quella relativa alle strategie per restare competitivi in un sistema economico globale che fa della supremazia tecnologia uno degli asset fondamentali nella sfida per la competitività e la battaglia per l’egemonia geostrategica. Dalla corsa allo sviluppo e controllo del 5G al quantum computing, dalla progettazione dei chip e dei microprocessori di nuova generazione alla ricerca sull’Intelligenza Artificiale e al raggiungimento della sovranità sui dati: queste sono alcune delle questioni decisive che dobbiamo affrontare. La guerra per la supremazia digitale, che oggi si dà soprattutto fra USA e Cina, sta determinando un nuovo scenario anche per quanto riguarda le regole sulla concorrenza e i monopoli. Diventa cruciale la capacità dei governi di intervenire nell’economia, ad esempio controllando le acquisizioni da parte di imprese straniere e bloccando i takeover ostili. In mancanza di capacità di intervento di questo tipo a farne le spese sarebbero le nostre aziende strategiche – europee e italiane – indebolite dalla crisi. Quando parliamo di infrastrutture strategiche come il 5G il discorso riguarda ovviamente non solo la competitività economica e il benessere, ma anche la sicurezza nazionale, in quanto queste infrastrutture rappresentano anche la base per lo sviluppo di altri settori strategici, come la mobilità, la sanità, l’istruzione, lo spazio e così via. Questa è la ragione per cui il 5G è al centro della competizione globale fra l’Amministrazione Trump e il gigante tecnologico cinese Huawei, il maggior venditore al mondo di apparecchiature per le telecomunicazioni. Alcune società statunitensi considerano favorevolmente una legge recentemente approvata che ordina ai fornitori americani di rimuovere apparecchiature Huawei giudicate un pericolo per la sicurezza nazionale. Questo provvedimento potrebbe generare più di 1 miliardo di dollari di vendite potenziali da parte degli operatori locali. I fornitori statunitensi sono ancora troppo piccoli per competere con Huawei. Per questo i grandi operatori wireless che vogliano evitare l’acquisto di apparecchiature cinesi devono rivolgersi a tre fornitori internazionali: Ericsson, Nokia e Samsung. Ciò sta spingendo l’amministrazione USA a valutare tutti gli scenari possibili, tra cui l’acquisizione delle imprese europee Ericsson e Nokia. Ciò mostra il punto fino al quale gli Stati Uniti sono disposti a spingersi nella loro lotta con la Cina per la fornitura di tecnologie avanzate su scala globale. La strategia americana è una risposta alla visione geostrategica cinese One Belt, One Road, che serve gli interessi di Pechino attraverso investimenti infrastrutturali in tutto il mondo.
C’è il timore, anche in Europa, che l’attuale dinamica di innovazione e la concentrazione dei mercati digitali possa mettere in serio pericolo la posizione dell’industria europea in alcuni settori. A preoccupare è soprattutto la concorrenza dei Big Tech ‘GAFAM’ USA (Google, Amazon, Facebook, Apple e Microsoft) e dei ‘BAT’ cinesi (Baidu, Alibaba e Tencent). In questa crisi tali player stanno acquisendo potenziali rivali e sono in grado di gestire l’agenda digitale globale. Anche per le grandi aziende GAFAM e BAT la pandemia virale è uno shock – solo che, diversamente da quanto avviene per tutti noi, rappresenta per loro uno shock positivo. Mentre per buona parte degli altri settori la pandemia è fonte di perdite e rallentamento, le grandi aziende tecnologiche stanno persino accelerando gli investimenti e le acquisizioni, ammassando enormi risorse finanziarie. Si è assistito ad un aumento del valore delle loro azioni di oltre il 20%. Amazon ha aggiunto 400 miliardi di dollari di capitalizzazione borsistica e le società GAFAM hanno raggiunto riserve di liquidità di circa 560 miliardi di dollari, equivalenti al prodotto interno lordo della Svezia. I grandi player digitali hanno raggiunto una quotazione di borsa complessiva di 6 trilioni di dollari: una concentrazione di potere e ricchezza unici nella storia recente. In questo contesto l’Europa viene a trovarsi in una situazione di dipendenza economica, avendo perso la sua sovranità tecnologica. La maggior parte delle infrastrutture nazionali critiche hardware e software sono costruite al di fuori dell’UE. Le aziende che gestiscono data center, cloud e grandi flussi di dati hanno sede fuori dall’Unione. Poiché politica e tecnologia sono profondamente intrecciate, ciò potrebbe aggravare le asimmetrie esistenti nel potere globale.
