Una nuova generazione di servizi alla persona: l’indagine WePlat sulle piattaforme di welfare
- 28 Novembre 2023

Una nuova generazione di servizi alla persona: l’indagine WePlat sulle piattaforme di welfare

Scritto da Tommaso Malpensa

9 minuti di lettura

Reading Time: 9 minutes

Le piattaforme per il consumo non sono più un fenomeno nuovo. Da anni ci interfacciamo con servizi offerti in questo formato per soddisfare i bisogni più disparati. Uber, Airbnb, JustEat sono soltanto gli esempi più famosi e di successo di quest’idea di business. Nell’immaginario collettivo e nella ricerca accademica nulla rappresenta meglio l’economia di piattaforma di un rider che fa una consegna a domicilio. Questa immagine è stata uno dei simboli della pandemia, che ha sconvolto significativamente l’approccio dei soggetti economici ai servizi digitali. Tuttavia, i dati ci riferiscono che prima della pandemia solo il 15% dei lavoratori di piattaforma erano rider, mentre ben il 28% era costituito da chi offriva servizi di pulizia o altri servizi domestici. Questi numeri sono scesi durante i lockdown e non sono mai tornati ai livelli prepandemici, ma nel frattempo diverse organizzazioni già operanti in questi settori hanno adottato modelli di piattaforma nei servizi di cura della casa, ma anche nel caregiving di anziani e persone non-autosufficienti, nella consulenza medica e psicologica.

Per comprendere cosa stava avvenendo nel mondo del welfare su piattaforma, nel 2021 è nato WePlat – Welfare systems in the age of platforms, un progetto di ricerca a cura di Ivana Pais e Flaviano Zandonai, sostenuto da Fondazione Cariplo e realizzato grazie alla collaborazione di vari soggetti pubblici e privati. L’approccio è stato fortemente interdisciplinare. La capofila del progetto, l’Università Cattolica di Milano, ha collaborato con l’Università di Padova e l’Università di Brescia nell’analisi sociologica e psicologica, affrontando la questione dal punto di vista dell’economia, del lavoro, dell’organizzazione, ma anche della cultura e della comunicazione. Collaboriamo, agenzia di community design[1], con il Dipartimento di Design del Politecnico di Milano, si è occupata dell’aspetto del design, mentre CGM, consorzio nazionale di reti, imprese, e cooperative sociali, ha provveduto alla diffusione dei risultati. Gli obiettivi della ricerca erano tre: la mappatura delle piattaforme presenti in Italia, l’individuazione delle caratteristiche organizzative e di servizio in relazione ai diversi modelli di piattaforma e in ultimo la co-progettazione di piattaforme di welfare che rispondessero alle necessità di utenti, provider e policy maker. L’indagine, durata due anni, è stata pubblicata a novembre 2023 nella forma del quaderno Il welfare nell’era delle piattaforme sul sito di “Percorsi di Secondo Welfare”, da cui è liberamente scaricabile. Il Quaderno contiene nove articoli, che raccolgono i risultati dell’indagine, e quattro interviste a osservatori privilegiati del settore.

Le piattaforme di welfare sono per il diritto europeo piattaforme di lavoro digitale. Secondo la proposta di direttiva COM (2021) 762 è piattaforma di lavoro digitale qualsiasi persona fisica o giuridica che svolge un servizio commerciale fornito, almeno in parte, mediante mezzi elettronici (sito web o applicazione), su richiesta del destinatario del servizio e se il lavoro svolto dalle persone fisiche, indipendentemente dal luogo in cui l’attività è compiuta, è organizzato. I ricercatori di WePlat hanno aggiunto un ulteriore criterio: la presenza di più organizzazioni o professionisti, tra cui il destinatario possa scegliere il fornitore del servizio. Assolto il compito definitorio, la mappatura del settore individua 127 piattaforme attive in Italia, perlopiù nel campo della salute, dell’educazione e cura per l’infanzia e dell’assistenza sociosanitaria[2], con quasi la metà delle piattaforme individuate che si occupa trasversalmente di questi temi. È un settore quasi interamente occupato da soggetti italiani, di dimensioni modeste e pochi provider multinazionali. I servizi sono perlopiù erogati in presenza, ma la metà delle piattaforme lavora anche o solamente online.

