Scritto da Giulio Pignatti
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Il mondo dell’informazione è da tempo interessato da dinamiche che portano a una riduzione della qualità del confronto, a un aumento della polarizzazione e alla difficoltà di impostare un dibattito adeguato alla complessità delle questioni in gioco a livello globale. In questo quadro la pandemia e poi la guerra hanno aperto questioni ulteriori. In questa intervista, partendo dalle tesi di Punto. Fermiamo il declino dell’informazione, uscito nel 2017, Paolo Pagliaro – giornalista, voce, all’interno del programma Otto e mezzo di La7, dell’appuntamento quotidiano chiamato Il Punto nonché Direttore dell’agenzia giornalistica 9Colonne – riflette su questi nodi aggiornando la riflessione a partire da una realtà che non cessa di porre nuove sfide al mondo del giornalismo.
Si parla spesso della pandemia come acceleratore di contraddizioni e crisi già presenti anteriormente; quindi, innanzitutto: pensa che il “declino dell’informazione” si sia inasprito nell’ultimo anno oppure è più ottimista?
Paolo Pagliaro: L’ottimismo sarebbe fuori luogo, visto che l’Organizzazione Mondiale della Sanità ma anche il nostro Ministero della Salute hanno varato specifiche iniziative per mettere i cittadini al riparo dalle fake news in materia di Covid-19. Le fake news sono state giudicate pericolose come il virus! E in effetti, soprattutto in tema di vaccini circola un tale quantità di sciocchezze (tutte catalogate nella pagina web “Attenti alle bufale” nel sito del Ministero), da rendere improbabile che l’adesione alla campagna vaccinale sia così massiccia da farci tagliare il traguardo dell’immunità di gregge. Per quanto riguarda la diffusione di “fatti alternativi”, cioè di fake news, questa volta in materia sanitaria, direi dunque che c’è continuità con il passato. Ma essendoci in ballo la vita delle persone è chiaro che la post-verità ora è molto più pericolosa che ai tempi della Brexit.
Nei primi mesi della crisi pandemica si è parlato anche di una “infodemia”. C’era senza dubbio più richiesta d’informazione, per comprendere cosa stesse succedendo, e c’è chi ha sottolineato con soddisfazione un aumento nel consumo di cultura scientifica. Allo stesso tempo, anche oggi c’è chi accusa i giornalisti di “marciare” sulla crisi (sanitaria, economica, sociale, ecc.), se non direttamente di disinformazione su alcuni nodi sensibili – ad esempio la questione dell’affidabilità del vaccino AstraZeneca. Secondo lei, quella dell’“infodemia” è (oppure è stata) una realtà effettiva?
Paolo Pagliaro: Per quanto riguarda la cosiddetta infodemia, occorre prendere atto che il termine è entrato in circolo dopo che in alcuni documenti ufficiali l’OMS ha definito «infodemic» quella «sovrabbondanza di informazioni – alcune accurate, altre no – che rendono difficile per le persone trovare, quando ne hanno bisogno, fonti affidabili e una guida sicura». La Treccani cita Leonardo Becchetti secondo il quale con il neologismo si voleva segnalare che «forse il maggiore pericolo nell’era dei social media è la deformazione della realtà nel rimbombo degli echi e dei commenti della comunità globale su fatti reali o spesso inventati». Chiarissimo. Tuttavia, se questo è l’infodemia, si tratta di un rischio che vale la pena di correre. Mi chiedo se nei mesi di emergenza e di lutti che abbiamo alle spalle, sarebbe stato immaginabile o preferibile, parlando del coronavirus, un’attenzione meno spasmodica o un tono più soft o qualche informazione in meno. No. Non sarebbe stato immaginabile e nemmeno giusto. Di fronte alla strage degli anziani e dei più fragili, la società nel suo complesso – media compresi – ha reagito con emozione, passione, intelligenza. Forse non con misura, ma si tratta di un peccato veniale. Medici, ricercatori ed esperti hanno discusso pubblicamente, talvolta si sono contraddetti, qualcuno ha cambiato idea cammin facendo, qualcun altro ha ceduto alla tentazione del protagonismo mediatico, ma quasi tutti ci hanno trasmesso informazioni utili e ci hanno aiutato a comprendere le ragioni di decisioni politiche ruvide e impopolari come il lockdown. Quanto alle polemiche sul vaccino AstraZeneca e sulla sua affidabilità (polemiche sciagurate), esse non sono state innescate dai giornali ma dalle autorità sanitarie di numerosi Paesi e dagli atteggiamenti ambigui dell’EMA e della stessa OMS.
Sempre in merito alla domanda precedente, qual è il confine tra voler dare una notizia il prima possibile (anche per questioni di “precedenza” sugli altri canali d’informazione) e il pubblicare anche contenuti non verificati oppure declinati in maniera troppo semplicistica? Nel suo libro lei attribuiva alla rete un effetto di disintermediazione, sia tra leader politico e popolo, sia soprattutto tra giornalisti e pubblico. È possibile uno slow journalism, che vagli ed elabori con la dovuta calma le fonti, al tempo d’oggi – al tempo cioè dell’economia dell’attenzione?