C’è dunque bisogno di leggi efficaci su concorrenza e antitrust, sia per domare lo strapotere dei monopoli digitali e l’enorme concentrazione di mercato, che per modificare le regole del commercio internazionale, in modo da essere in grado di bloccare acquisizioni e takeover ostili da parte di imprese straniere in settori strategici. Si teme che società non europee – in particolare le imprese cinesi sostenute dallo Stato – possano fare acquisti in Germania e in Europa e influire sulla concorrenza. In Francia e Germania lo Stato sta proponendo di intervenire massicciamente nell’economia per proteggere le aziende strategiche nazionali, con leggi antitrust più permissive, partecipazioni azionarie del governo e regole per controllare o bloccare alcune acquisizioni estere. La Commissaria Vestager ha presentato un cosiddetto Libro bianco, il White Paper on foreign subsidies in the Single Market, che dovrebbe poi tradursi in un progetto di legge. Si prevede che i gruppi stranieri intenzionati ad acquisire più del 35% di una società dell’UE con un fatturato superiore ai 100 milioni di euro abbiano l’obbligo di informare la Commissione, nel caso abbiano ricevuto più di dieci milioni di euro in aiuti pubblici negli ultimi tre anni. Anche il nuovo Foreign Trade Act tedesco va in quella direzione. In Germania, al di là alle restrizioni agli investimenti stranieri in infrastrutture critiche, tra cui energia e telecomunicazioni, presenti da lungo tempo, la nuova proposta di legge amplia lo spettro delle operazioni che richiedono l’approvazione da parte dello Stato, includendo in quest’ambito diverse tecnologie critiche, tra cui robotica, biotecnologia, supercomputing e quantum computing. Gli investitori non UE che desiderano acquistare almeno il 10% di una società tedesca di qualsiasi dimensione in queste categorie, dovranno attendere due mesi per sapere se dispongono dell’autorizzazione.
È chiaro inoltre che per regolare i colossi tecnologici è anche necessario introdurre un nuovo sistema di tassazione digitale, che faccia sì che le grandi imprese paghino le tasse, impedendo il ricorso al dumping fiscale e al profit shifting nei paradisi fiscali. Una proposta attualmente in discussione in ambito OCSE riguarda la possibilità di istituire tasse speciali per le società digitali e una tassa minima per le imprese, al fine di porre un freno alla competizione fiscale verso il basso tra i paesi, che mirano ad attrarre le aziende con condizioni di favore. A questo riguardo, l’Europa ha fortemente criticato la provocazione degli Stati Uniti che, in una lettera inviata dal Segretario al Tesoro statunitense Steven Mnuchin, hanno annunciato la loro volontà di ‘non continuare’ i negoziati a livello dell’OCSE. L’Europa ha quindi comunicato di rimanere impegnata a trovare un accordo a questo livello, ma se ciò si rivelasse impossibile presenterà una nuova proposta a livello dell’UE. Questa tassa digitale genererebbe risorse da investire nel piano Next Generation EU, in scuola e sanità, e nella modernizzazione delle infrastrutture, in grado di rendere più verde la nostra economia. Bisogna poi agire coraggiosamente per anticipare i profondi cambiamenti nel mercato del lavoro e applicare in maniera più rigorosa le leggi sul lavoro anche nell’ambito della gig economy, per fermare la crescente precarizzazione dei lavoratori delle piattaforme e lo spostamento di posti di lavoro ben pagati a causa dell’automazione industriale e dell’intelligenza artificiale che portano maggiore efficienza e rendimenti più elevati. È chiaro che la ricchezza generata in questo scenario economico mutato dovrà essere catturata e condivisa in modi nuovi.
Una nuova strategia industriale pan-europea che abbia al centro digitale e innovazione nell’interesse pubblico: un ‘New Deal verde e digitale’
L’Europa ha già un importante ruolo da regolatore o arbitro dei colossi del digitale: li scrutina, li ha multati, li ha regolamentati e ora sta cercando di tassarli, ma ciò non basta più. Occorre fare un ulteriore passo avanti oltre la regolazione e creare le basi per sviluppare urgentemente una propria industria digitale, con forti investimenti sia pubblici che privati. C’è bisogno di una proattiva e strategica politica industriale per creare un sistema tecnologico europeo. Nei prossimi anni, innovare significherà sviluppare tecnologia di frontiera come la robotica, i semiconduttori e il quantum computing e usare la tecnologia per far fronte alle esigenze di base della società, come l’assistenza sanitaria, l’alimentazione, l’educazione e la finanza. L’Europa è ben posizionata per scommettere su questo futuro. È dunque necessario un progetto coordinato di nuova strategia industriale, a livello nazionale ed Europeo e piani di investimento e rilancio coordinati e basati sui tre grandi obiettivi della digitalizzazione, Green Deal, e giustizia sociale, come previsto dal Next Generation EU. Possiamo dire che si tratta di plasmare un nuovo patto nella società digitale, che includa una visione industriale, sociale e democratica: un ‘New Deal verde e digitale’, che coniuga una transizione verde, ecologica e sostenibile con una transizione digitale che sia anch’essa sostenibile e democratica.
