Recensione a: Abhijit V. Banerjee e Esther Duflo, Una buona economia per tempi difficili, Laterza, Roma-Bari 2020, pp. 472, 24 euro (scheda libro)
Scritto da Federica Meluzzi
9 minuti di lettura
Questo contributo è tratto dal numero cartaceo 3/2020, dedicato al tema delle “Piattaforme”. Questo contenuto è liberamente accessibile, altri sono leggibili solo agli abbonati nella sezione Pandora+. Per ricevere il numero cartaceo è possibile abbonarsi a Pandora Rivista con la formula sostenitore che comprende tutte le uscite del 2020 e del 2021. L’indice del numero è consultabile a questa pagina.
«Sembra di essere tornati nel mondo dickensiano di Tempi difficili[1], con gli abbienti da una parte e dall’altra i non abbienti sempre più alienati, senza nessuna soluzione all’orizzonte» (p. 5). L’elezione di Trump negli Stati Uniti, di Bolsonaro in Brasile, «la psichedelica follia della Brexit», o la rabbia dei gilet gialli in Francia sono tutti sintomi dei tempi difficili che costituiscono la cornice e insieme il leitmotiv dell’opera di Esther Duflo e Abhijit V. Banerjee. Nel recente volume edito da Laterza, i due Premi Nobel per l’Economia 2019 partono dalla constatazione che non la mancata crescita in Occidente, quanto il rapido sfilacciarsi del contratto sociale, unito e interrelato alla crescente polarizzazione della società odierna, siano i grandi mali che minano più in profondità la tenuta dei sistemi democratici, come siamo abituati a conoscerli. L’evidente polarizzazione politica dell’elettorato in Occidente è dunque il riflesso dell’opposizione sempre più marcata di chi vince (tutto) e chi perde, in maniera trasversale rispetto ai fatti e alle trasformazioni più importanti che si sono succeduti dagli anni Ottanta. Ciò che sta a cuore ai due economisti è che il dialogo tra le parti stia contemporaneamente svilendosi, e che i tweet lascino (volutamente) poco spazio ai ragionamenti complessi e alle analisi che dovrebbero invece permettere la mutua comprensione dei dissensi, e guidare l’agire politico. Da qui l’urgenza e la necessità di scrivere un libro – che non è mestiere dell’economista, come ammettono nella prefazione – per offrire qualche evidenza che possa informare l’una e l’altra tesi nel tentativo più che mai ambizioso di renderci tutti un po’ più vigili e resistenti alla seduzione del linguaggio semplicistico e delle ricette miracolose.
Perché il lettore (e più in generale il cittadino) dovrebbe fidarsi della voce dell’economista? Gli esiti di due sondaggi condotti nel Regno Unito[2] e negli Stati Uniti[3] tra il 2017 e il 2018 mostrano che appena il 25% dei cittadini ha fiducia nella competenza degli economisti e che, tra tutte le professioni considerate, solo i politici godono di minore credibilità. Le ragioni del deficit di fiducia sono riconducibili in qualche misura all’eco degli svariati errori di previsione associati alla responsabilità degli economisti. La rivista «The Economist» ha calcolato che l’errore medio delle previsioni del tasso di crescita a due anni realizzate dal FMI nel periodo 2000-2014 sia stato di 2,8 punti percentuali[4], «altrettanto insoddisfacente che se avessero ipotizzato un tasso di crescita costante del 4%». Ma gli economisti non sono futurologi e prevedere il futuro è pressoché impossibile. Per altro verso, ammettono gli autori, la sfiducia si deve alle falle della cattiva economia, ovvero all’insieme di teorie rivelatesi incorrette e che, ispirate da una fiducia eccessiva nel funzionamento dei mercati e dall’ossessione della crescita, hanno incoraggiato politiche di stampo liberista che hanno eroso il benessere di molti. Entrambi i casi rivelano una verità con la quale il lettore (e il cittadino) dovrebbe familiarizzare: «gli economisti non sono scienziati come lo sono i fisici, e spesso hanno pochissime certezze assolute da offrire, […] ma gli economisti non sono gli unici che fanno errori» (pp. 10-11). Nello sforzo di innescare un dialogo tra economisti e comuni cittadini, il monito viene esteso ai colleghi: «il pericolo non è sbagliare, ma infatuarsi delle proprie opinioni al punto da non accettare che possano essere smentite dai fatti».
