Scritto da Emilio Caja, Andrea Noseda, Pietro Savastio
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Questo contributo fa parte di un dibattito su temi sollevati dall’articolo che apre il numero 6/2019 della Rivista «il Mulino», dal titolo Perché la democrazia è in crisi? Socialisti e liberali per i tempi nuovi, scritto congiuntamente da Giuseppe Provenzano ed Emanuele Felice. Tra i temi sollevati nella discussione la parabola storica del liberalismo e il possibile incontro con il pensiero socialista, le cause delle disuguaglianze, il ruolo e l’apporto delle culture politiche ai cambiamenti storici, le chiavi per comprendere il cambiamento tecnologico, le forme della globalizzazione e la crisi ambientale. Per approfondire è possibile consultare l’introduzione del dibattito con l’indice dei contributi pubblicati finora.
Il testo di Felice e Provenzano apparso sulla Rivista «il Mulino» n. 6/2019 ha suscitato su queste pagine un acceso dibattito sul rapporto tra liberalismo e socialismo. I temi che vengono sollevati hanno un’importanza capitale in questa fase storica perché riflettono alcune posizioni che stanno emergendo in seno all’area socialdemocratica europea. Negli scorsi anni i partiti di centro-sinistra hanno vissuto una profonda crisi di consenso elettorale che ha messo in moto un ripensamento delle scelte politiche precedentemente sostenute, tra le quali risaltano il progressivo ritiro dello Stato dall’economia e la flessibilizzazione del mercato del lavoro. In questo senso, il testo di Felice e Provenzano ripercorre criticamente gli ultimi trent’anni di fiducia nelle capacità del mercato e ripone al centro con forza la questione sociale. Tuttavia, secondo la concezione proposta dagli autori, il capitalismo sarebbe andato incontro ad una degenerazione solo nel passaggio dalla fase fordista a quella neoliberista. In questo testo si riconoscono due fondamentali limiti a questa impostazione del testo e alle conseguenti proposte.
In primo luogo, Felice e Provenzano propongono un nuovo incontro tra cultura liberale e cultura socialista come antidoto ai mali dell’odierno sistema distributivo. Le proposte degli autori colgono nel segno nella loro ambizione di redistribuire la ricchezza, ma difettano di una riflessione su come essa si dovrebbe generare. Chi scrive, al contrario, ritiene insufficiente una prospettiva unicamente redistributiva, che non intacchi il modello produttivo attuale impostato su pratiche insostenibili dal punto di vista delle risorse naturali. Nel testo la crisi ambientale viene elencata come una tra le tante problematiche cui occorre dare risposta, ma Felice e Provenzano non propongono nessuna misura che la affronti direttamente. A nostro avviso riconoscere l’insostenibilità dell’attuale modello produttivo implica la necessità di porre al centro del ragionamento politico il consumo di risorse finite.
In secondo luogo, gli autori confidano nel fatto che l’assetto odierno delle istituzioni liberali possa ancora consentire un’effettiva trasformazione dell’esistente. Tuttavia, il prevalere di interessi particolari all’interno delle arene di decisione pubblica apre a dubbi sulla effettiva democraticità di alcuni aspetti del sistema. Non auspichiamo con ciò un superamento dei diritti di prima generazione che sono propri del modello liberale e che rappresentano una grande conquista storica ma ci auguriamo, piuttosto, una ritrovata capacità delle masse popolari di indirizzare la vita pubblica. Se infatti nel Novecento un’ampia partecipazione politica alla vita extra-istituzionale ha consentito il bilanciamento tra gli interessi delle classi economicamente dominanti e gli interessi delle classi popolari, oggi, a seguito di una trasformazione dell’attivismo e della protesta, assistiamo a una riduzione della capacità di pressione dal basso, a fronte di un aumento di quella “dall’alto”.
Come anticipato in questa introduzione, tenteremo in una prima parte di riflettere sul sistema produttivo cercando un punto di incontro tra istanze sociali ed ambientali. Poiché gli odierni equilibri delle democrazie liberali rischiano di distribuire in modo iniquo i costi della transizione ecologica, nella seconda parte considereremo gli attuali rapporti di forza tanto sul piano politico quanto su quello culturale. In conclusione verrà proposto uno scenario alternativo, in grado di coniugare i temi ambientali con quelli sociali, che può emergere nell’azione conflittuale che i movimenti politici portano avanti.
Il neoliberismo va inteso come il punto di arrivo di un lungo processo di sviluppo incentrato su crescita e produttivismo. In un primo momento, il modello fordista ha incentivato l’acquisto di beni durevoli (macchine, frigoriferi e televisori) innescando la cosiddetta mutazione antropologica degli italiani. In un secondo momento, il modello neoliberista ha creato nuovi bisogni e ha rimodellato quelli esistenti. Il consumismo si è sviluppato inizialmente soprattutto nella direzione dell’acquisto di beni (comprare invece che aggiustare o costruire), mentre oggi si è esteso in quella dell’acquisto di servizi (turismo a basso costo, food delivery).