Paolo Pagliaro: Certo che è possibile, basta guardarsi intorno. Si trova giornalismo di alta qualità sia nelle edicole sia nella rete. Io ho selezionato una cinquantina di link che consulto ogni giorno per il mio lavoro: sono webzine di economia, scienza, cultura, notiziari specializzati, riviste di settore. Lanciano temi e propongono notizie di cui purtroppo non si troverà traccia nelle rassegne stampa televisive del mattino. Non si tratta di “controinformazione”, come si sarebbe detto una volta, ma di saperi declinati in formato giornalistico. Ci dicono molto dell’Italia in cui viviamo testate come: Key4biz, Wired, Corcom, Scienza in rete, Galileo, Quotidiano Sanità, Euractiv, Roars, lavoce, Neodemos, Valigiablu, Pagella politica e le molte altre che qui è impossibile elencare. L’economia dell’attenzione misura i nostri riflessi commerciali. Ma ci sono consumi immateriali e bisogni che le sfuggono. Non siamo morti democristiani e non moriremo disintermediati: qualcuno di cui ci fidiamo ci servirà sempre.
Qual è la situazione negli altri Paesi? Pensa che fenomeni come quello tratteggiato siano propri in particolar modo della realtà italiana o comuni a tutti?
Paolo Pagliaro: Per quel che so – e so solo quello che leggo – in Europa e negli Stati Uniti c’è più attenzione per le conseguenze della trasformazione digitale. La questione non è solo la disintermediazione o il fenomeno delle fake news ad essa collegato. Ci si preoccupa molto anche del ruolo dell’intelligenza artificiale, dell’invadenza degli algoritmi. In Italia questo tema è trascurato. Ci sono eccezioni, come gli interventi e i libri di Michele Mezza e pochi altri. Ma nella discussione pubblica non emerge il tema del potere manipolatorio delle grandi piattaforme di Internet. Solleviamo la questione della privacy quando forse dovremmo accettare qualche piccola limitazione, come nel caso della app per il tracciamento anti-covid. E non ci accorgiamo che viviamo 24 ore al giorno in un regime di libertà vigilata, intercettati giorno e notte dagli aggeggi da cui non ci sappiamo separare.
Un altro evento che ha segnato il 2021 è stato quello dell’assalto a Capitol Hill. Tra le diverse cause che hanno portato a quelle immagini così inquietanti, un fenomeno rilevante è quello delle cosiddette echo chambers. Una parte della popolazione statunitense, prevalentemente tra gli elettori di Trump, si forma e informa solamente all’interno di “bolle” in cui rimbombano tesi complottiste spesso totalmente slegate dalla realtà, le quali però – qui la novità – iniziano ad avere un impatto sul mondo (come tutta la parabola trumpiana, fino al suo culmine, dimostra). Che tipo di giornalismo può essere in grado di “bucare” tali bolle?
Paolo Pagliaro: Ormai nel mondo dei new media, dei social, della rete (e nel linguaggio pubblico) verità e falsità finiscono spesso con l’elidersi. Trionfano opinioni granitiche, impermeabili a qualsiasi notizia che possa smentirle o metterle in discussione. Sentiamo solo ciò che vogliamo sentire, vediamo solo ciò che vogliamo vedere. Hanno gande diffusione i cosiddetti fatti alternativi, che sembrano più accettabili delle fake news ma sono naturalmente la stessa cosa. Per difendersi non c’è probabilmente un’arma decisiva. Ci sono invece correttivi, argini, antidoti che chiamano in causa tanti attori diversi: l’industria dei media tradizionali e l’industria tecnologica, il mondo della pubblicità, i giornalisti, il governo, il parlamento, la scuola e l’università, i singoli cittadini anche nella loro veste di consumatori dell’informazione. Ci sono cose concrete che si potrebbero fare, chiedendo a tutti di impegnarsi nell’ambito delle proprie capacità, competenze e responsabilità. Ho provato a elencarle in un libro del 2020 (La passione per la verità. Come contrastare fake news e manipolazioni e costruire un sapere inclusivo) curato da Laura Nota per Franco Angeli. Bucare le cosiddette echo chambers non è in ogni caso un compito che può essere delegato solo al giornalismo.
Se l’obiettivo del giornalismo potrebbe essere rinvenuto nella creazione di una sfera pubblica, che funzioni a partire da una condivisa conoscenza dei fatti e dei processi in corso, sempre più l’acquisto e la lettura di giornali – ma anche la fruizione di programmi televisivi giornalistici – sembra essere appannaggio di una “élite”, che si può permettere una adeguata informazione (sia a livello di costi, che di tempi, che di capacità di comprensione ed elaborazione). Pensa che questa scissione tra una informazione di massa – lasciata alla rete e a forme non mediate, quindi spesso false, tendenziose, ideologiche, volte al solo profitto, etc. – e un’informazione di qualità sia inevitabile?