Fil rouge dell’intera opera è la negazione dell’imperativo di crescita a tutti i costi, per lungo tempo e in parte ancora oggi «un’ossessione della nostra professione». Questa negazione, che è incisiva nei toni, è supportata da almeno due ragioni, snocciolate a più riprese nel corso del libro. La prima è che non esiste ad oggi alcuna certezza su quali siano i fattori che possono rendere la crescita infinita, il che delegittima (o quanto meno invita a guardare con diffidenza) «qualunque politica che venga propagandata in nome della crescita» (p. 310). Nessuno sa cosa renda i Paesi ricchi ancora più ricchi, oppure come i Paesi in via di sviluppo possano uscire dalla trappola del reddito medio – una situazione in cui, una volta giunti ad un livello medio di PIL, alcuni Paesi si bloccano – e ancora cosa determini che alcuni Paesi poveri crescano più velocemente di altri. Succede e basta, oppure non succede e basta. «La crescita è un campo in cui i nostri sforzi risultano particolarmente patetici» concludono, dopo avere preso in esame alcune tra le teorie economiche più importanti, i cui esponenti sono stati, tra gli altri, Robert Gordon, Joel Mokyr, Robert Solow, Robert Lucas e Paul Romer. D’altronde, e qui entra in gioco la seconda ragione, quand’anche non vi fosse un difetto di metodo e dunque si conoscesse la ricetta di una crescita duratura, occorrerebbe constatare che un PIL più alto non è che uno tra i tanti modi attraverso cui uno Stato può migliorare il benessere dei suoi cittadini. È davvero il migliore?
Il corollario implicito di siffatto agnosticismo è che non esiste alcuna prova scientifica che tagliare le tasse ai più ricchi produca crescita economica. Anzi, la letteratura economica è piuttosto unanime nel concordare che i tagli delle aliquote sui redditi più alti – ad esempio quelli che beneficiano il 10% più ricco della popolazione – non producano nessuna crescita significativa dell’occupazione e del reddito nazionale. Lo si evince con grande chiarezza negli studi di Emmanuel Saez e Joel Slemrod[5] e di Owen Zidar[6], un lavoro, quest’ultimo, che prende in esame tutte le trentuno riforme fiscali varate negli Stati Uniti dalla fine della seconda guerra mondiale ai nostri giorni. La tesi trova ampio consenso persino tra gli economisti che compongono il campione IGM Booth dell’Università di Chicago[7], non certo noti per le tesi socialiste. Quando intervistati in merito alla presunta efficacia del piano di riduzione delle tasse varato da Trump nel dicembre 2017 – un mix di taglio della tassazione dei redditi delle imprese dal 35 al 21%, riduzione dell’aliquota massima sui redditi personali e delle famiglie da 39,6 a 37% ed altre misure – gli economisti del campione hanno sostenuto in maggioranza che non avrebbe condotto ad una crescita del PIL statunitense nel decennio successivo. Il messaggio si auto-dichiara potente in un periodo storico in cui la politica fiscale ha riguadagnato momentum nelle diatribe politiche, e dunque imperversa a gran voce lungo tutta l’opera. «Vogliamo dirlo con chiarezza: tagliare le tasse ai ricchi non produce crescita economica» (p. 210).
Il monito ci serve non solo per resistere alla tentazione delle ricette miracolose di oggi, ma anche per dotarci di nuove lenti attraverso cui rileggere la storia, perché ci sia di insegnamento su cosa è andato storto e sulle responsabilità della cattiva economia – alimentata allora dall’impossibilità di confrontare le teorie con i dati – nel determinare una parte degli esiti cicatriziali che osserviamo nel presente. Nell’ingranaggio complesso che è il mondo globalizzato e interconnesso di oggi, la comprensione degli esiti odierni non può prescindere dall’analisi critica degli accadimenti passati. E infatti la trasformazione del contratto sociale di cui nell’incipit cominciava all’alba degli anni Ottanta, in un’arena globale che assisteva all’ascesa di Reagan negli Stati Uniti e di Margaret Thatcher nel Regno Unito, contemporaneamente alle prime riforme di mercato varate da Deng Xiaoping in Cina e agli albori della liberalizzazione del mercato in India. La molteplicità dei fattori concomitanti rende difficile stabilire in quale misura ciascuno degli eventi susseguitisi da allora abbia contribuito a determinare la polarizzazione della società di oggi, insieme all’esplosione delle disuguaglianze e alle perdite sofferte dal cittadino medio e da quello più povero in alcune regioni del mondo. Ciò che appare certo è che molte delle principali malattie del nostro tempo hanno avuto origine allora.