Attualmente la situazione in cui ci troviamo è quella di un pianeta fortemente colpito a livello ambientale dalla produzione e dai consumi occidentali. Invertire questa tendenza richiede al contempo iniziative statali per regolare la produzione e un ripensamento collettivo delle abitudini di consumo. Storicamente infatti non si è ancora mai assistito ad un disaccoppiamento tra consumo di risorse naturali e crescita del PIL, e ci sono buone ragioni per dubitare che le pratiche legate al cosiddetto “sviluppo sostenibile” siano in grado di garantire crescita senza consumare risorse finite[1]. L’idea di sviluppo sostenibile si concentra infatti sull’accesso a fonti rinnovabili di energia al fine di ridurre le emissioni di CO2 ma trascura il consumo di risorse finite da utilizzare nel processo di produzione e crescita. Ciò non significa che l’investimento in energie rinnovabili sia superfluo, tuttavia, anche nella remota eventualità in cui il fabbisogno energetico venisse interamente soddisfatto da fonti rinnovabili, rimarrebbero diverse problematiche. Una transizione verde che mantenga costanti gli attuali livelli di consumo comporterebbe infatti ulteriore sfruttamento di suolo, riduzione della biodiversità ed estrazione di materie prime non-energetiche. Tutte cose che non possiamo più permetterci. A questo proposito emerge la necessità di creare un’infrastruttura istituzionale che permetta di abbandonare (davvero) la ricerca della crescita del PIL come obiettivo principale dell’azione collettiva. Stanno cambiando le priorità storiche, devono cambiare anche le metriche adottate per misurare il benessere.
Così, per guidare la riconversione energetica e produttiva, appare necessario innanzitutto un ritrovato protagonismo dell’attore pubblico nel ruolo di pianificatore capace di orientare gli investimenti[2]. Nel contempo lo Stato deve ritrovare la sua centralità come regolatore attraverso incentivi fiscali e tasse. Soprattutto, però, serve uno sforzo coordinato di istituzioni e cittadinanza volto a rivedere le nostre abitudini di vita e rimodulare i consumi. Occorre generare un circolo virtuoso in cui un’aumentata coscienza sociale e la definizione di nuovi stili di vita e consumo eco-sostenibili si accompagnino ad un minore impatto dell’umanità sul pianeta attraverso attività produttive meno inquinanti. Si dovranno ripensare le attività, le forme e l’uso dell’energia, le relazioni, i ruoli di genere e l’allocazione del tempo tra lavoro pagato e non pagato. In tal senso, bisognerebbe puntare su un aumento delle attività riproduttive di cura ed educazione, in grado di dare valore ai rapporti interpersonali e alle attività che sostengono il ciclo della vita, e limitare quelle produttive volte alla crescita[3]. In un’economia della cura diventa possibile progettare una riduzione dell’orario di lavoro e l’implementazione di un reddito di base incondizionato o di partecipazione.
Come accennato nell’introduzione, riteniamo che l’imporsi di un’agenda sufficientemente radicale da risolvere le problematiche ambientali risulti improbabile all’interno dei canali tradizionali delle odierne democrazie liberali. Da una parte, interessi particolari (contrari a istanze sociali e ambientali) sembrano prevalere nelle arene di decisione pubblica, d’altra parte il sistema culturale impedisce l’affermarsi di una nuova sensibilità riguardo i consumi e gli scenari politici. Perciò, il moderno assetto della democrazia liberale non sembra funzionale ad arginare i rapporti di forza esistenti, ma piuttosto ad amplificarli. Ciò è dovuto al fatto che esiste un’asimmetria tra gruppi sociali nella capacità di influenzare cultura e politica.
Se nella teoria del pluralismo dei moderni, i cittadini sono in grado di utilizzare pienamente le proprie libertà civili e di associazione per influenzare dall’esterno la vita delle istituzioni, nella realtà non si assiste al controllo reciproco tra gruppi d’interesse bensì al prevalere dell’interesse privato su quello pubblico[4]. Nel concreto, le business communities esercitano un potere di controllo sulle decisioni pubbliche attraverso un’organizzazione sistemica dei propri interessi e della pressione per vederli realizzati. Ciò sarebbe possibile, secondo Lindblom, a partire da una predisposizione naturale dello Stato a riconoscere l’importanza delle grandi imprese nella costruzione del benessere di una nazione[5]. Non solo, i gruppi dominanti sarebbero in grado di far valere le proprie richieste sulla base di un potere di lobbying ai vari livelli di governance, associato ad un potere culturale esercitato attraverso think tank e media, come fu nel caso della dottrina neoliberista diffusa dalla Mont Pelerin Society. Tre ulteriori elementi di ricatto si troverebbero poi nelle mani dei grandi gruppi di pressione privati ossia: il rating sovrano, il regime shopping e la delocalizzazione, e l’elusione fiscale[6]. È un simile svuotamento dell’indipendenza della politica da parte dell’economia e l’incapacità della prima di regolare la seconda a portare all’inversione di poteri tra interessi privati e pubblici. Sembra così cadere un sistema di relativa dipendenza dei rappresentanti dai rappresentati, sostituito dal prevalere delle istanze di ristrette cerchie di colossi privati le cui decisioni hanno ricadute profonde per la vita di interi Stati.