Elemento primario nella classificazione delle piattaforme sono i criteri di accesso: in primis le piattaforme di welfare aziendale, dove l’accesso è indiretto e i servizi di welfare sono erogati ai dipendenti delle aziende aderenti dai fornitori selezionati dalla piattaforma. Zandonai sostiene che le piattaforme di welfare aziendale devono resistere alla tentazione di “voucherizzare” i propri servizi, puntando ad un’offerta di welfare strictu sensu che preveda il meno possibile trasferimenti in denaro. Ci sono poi piattaforme di welfare territoriale, dove l’accesso è indiretto per i fornitori, che vengono “invitati” dalla piattaforma, mentre i beneficiari si dividono tra chi vi ha accesso indiretto e gratuito – i cittadini in carico ai servizi sociali – e chi vi ha accesso diretto e a pagamento – tutti gli altri cittadini[3]. Il sistema delle piattaforme territoriali svolge funzione di supporto al welfare pubblico e tradizionale, favorendo l’integrazione dei vari livelli della governance territoriale, e la personalizzazione dei servizi. In ultimo, le piattaforme di welfare digitale, con accesso diretto per entrambe le parti e fornitori che erogano i servizi aderendo spontaneamente alla piattaforma. Le piattaforme di welfare digitale sono ampiamente le più numerose: 73 contro le 26 aziendali e le 28 territoriali. Queste mettono in mostra direttamente il professionista e lasciano al singolo molta autonomia, anche per quanto riguarda il prezzo dei servizi. Una parte significativa adotta invece un approccio gerarchico, con accentramento delle decisioni. Circa un terzo delle piattaforme di welfare si serve di meccanismi di reputazione e a farlo sono quasi solamente le piattaforme di welfare digitale. L’utilizzo di strumenti reputazionali, ad esempio recensioni, è meno rilevante per le piattaforme aziendali e territoriali perché sono le piattaforme stesse a selezionare l’operatore professionale legato contrattualmente alla piattaforma. In più, considerando le piattaforme territoriali, vi è anche un elemento culturale, ossia la distanza dalle logiche di piattaforma più tendenti al mercato. Meccanismi reputazionali sono invece piuttosto diffusi tra le piattaforme di welfare digitale. Gli utenti, tuttavia, tendono a non servirsene, come dimostra il caso della piattaforma per servizi di babysitting dove solo un 1,2% degli utenti iscritti ha lasciato almeno un commento. Ciò si spiega principalmente per due ragioni: da un lato, il numero di clienti cui un professionista di settori affini al lavoro di cura è basso e il rapporto è prolungato nel tempo; dall’altro, è complesso stabilire che cosa andrebbe valutato, perché valutare una prestazione medica non è facile né immediato e perciò si tende a concentrarsi sull’atteggiamento del professionista.

Una caratteristica tipica del mercato delle piattaforme è la logica del winner takes it all. L’esempio più riuscito è certamente Uber; perciò, si parla di “uberizzazione” per indicare la convergenza dei soggetti operanti nel settore sul suo modello. I finanziamenti di rischio hanno il fine di portare ad economie di scala che con il tempo selezionano un monopolista o alcuni oligopolisti. La piattaforma sfrutta il management algoritmico, caratterizzato da meccanismi opachi di gestione e di matching e dalla centralità dei dati degli utenti come asset commerciale e materia prima per l’indirizzamento dei processi. L’organizzazione delle piattaforme di welfare italiane non segue pedissequamente questo modello. I tipici meccanismi di scala funzionerebbero particolarmente se applicati alle piattaforme di welfare digitale, proprio per la loro vocazione orientata alla tecnologia, attraverso il ricorso ad incubatori e acceleratori pubblici e privati di startup che possono fungere da volano per il loro sviluppo, come sostiene Stefano Molino, responsabile del Fondo acceleratori di Cassa Depositi e Prestiti. Tuttavia, anche chi nel settore del welfare si affida con più rigore al modello Uber vive una forte ibridazione tra questa logica e quelle più tradizionali di gerarchia, mercato e rete. Lo sviluppo delle piattaforme ha contribuito in maniera significativa ad aggregare gli operatori di questi settori, come nel caso della nascita di un gruppo di lavoro di oltre ottanta psicoterapeuti che oggi svolgono attività condivisa di formazione pur in un settore dove spesso si lavora individualmente o in piccoli studi associati. È anche un tema di design della piattaforma contribuire alla costruzione di relazioni tra i professionisti e i beneficiari, come afferma Giulio Quaggiotto. Al contempo, la logica di piattaforma costituisce un volano per l’accentuazione delle logiche di mercato nel welfare. Al di là che si consideri questa una buona o una cattiva notizia, il dato di fatto è che l’arretramento del pubblico nei finanziamenti porta alla necessità per chi opera nel settore di offrire direttamente i propri servizi ai cittadini e per farlo la vetrina delle piattaforme costituisce certamente un’opportunità. Il fenomeno di devoluzione al privato dell’erogazione dei servizi di welfare è accentuato dalla piattaforma, che nell’alimentare la logica di mercato non risolve il problema del lavoro nero nei settori del caregiving e dei servizi per l’infanzia, poiché non si instaurano rapporti contrattuali tra piattaforma e operatore. Le dinamiche di rete, invece, sono particolarmente rilevanti per le piattaforme territoriali e la collaborazione con la pubblica amministrazione.