Ne è esempio l’eccesso di disuguaglianza che venne coscienziosamente iniettato nelle società americana e britannica a partire dagli anni Ottanta in nome di una crescita che andava imperativamente ritrovata come baluardo dell’orgoglio nazionale, dopo gli anni di stagnazione del PIL inaugurati con l’embargo del petrolio del 1973. «Per riportare la crescita era necessario trattare meglio gli imprenditori, con aliquote più basse, meno regolamentazione e meno sindacati, e costringere il resto del Paese a fare meno affidamento sullo Stato» (p. 279). E dunque l’espediente politico fu una drastica riduzione delle aliquote fiscali massime – dal 70% a meno del 30% sotto Reagan e poi Bush negli Stati Uniti e dall’83% al 40% nel Regno Unito dell’era thatcheriana – che si accompagnò ad una marcata erosione dello stato sociale, avvenuta specialmente negli Stati Uniti.
Le trasformazioni delle politiche fiscali di quegli anni erano il sintomo di una mutazione ben più profonda che si stava innescando nell’ideologia collettiva e che anestetizzava i non-ricchi di fronte all’ingiustizia che una parte sempre più consistente delle risorse finiva nelle tasche dei più ricchi. Furono questi gli anni in cui la quota del reddito nazionale dell’1% più ricco della popolazione invertiva la sua tendenza rispetto ai cinquant’anni precedenti e cominciava un’inesorabile risalita continuata fino ai giorni nostri[8], come riportano Thomas Piketty e Emmanuel Saez[9]. Ciò che permise ai non-ricchi di accettare questa messinscena fu la romantica narrazione che se ne fece, alimentata dalle teorie di alcuni illustri economisti tra i quali John Kenneth Galbraith. Tale narrazione trovava la massima espressione nel paradigma del trickle-down, l’idea che «i benefici della crescita sarebbero arrivati al prezzo di una certa disuguaglianza. […] I ricchi ne avrebbero beneficiato per primi, ma alla fine i profitti sarebbero arrivati anche ai poveri» (p. 280). Non vi fu traccia dell’effetto di trickle-down che si auspicava – «il salario medio reale nel 2014 non era più alto di quello del 1979 […] e la quota del lavoro è scesa costantemente dagli anni Ottanta a oggi» (p. 282). Quello che seguì fu piuttosto il graduale «tracollo della classe lavoratrice bianca senza titolo di studio universitario» (p. 307): «dopo la coorte che è entrata nel mercato del lavo ro alla fine degli anni Settanta, in ognuna delle coorti successive rispetto alla precedente calava il numero degli occupati, i salari reali scendevano o rimanevano invariati» e contemporaneamente «aumentava il numero delle persone con difficoltà di socializzazione, sovrappeso, con problemi mentali e sintomi depressivi » (p. 307).
I tempi difficili di Duflo e Banerjee sono quelli della disperazione letale. I crescenti problemi di socialità, l’angoscia e la depressione degli americani bianchi senza titolo universitario sfociano dal 2015 in un incremento senza precedenti della mortalità per questa categoria (e solo per questa categoria!), trainato dal «costante aumento delle morti per disperazione»[10] (p. 306). Stupisce – o forse non lo fa affatto – che questa tendenza non riguardi che un ristretto numero di Paesi anglofoni – il Regno Unito, l’Australia, l’Irlanda e il Canada – con un modello sociale simile a quello statunitense; in tutti gli altri Paesi avanzati del mondo la mortalità sta invece scendendo, e lo sta facendo più rapidamente fra le fasce meno istruite.