A tale condizione di ricatto segue logicamente il pilota automatico e la spoliticizzazione delle politiche, che assume la tecnicalità come principio di governo, ossia la politica come scienza della buona amministrazione. Il dibattito si sposta dai fini ai mezzi nel tentativo unico e indiscusso di rendere ogni Paese più appetibile per gli investimenti di capitale dall’estero a partire da condizioni di appetibilità del mercato interno: scarsa burocrazia, mercato del lavoro flessibile, bassi livelli di tassazione alle imprese e una generale non-ingerenza nell’economia da parte dello Stato. Oggi sembrano in molti casi venute meno le condizioni necessarie affinché i governi siano ricettivi nei confronti dei propri elettori.
Le stesse business communities di cui sopra esercitano un’influenza crescente sul sistema istituzionale italiano per tramite dell’industria mediatica e culturale. Ad oggi, tale industria è in larga parte posseduta e gestita dagli stessi gruppi di interesse economico e politico – in Italia: Berlusconi, la famiglia Agnelli, Cairo, De Laurentiis, De Benedetti e Angelucci. E non è difficile capire per quale ragione i grandi gruppi editoriali non abbiano interesse a suscitare nuovi immaginari politici che ne metterebbero in dubbio i privilegi. L’informazione, crescentemente privatizzata, è diventata un prodotto di intrattenimento privo di stimoli critici, secondo la teoria dell’infotainment. Le notizie e il dibattito politico si sono trasformati in beni di consumo che prioritarizzano i contenuti in base a un’analisi preliminare su quanto pubblico saranno in grado di attrarre, piuttosto che sulla loro effettiva rilevanza. Televisioni, giornali, film e pubblicità alimentano così un immaginario statico, attorno all’idea che viviamo nell’unico sistema possibile e che non esiste un’alternativa. È questo il fenomeno desolante di naturalizzazione dell’esistente che Mark Fisher ha definito Realismo Capitalista, riassumibile nella ormai celebre massima: «è più facile immaginare la fine del mondo che la fine di (questo) capitalismo»[7].
Eppure, ora che la fine del mondo appare così prossima, è forse possibile iniziare a concepire la fine del capitalismo. Grazie al movimento internazionale per il clima, una diffusa coscienza sul tema ecologico si è fatta strada. Crediamo dunque che i movimenti sociali possano giocare ancor oggi un ruolo importante nel produrre controcultura e scenari alternativi. Se si vuole inaugurare una transizione verso modelli altri di produzione e consumo, sviluppare un immaginario attorno a un nuovo ordine sociale e ambientale è un passaggio necessario.
«la nostra sopravvivenza sulla Terra è minacciata non solo dalla degradazione ambientale ma anche dalla disintegrazione del tessuto di solidarietà sociali e dei modi di vita psichici che necessitano quindi di una reinvenzione complessiva. […] Non è concepibile come risposta all’inquinamento atmosferico e al riscaldamento del pianeta dovuto all’effetto serra una semplice stabilizzazione demografica senza che venga posto il problema di una nuova mentalità e della produzione di una nuova arte del vivere»[8]
Occorre quindi che i cittadini ritrovino un ruolo attivo e partecipativo nella costruzione di un contropotere che controlli e sanzioni l’operato dello Stato. Questo è quanto mai necessario di fronte alla minaccia di un European Green Deal che ad oggi rischia di fondarsi sulla collettivizzazione delle perdite e la privatizzazione dei profitti degli investimenti in sostenibilità sostenuti dai privati. In questo senso, la partecipazione non elettorale alla vita politica, anche e soprattutto attraverso manifestazioni di dissenso, è un elemento essenziale della vita democratica. I cittadini possono e devono esercitare un ruolo di sprone e deterrente nei confronti dei rappresentanti affinché essi reagiscano alle richieste ed alle pressioni esterne che arrivano sotto forma di manifestazioni, boicottaggi, petizioni, scioperi, occupazioni. I movimenti hanno il compito di far valere le istanze della maggioranza della popolazione affinché i costi della transizione ecologica siano pagati in modo equo, scongiurando ulteriori fratture sociali.
[1] Giorgos Kallis, ‘In defence of De-Growth’, Ecological Economics, 70: 873-880, 2010.
[2] Mariana Mazzucato, Lo Stato innovatore, Roma-Bari, Laterza, 2014.
[3] Emanuele Leonardi, Lavoro, Natura, Valore: André Gorz tra marxismo e decrescita, Napoli, Orthotes, 2017.
[4] Colin Crouch, Postdemocrazia, Roma-Bari, Laterza, 2003.
[5] Charles Lindblom, Politics and markets: the world’s political-economic systems, New York, Basic, 1977.
[6] Giulio Azzolini, Dopo le classi dirigenti: La metamorfosi delle oligarchie nell’età globale, Roma-Bari, Laterza, 2017.
[7] Mark Fisher, Realismo Capitalista, Roma, Nero, 2018.
[8] Felix Guattari, Le tre ecologie, Casale Monferrato, Sonda, 1991.