Per comprendere la logica di piattaforma è centrale il concetto di abilitazione. “Abilitazione” ha un significato poliedrico, perché si definisce in relazione ai suoi scopi. Il concetto che più lo avvicina è espresso dal verbo inglese to enable, mettere in grado. Abilitare è un processo complesso. Consiste in almeno tre elementi. Innanzitutto, la creazione di un ambiente accogliente, dove l’utente trovi facilmente quello che cerca. È il parametro dell’usabilità, governato dal “sistema in tre clic”. Per le piattaforme di welfare questo elemento è centrale, viste le particolarità della loro utenza. In secundis, bisogna curare il matching: non basta l’incontro di domanda e offerta, bisogna rendere l’incontro proficuo e tararsi sulle necessità personali della domanda. Ecco che in questo senso diventano centrali i meccanismi di reputazione. Ultimo elemento portante è il community building, ossia fare in modo che gli utenti possano diventare co-gestori e co-costruttori del progetto e aggregarsi intorno a bisogni, richieste e interessi di cura comuni. È quanto afferma Stefania Broadbent, antropologa della tecnologia, quando sottolinea le differenze tra il modello di mutuo aiuto dei beneficiari tipico del mondo anglosassone e il modello di delega all’esperto tipico dell’approccio italiano. Mentre lo stato relativo al parametro del matching è variegato, ciò che si constata è l’arretratezza complessiva dei meccanismi di community building. In merito, Giovanni Fosti, presidente dell’impresa sociale che gestisce le risorse del Fondo per la Repubblica Digitale, ritiene che elemento centrale della piattaforma sia la dimensione comunitaria, di cui la digitalizzazione costituisce l’infrastruttura atta all’abilitazione degli utenti in un processo di co-costruzione. La co-costruzione, spiega l’indagine, è al contempo elemento costitutivo e obiettivo, e si costituisce di addomesticamento e appropriazione. L’addomesticamento è l’introduzione degli oggetti della comunicazione nella routine quotidiana. È un lavoro pratico e concettuale di adattamento alle piattaforme in relazione alle proprie necessità: con il Covid-19, ad esempio, gli utenti hanno dovuto “riaddomesticare” i propri strumenti, che al contempo si sono evoluti per incontrare le richieste di maggiore flessibilità e velocità rispetto ai servizi in presenza. Nelle interviste rilasciate per WePlat, spesso le persone affermano di servirsi di piattaforme per iscrivere più velocemente i figli a scuola, trovare professionisti o prenotare visite. Appropriazione, invece, significa che gli utenti, con la pratica, diventano in certa maniera “proprietari” dello strumento, orientando le scelte degli sviluppatori. La co-costruzione, d’altronde, dev’essere un processo condiviso, che non può riprodursi uguale a sé stessa in tutti i modelli di piattaforma. Secondo quanto emerso dall’indagine, gli utenti di piattaforme digitali sono ben più propensi ad uno sfruttamento ampio e complessivo dei feature della piattaforma, con un ritorno positivo sul feedback. Invece, le piattaforme territoriali rimangono un passo indietro per il loro carattere phygital, ossia la distanza tra la rappresentazione dell’offerta in digitale e la fruizione dei servizi in presenza, che limita le loro funzionalità digitali.