L’altro lato della medaglia dell’incubo americano – così come i due autori lo definiscono – è la rabbia, alimentata dal mantra che la società americana, pur iniqua, premi l’industriosità e l’impegno, da cui il risvolto che «i poveri sono inevitabilmente corresponsabili della loro sorte» (p. 305). E dunque la maggioranza degli americani, che vede il proprio reddito diminuire o rimanere al palo mentre i ricchi diventano sempre più ricchi, si trova a scegliere «se dare la colpa a se stessa per non avere saputo approfittare delle opportunità che la società le offre e trovare qualcuno su cui scaricare la colpa» (p. 306). L’alternativa alla disperazione è ribellarsi contro il sistema. «Se non riescono a ottenere quel lavoro, dev’essere perché le élite hanno cospirato in qualche modo per farlo arrivare a un afroamericano o a un operaio cinese» (p. 308). La rabbia è il motore del circolo vizioso dentro al quale molti Paesi del mondo sono rimasti intrappolati, poiché ha portato all’elezione dei leader populisti e/o di estrema destra della retorica semplicistica e delle ricette miracolose. Questi ultimi, molte volte «contrari a qualsiasi forma di intervento pubblico (e in particolare alla redistribuzione)» hanno esacerbato il problema originale, non curandosi di trovare un antidoto alla disperazione di tutti i perdenti, ovvero i vinti dei fallimenti di mercato, dei commerci internazionali, dell’automazione, della concentrazione dell’attività economica, della periferia.
Le politiche in nome della crescita sono finite per polarizzare la società tra vinti e vincitori, e le profonde fratture innescatesi tra le parti, che sono appunto il prezzo da pagare per la crescita, ci hanno via via condotto al disastro sociale odierno. «La chiave è non perdere di vista il fatto che il PIL è un mezzo e non un fine. Un mezzo utile, senza dubbio, specie quando crea occupazione o fa aumentare i salari, o rimpingua le casse dello Stato per ridistribuire di più. Ma lo scopo ultimo rimane quello di aumentare la qualità di vita per l’individuo medio, e in particolare per chi se la passa peggio» (p. 242).
Con ferma chiarezza, gli autori esortano il lettore, insieme alla società nel suo complesso, ad abbandonare il reddito – che è una «una lente deformante che ha spesso indotto le menti più brillanti a prendere decisioni sbagliate e troppo di noi ad essere ossessionati dalle cose sbagliate» (p. 12) – come unica misura del benessere sociale. Serve una nuova bussola come guida della buona economia e dell’agire politico, e questa non può che essere la dignità umana.
[1] C. Dickens, Tempi Difficili, Feltrinelli, Milano 2015.
[2] M. Smith, Leave Voters Are Less Likely to Trust any Experts – Even Weather Forecasters, «You-Gov», 2017.
[3] A. Banerjee, E. Duflo, S. Stantcheva, Me and Everyone Else: Do People Think Like Economists?, saggio non pubblicato, MIT 2019.
[4] A Mean Feat, «The Economist», 9 gennaio 2016.
[5] E. Saez, J. Slemrod, S. H. Giertz, The Elasticity of Taxable Income with Respect to Marginal Tax Rates: A Critical Review, «Journal of Economic Literature», L, 1 (2012), pp. 3-50.
[6] O. Zidar, Tax Cuts for Whom? Heterogeneous Effects of Income Tax Changes on Growth and Employment, «Journal of Political Economy», CXXVII, 3 (2019), pp. 1437-1472.
[7] Il campione si compone di circa 40 professori di economia, tutti esponenti di primo piano della disciplina, le cui opinioni sui temi economici fondamentali vengono periodicamente raccolte con la finalità di contribuire al dibattito pubblico.
[8] Negli Stati Uniti la quota di reddito nazionale dell’1% più ricco passò dal’8% nel 1979 al 24% nel 2017.
[9] F. Alvaredo, L. Chancel, T. Piketty, E. Saez, G. Zucman, World Inequality Report 2018: Executive Summary, World Inequality Database, 2017.
[10] A. Case, A. Deaton, Rising Morbidity and Mortality in Mildlife Among White Non-Hispanic Americans in the 21st Century, «Proceedings of the National Academy of Sciences», CXII, 49 (2015), pp. 15078-15083.