In particolare per quanto riguarda le infrastrutture critiche digitali, c’è bisogno di allineare tanti investimenti, risorse e competenze. Si tratta di sfide importanti, che vanno coordinate con ambizione e con una strategia e investimenti pan-europei. Occorre tradurre l’ambizione alla base dell’idea di una trasformazione verde e digitale in una strategia operativa. Passare, cioè, dalla progettualità all’esecuzione, includendo nei contratti con le imprese nuove condizionalità green e legate alla corporate governance negli investimenti e nei piani di salvataggio, garantendo che gli investimenti siano orientati al raggiungimento degli obiettivi strategici del Next Generation EU. Usare la contrattazione pubblica e gli appalti come strumento strategico per stimolare la domanda di innovazione mission-oriented, potrebbe essere una leva per creare alternative a livello nazionale ed europeo. In un secondo momento queste alternative possono essere consolidate attraverso lo standard-setting a livello internazionale, per mantenere la sovranità sui dati e favorendo le imprese e le startup europee, che devono essere rese più competitive. Tutto ciò è in linea con dei piani di recupero verdi, dove gli investimenti pubblici stanno confluendo nei veicoli elettrici, nelle energie rinnovabili, nelle batterie elettriche e nella ricerca sulla tecnologia della mobilità ad idrogeno, anche nel cloud computing con il progetto franco tedesco GaiaX.
GaiaX è la scommessa europea di giocare un ruolo nella gestione delle infrastrutture cloud, oggi dominate dai giganti statunitensi e cinesi, a partire da un punto di vista europeo, affrontando anche i potenziali conflitti tra le leggi sulla privacy dell’UE e il Cloud Act americano, che consente agli Stati Uniti di creare accordi internazionali con altri paesi in modo che nelle indagini penali le forze dell’ordine di entrambe le parti possano ottenere l’accesso ai dati archiviati nell’altro Paese. GaiaX ha appena creato un’associazione senza scopo di lucro basata in Belgio, la GAIX-X Foundation, che garantirebbe alle aziende associate il rispetto dei suoi obiettivi di sovranità dei dati, interoperabilità, portabilità, trasparenza e equa partecipazione. È un primo passo importante verso una politica tecnologica sovrana europea, che punta a recuperare la sovranità sui dati.
Un campo di battaglia chiave quando si parla di infrastrutture è il controllo sui dati, che sono la materia grezza dell’economia digitale, da cui dipende lo sviluppo dell’intelligenza artificiale. Il cuore del modello di business delle piattaforme digitale è l’estrazione e la monetizzazione dei dati personali. Finora l’Europa ha investito troppo poco nel creare delle alternative proprie nella gestione delle infrastrutture digitali, e il settore pubblico, con poche eccezioni, non ha articolato una vera strategia. In generale, abbiamo bisogno di maggiori investimenti in infrastrutture sicure per un utilizzo di dati anonimi gestiti in maniera decentralizzata, etica e democratica. Un uso intelligente dei dati è di grande interesse pubblico. Ma per riprenderne un controllo democratico, saranno necessarie regole forti per prevenire abusi di potere dovuti al consolidamento dei monopoli e la creazione di nuovi modelli di governance o anche nuove istituzioni come i data trust che possono essere le fondamenta del nuovo European data space proposto dalla Commissione europea nella strategia sui dati: ovvero un nuovo patto sui dati per ripensarne il modello di controllo e proprietà, riconoscendo la sovranità digitale dei cittadini, il valore pubblico dei dati, e dunque la redistribuzione della ricchezza prodotta. Abbiamo anche tecnologie emergenti decentralizzate come la blockchain e protocolli crittografici in cui l’Europa eccelle e su cui scommettere, che permettono di coniugare innovazione e sovranità sui dati per i cittadini, per le città e per le imprese.