Paolo Pagliaro: Sì, penso che la scissione tra i due mercati sia inevitabile, ma non penso che sia una novità e che il discrimine sia la rete. Saranno decisivi potere d’acquisto, istruzione, abitudini familiari. Ma fatico a vedere le élite davanti alle edicole e il popolo davanti al computer o incollato allo smartphone. La dipendenza da social è un fenomeno decisamente interclassista, soddisfa il generale narcisismo. Alla fine – anche nei mitici social – tutti parlano di quello che hanno visto la sera prima in tv. I più colti, di quello che hanno sentito la mattina alla radio. Si può sperare che le cose cambino e ci si può dar da fare perché cambino. Un sondaggio Gallup per la Knight Foundation ci dice che il 75% degli americani ora è convinta che su Internet la disinformazione sia più diffusa della verità e ci dice anche che la quota di chi ha fiducia nelle piattaforme tecnologiche (Amazon, Facebook, Google) è scesa in cinque anni dal 60 al 40 per cento. Dice Gallup che potrebbero rivelarsi necessarie nuove forme di mediazione dell’informazione. Per il giornalismo, dunque, la strada è impervia, ma non è sbarrata.
In generale, quale pensa che sia il principale impatto della rete sulle forme più tradizionali di giornalismo, carta stampata e televisione innanzitutto?
Paolo Pagliaro: Per chi sa usare la rete, il principale impatto è stato l’arricchimento delle proprie fonti. Per chi non ha gli strumenti adatti, è aumentata invece la subalternità a scelte fatte da altri.
Di nuove forme di giornalismo, che riescono a sfruttare in maniera virtuosa le potenzialità della rete, ne esistono sicuramente. Non pensa tuttavia che talvolta possano mancare dell’expertise più tradizionale del giornalismo? Cioè che, ad esempio, si concentrino molto di più sulle opinioni rispetto alla cronaca e all’inchiesta, che dovrebbero essere gli elementi fondamentali? Anche questo forse crea una “elitizzazione” dell’informazione. C’è ancora bisogno di “saper raccontare” i fatti nell’epoca dell’iperconnessione, dove tutti sanno tutto pochi istanti dopo che è successo?
Paolo Pagliaro: Ce n’è bisogno più che mai. L’informazione disintermediata e parcellizzata è come uno specchio andato in frantumi. Ogni frammento ci restituisce un pezzo di realtà, ma la figura intera è andata perduta. Collegare i fatti, dare un senso a ciò che accade e saperlo raccontare è decisivo, sta nel DNA del nostro mestiere.
In queste trasformazioni strutturali, come cambia la figura del giornalista? Mentre chiunque si può porre, grazie a social network, siti web, ecc., come produttore di contenuti e di notizie, il ruolo del giornalista professionista pare perdere molta della sua autorevolezza – anche a causa delle bordate populiste e “anti-casta”. L’idea del giornalista come punto di riferimento affidabile, e spesso come vero e proprio intellettuale, è destinata a scomparire?
Paolo Pagliaro: Se un ragazzo mi chiedesse che lavoro ho fatto da quando avevo 20 anni, gli direi che ho selezionato fatti che meritavano di diventare notizie. Per questo mi hanno pagato e si ostinano a pagarmi. Qui sta, a mio parere, l’essenza del giornalismo, non solo del giornalismo tranquillo delle superiori gerarchie redazionali e dei desk, che si occupa di compilare prime pagine o scalette dei telegiornali, ma anche del giornalismo più impegnato in prima linea, quello che racconta i fatti che vede accadere, che propone esperienze di prima mano e non per sentito dire. La parola chiave è dunque selezione. Ad essa se ne affianca un’altra, la sua gemella, che si chiama responsabilità (ed è l’esercizio che si richiede a un professionista; mentre non è richiesto al produttore dell’informazione digitale “disintermediata”, che infatti gode di varie forme di irresponsabilità, che vanno dall’anonimato all’impunità penale). Un altro requisito è la competenza. Spesso è utile la specializzazione. È decisiva l’adesione a un codice morale, che non ha bisogno di essere messo nero su bianco. Se tutto questo sia un impegno intellettuale non lo so. Forse sì.
In questo quadro, che effetto hanno le vicende editoriali dei grandi giornali italiani, che hanno sfumato e talvolta confuso le identità e i collocamenti tradizionali?
Paolo Pagliaro: In effetti c’è un generale spariglio. Quand’ero ragazzo, nel secolo scorso, c’era una sovrabbondanza di giornali di sinistra, oggi ne è rimasto uno solo mentre si son moltiplicati i giornali di destra. Chi è cresciuto con Repubblica fatica a riconoscersi nel suo nuovo corso. Molti quotidiani hanno poche migliaia di lettori e si ha l’impressione che vengano confezionati solo per poter apparire nelle rassegne stampa tv. In alcuni casi credo sia proprio così. Sullo sfondo c’è naturalmente la situazione catastrofica dell’industria dei giornali, che ha perso i due terzi del suo pubblico e una quota analoga della pubblicità. Ne usciremo? Credo di sì. Senza eccessivi investimenti ma con idee (e passioni) robuste.