Le piattaforme di welfare sono ad oggi un piccolo settore. Per questa ragione si pone il tema della loro crescita e dei futuri sviluppi. Il 17 maggio 2023 WePlat ha organizzato un workshop con il metodo del design thinking sul futuro delle piattaforme di welfare. I risultati emersi dalle idee condivise in questa sede da stakeholder ed esperti, organizzati in tavoli tematici, tracciano significative linee guida per il futuro. Il prossimo passo per le piattaforme aziendali sarà il rafforzamento del matching, poiché spesso, più che per le altre tipologie, le loro prestazioni sono frammentate e difficilmente comprensibili per gli utenti. Le piattaforme di welfare territoriali, invece, dovranno diventare realmente abilitanti, superando l’attuale caratteristica di fare più da “vetrina” che da “negozio”. In generale, tuttavia, gli intervenuti hanno individuato due rami di crescita trasversali all’intero settore. Innanzitutto, l’analisi dei dati, necessaria per conoscere gli utenti, i loro comportamenti, bisogni e abitudini. Pur mantenendo un alto livello di protezione dei dati sensibili, la loro circolazione è importante per policy maker, studiosi e operatori del settore, in modo da personalizzare i servizi e immaginare nuove filiere di sviluppo. Il secondo terreno di crescita è quello del rapporto tra utenti e tra utenti e piattaforma. La piattaforma non è solo infrastruttura di disintermediazione tra domanda e offerta, ma un luogo, per quanto virtuale, che gli utenti da entrambi i lati dello schermo devono trovare gradevole, facile e sicuro per accedervi e rimanervi. Soltanto percorrendo questa strada si otterrà un ambiente dove gli utenti possano serenamente costruire reti tra loro e diventare comunità.

Quali sfide, dunque, per il futuro delle piattaforme di welfare? L’indagine individua tre questioni di merito e due questioni di metodo per il prossimo sviluppo. Le questioni di merito sono settori dove i player dovranno essere in grado di espandersi e radicarsi per rispondere alle esigenze che il sistema del welfare e la platea degli utenti richiedono: la non-autosufficienza, settore di welfare tradizionale, ma grande punto interrogativo per la sostenibilità del sistema-Paese, considerato il progressivo invecchiamento della popolazione; la salute mentale, ancora scevra da un quadro definitorio chiaro nei suoi confini e storicamente arretrata e tralasciata nelle politiche pubbliche sulla salute, nonostante il diffondersi nella popolazione di nuove forme di malessere psicologico, soprattutto tra i giovani; l’educazione, che dovrà diventare universale a partire dagli asili nido, e integrare in maniera inclusiva le sempre maggiori differenze culturali e sociali interne alla società dell’oggi. Il metodo, invece, guarda alla qualità e alle modalità dello sviluppo. L’obiettivo per la qualità del servizio è ampliarsi e integrarsi con i soggetti attivi a livello territoriale e settoriale, governando la diversificazione delle necessità anche attraverso attività di redesign e analisi interna per la definizione di linee guida indirizzate a nuovi provider. Le modalità dello sviluppo dovranno orientarsi secondo i profili di un puntuale tracciamento dei beneficiari, al contempo valorizzando la partecipazione degli utenti con i processi di coprogettazione e un nuovo livello di disintermediazione tra le parti. L’innovazione sociale è un compito difficile, che richiede il concorso di tutte le competenze disponibili. La capacità di dare risposte alle nuove richieste provenienti dalla società in termini di welfare dipenderà dunque necessariamente dal concorso del potere pubblico, su ogni livello territoriale e amministrativo.


[1] Per il concetto di community design si rimanda al sito di Collaboriamo https://collaboriamo.org/community-design/

[2] Il 75% delle piattaforme si occupa di salute, il 50% di infanzia e il 51% di assistenza sociosanitaria. Ciò è possibile perché 58 delle piattaforme considerate sono impegnate in più settori.

[3] Di solito queste piattaforme sono gestite da enti del terzo settore o amministrazioni pubbliche.

Scritto da
Tommaso Malpensa

Studente del corso di laurea magistrale in Giurisprudenza e allievo del Collegio Superiore dell’Università di Bologna. Ha ricoperto la carica di rappresentante degli studenti del Dipartimento di Scienze Giuridiche e di rappresentante degli allievi del Collegio Superiore dell’Università di Bologna. Ha partecipato al corso 2023 della scuola di formazione “Traiettorie. Scuola di lettura del presente”.

Pandora Rivista esiste grazie a te. Sostienila!

Se pensi che questo e altri articoli di Pandora Rivista affrontino argomenti interessanti e propongano approfondimenti di qualità, forse potresti pensare di sostenere il nostro progetto, che esiste grazie ai suoi lettori e ai giovani redattori che lo animano. Il modo più semplice è abbonarsi alla rivista cartacea e ai contenuti online Pandora+, è anche possibile regalare l’abbonamento. Grazie!

Abbonati ora

Seguici