Scritto da Franco Mosconi
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Molte cose sono cambiate, e stanno tuttora cambiando, in quel campo delle politiche pubbliche che chiamiamo politica industriale. Dimenticata negli anni del trionfo (sic!) del “pensiero unico”, questa fondamentale area di policy ha saputo riguadagnare, passo dopo passo, una sua centralità. Beninteso, non tutto può dirsi definito e molti altri passaggi si rendono necessari, soprattutto al livello dell’Unione Europea, impegnata nell’ormai celebre duplice transizione, ecologica e digitale, e alle prese con le drammatiche conseguenze – umane, sociali ed economiche – sia di due anni di pandemia, sia dell’atroce invasione dell’Ucraina da parte della Russia di Putin. Il tutto vale a fortiori per la nostra Italia. Un’analisi complessiva di tutti questi temi va al di là degli scopi del presente articolo, che si concentrerà su alcuni tratti essenziali della “nuova” politica industriale europea[1]. Difatti, è del 2002 la Comunicazione della Commissione europea presieduta da Romano Prodi[2] che ha riaperto a Bruxelles la pagina della politica industriale dopo molti anni di silenzio sull’argomento[3]. Da allora, tutte le Commissioni che si sono succedute (Barroso, Juncker, von der Leyen) hanno dedicato a quest’argomento numerose Comunicazioni. Nell’insieme, prescindendo dai contenuti puntuali di ogni documento, possiamo anzitutto affermare che è stato progressivamente messo a punto un “approccio integrato”, intendendo con ciò il mix fra un’impostazione “orizzontale” della politica industriale – si pensi al fondamentale completamento del mercato interno europeo – e le sue declinazioni “verticali”, ossia per singoli settori e traiettorie tecnologiche[4]. In secondo luogo, possiamo intravedere come l’aspetto essenziale di questo approccio integrato risieda nel rafforzamento degli investimenti in conoscenza, a cominciare dalle spese in R&S e in istruzione o capitale umano.
La “Sintesi di Jacquemin-Rodrik”: cenni
Negli Stati Uniti d’America, Paese per definizione federalista, la politica industriale è in primis affidata al livello di governo federale. In quel Paese esistono – come ben illustrato da Mariana Mazzucato nel suo Lo Stato innovatore[5] – una serie di leggi federali e rispettive Agenzie con il compito di incoraggiare l’innovazione. Il riferimento va a quelli che l’autrice chiama quattro esempi di successo: la Darpa, il programma Sbir, la legge sui farmaci orfani e la Nni[6]. Più complessa appare la situazione nell’UE. La politica industriale non gode, infatti, nell’architettura istituzionale che regge l’Unione, della stessa forza della politica antitrust e della politica commerciale, due domini di competenza classici per l’UE. La prima, infatti, già disciplinata con il Trattato di Roma del 1958, è stata rafforzata, nel corso del tempo, con i due Regolamenti sulle concentrazioni del 1989 e del 2004; la seconda rappresenta uno dei capisaldi dell’acquis communautaire, l’ambito per eccellenza dove l’UE – come si suol dire – “parla con una voce sola”, basti pensare ai rapporti fra l’UE e l’Organizzazione mondiale del commercio. Vi è stata così una coesistenza europea con le politiche – o le non politiche – nazionali, che vede da ultimo crescenti iniziative dei singoli Stati membri per condizionare il livello europeo[7]. È altrettanto vero però che, dall’Atto Unico Europeo del 1986 in poi, tutta una serie di competenze che possiamo ricondurre a una dimensione microeconomica sono state aggiunte ai Trattati. Di particolare rilievo, come ha notato Giuliano Amato[8], il nuovo titolo XIII del Trattato di Maastricht e il suo (ex) articolo 130: «Esso spiega che cos’è questa politica industriale, la attribuisce ancora agli Stati, e affida tuttavia alla Comunità il compito di promuoverla e di coordinarla […] La nozione di politica industriale viene ancorata a quella di competitività, nozione a sua volta diversa da quella di concorrenza e che tuttavia la richiama».