In questa transizione digitale bisogna inoltre dare importanza centrale alle questioni relative alle libertà civili, la privacy individuale e il funzionamento stesso delle nostre democrazie, troppo spesso in balìa di giganti tecnologici che usano i nostri dati e le informazioni personali come merce di scambio per consolidare la loro posizione dominante. Le fondamenta della democrazia e dello spazio pubblico sono minate alla radice da una nuova forma di potere algoritmico che sta gradualmente sostituendo la sfera pubblica habermasiana, gestito dai grossi colossi del digitale che si sono arricchiti con i nostri dati. Il disagio è emerso chiaramente con la crescita esponenziale di fake news, hate speech e attacchi razzisti online, con una polemica messa in luce dal movimento Black Lives Matter, che ha portato al boycott e alla perdita di dollari pubblicitari da grandi aziende preoccupate di essere associate ai contenuti infiammatori pubblicati su queste piattaforme. La crescita di questo nuovo potere sta anche generando una nuova oligarchia, una classe di miliardari alla Bezos e Zuckerberg che si sono estremamente arricchiti dalla crisi in corso, ma che non sono in grado di gestire la responsabilità che ne deriva. Questo ha profonde implicazioni per il modo in cui i cittadini si relazionano tra loro e con lo Stato, inclusa la paura esistenziale – di manipolazione, sovraccarico di informazioni, inautenticità – creata dalle esternalità dei giganti digitali. Una forma di inquinamento delle informazioni che rischia di portare i cittadini a cercare l’uomo forte alla Trump o alla Bolsonaro, e alla crescita di populismi e nazionalismi, che si alimentano manipolando la rabbia sociale.
Solo mettendo in campo una visione e delle politiche ambiziose sul breve e lungo periodo saremo capaci di rompere la logica binaria che ci presenta sempre e solo due futuri scenari per il digitale: il primo è quello del Big State, il modello cinese top-down e più orwelliano, che, seppur efficace, potrebbe limitare fortemente i nostri diritti costituzionali. Un altro è quello che Shoshanna Zuboff, professoressa della Harvard Business School, chiama il capitalismo della sorveglianza, che ripone maggiore fiducia nei Big Tech. Anche questo potrebbe funzionare, ma a lungo termine avrà anche dubbi effetti sulla nostra società. Queste non sono le uniche opzioni. C’è anche una terza via, quella della Big Democracy, un modello di democrazia sui dati da parte dei cittadini e di tecnologia al servizio della società. Questo può essere il modello di sovranità tecnologica europeo, che significa un nuovo umanesimo digitale.
Per concludere, il dibattito sulla giusta risposta politica e tecnologica a Covid-19 è solo un aspetto del più ampio dilemma che le società democratiche devono affrontare: come amplificare la voce dei cittadini nella vita politica in cui sono inseriti, senza frenare l’innovazione digitale e arrestando le tentazioni del populismo. L’Europa dovrebbe cogliere questo momento e dimostrare che si può essere innovativi, introducendo importanti tecnologie da cui dipende il futuro della nostra società ed economia e, al tempo stesso, farlo diversamente, proponendo una visione digitale economicamente, socialmente e politicamente positiva. Tutti i paesi stanno iniziando a considerare come la vita del dopo Covid-19 potrebbe essere diversa. Si sente la necessità di tracciare possibili futuri: nuovi diritti, nuove forme di protezione sociale, nuovi modi di gestire l’economia e la digitalizzazione, di risolvere i problemi del cambiamento climatico. Le conseguenze economiche del Covid-19 potrebbero stimolare un cambiamento radicale? E, in caso affermativo, come trasformarlo in una forza per il bene comune?
Quello che va determinato a partire da un campo progressista, ecologista e democratico è per cosa – e per chi – verranno mobilizzate le risorse pubbliche e private per costruire lo scenario post-Covid-19 e come verrà indirizzato il rinvigorito ruolo dello Stato nella fase della ripresa. Non dovremmo avere dubbi: dobbiamo mettere in moto una rivoluzione tecnologica al servizio della transizione ecologica, rendendo la tecnologia un diritto e un’opportunità per molti e non un privilegio per pochi. La crisi ha costretto a mettere in campo azioni che erano appena immaginabili sei mesi fa. Possiamo usare la crisi per ripensare i sistemi che non sono più adatti allo scopo e scartare le ortodossie superate che non hanno più nulla di utile da dire. E possiamo dar forza a politiche pubbliche e progetti lungimiranti che combinino rigore, esecuzione e immaginazione. La sfida democratica sarà quindi centrale in questa fase: l’individuazione di missioni strategiche e trasformative per il futuro, non è solo un esercizio tecnocratico top-down. Bisogna mobilitare i cittadini e suscitare l’adesione di tutta la società verso questi obiettivi.