Partendo da queste più solide basi, l’obiettivo diviene allora quello di rafforzare i tratti sovranazionali e comunitari di questa policy e aumentare i raccordi tra politiche industriali nazionali ed obiettivi europei. Anche in considerazione del fatto che l’industria manifatturiera – sempre più interconnessa con i servizi – è l’attività economica che, più di ogni altra e non da oggi, travalica ampiamente i rigidi confini amministrativi degli Stati membri. E sono le imprese che con le loro strategie di crescita interna e, con intensità crescente, esterna – mediante M&A e joint venture – contribuiscono a creare dei protagonisti sul mercato interno europeo: le grandi imprese e le multinazionali, i cosiddetti campioni europei. Naturalmente, una più robusta competenza dell’UE in questo ambito non esclude di per sé un ruolo per gli Stati nazionali, come d’altronde avviene per numerosissime politiche comunitarie, ivi compresa la citata politica della concorrenza (antitrust, ecc.). Esistono, tuttavia, fondamentali ragioni economiche per compiere questo passaggio verso l’alto, che il compianto Alexis Jacquemin[9], professore di Economia industriale a Louvain-la-Neuve e consigliere economico del presidente Jacques Delors negli anni del completamento del Single Market, individuò più di tre decenni fa. Nel suo libro La nuova economia industriale: meccanismi di mercato e comportamenti strategici e, in particolare al capitolo 6 (Politica industriale e modelli di società), Jacquemin illustrava i due tipi di argomenti in favore di una politica industriale: «In primo luogo, possiamo riferirci al lungo elenco dei cosiddetti “fallimenti del mercato” […] I poteri pubblici potrebbero favorire quelle forme di organizzazione che internalizzano gli effetti esterni delle scelte tecnologiche rilevanti e promuovere lo sviluppo di poli di concorrenza. Essi avrebbero poi un ruolo nel sostenere la ricerca e lo sviluppo nei settori ad alta tecnologia (microinformatica, industria aerospaziale, biotecnologia), caratterizzato da elevati costi fissi e irrecuperabili, attraverso aiuti finanziari e programmi pubblici specifici […] Un secondo tipo di argomenti in favore di una politica industriale positiva va oltre la considerazione dei fallimenti inerenti a certi mercati. Esso concerne le strategie che influenzano deliberatamente la trasformazione e la riorganizzazione industriale dei settori e dei Paesi».
Quello che il compianto Jacquemin scriveva quando l’allora CEE-12 si trovava nel pieno della realizzazione del programma per il Single Market – dal Libro Bianco del 1985 alla storica deadline del 31 dicembre 1992 per la rimozione delle barriere non tariffarie –, vale a maggior ragione oggi. Ciò per almeno due ordini di motivi. Il primo è che il mercato unico europeo è oggi molto più grande essendo nel frattempo l’Europa unita passata – grazie alle successive ondate di allargamento, sino a quella storica del 2004 verso l’Est Europa – da 12 e poi 15 a 28 Paesi (per poi scendere a 27 a causa della Brexit), e da 300 a circa 500 milioni di abitanti. Ebbene, dalla realizzazione di «un’area integrata come quella del mercato unico» – annotano Paolo Guerrieri e Pier Carlo Padoan – discendono «tre diversi effetti: una riallocazione delle risorse; una più elevata efficienza; uno stimolo alla crescita»[10]. Il secondo motivo riguarda la «trasformazione strutturale, l’ascesa cioè di nuove industrie al posto di quelle tradizionali» che è – come ha scritto Dani Rodrik[11] nel suo contributo al dibattito promosso dall’Economist sulla politica industriale – «l’essenza dello sviluppo economico». Il professore della Kennedy School of Government, autore dei due seminal paper che per giudizio condiviso hanno posto le basi della nuova politica industriale per il XXI secolo[12], così proseguiva: «Ma questo non è un processo facile né automatico. Esso richiede un mix di forze di mercato e sostegno governativo. Se il governo è troppo invadente, esso stronca l’imprenditorialità privata. Se è troppo distaccato, i mercati continuano a fare ciò che sanno fare al meglio, confinando il paese alla sua specializzazione in prodotti tradizionali e settori a bassa produttività» (nostra traduzione). È proprio accostando i due autori ora menzionati, che hanno scritto sì in epoche diverse ma condividendo la stessa impostazione schumpeteriana – si pensi alla centralità della “distruzione creativa” per promuovere lo sviluppo economico –, che ho già avuto modo di esporre la Jacquemin-Rodrik Synthesis[13].
Teoria e prassi della (nuova) politica industriale
Rappresenta, pertanto, un obiettivo desiderabile la definizione di una politica per gli investimenti in conoscenza autenticamente europea. I semi sono stati gettati, da un lato, con le modifiche dei Trattati di cui s’è detto (AUE 1986, Maastricht 1992, Amsterdam 1997) e, dall’altro, con la serie di Comunicazioni della Commissione europea di Bruxelles sulla politica industriale, a partire da quella del dicembre 2002 sino alle ultimissime del biennio 2020-2021. A una piena maturazione di questi semi può e deve continuare a concorrere – sul piano dell’elaborazione delle idee – la letteratura economica, mentre è necessaria – sul piano della prassi di governo – la migliore attuazione possibile dei programmi comunitari dedicati alla ricerca scientifica, all’innovazione tecnologica e alla formazione del capitale umano. Dedichiamo una breve riflessione a entrambi questi piani. Il piano dell’elaborazione delle idee, dicevamo. Gli economisti industriali, e non solo loro – molto impegnati sono anche i giuristi –, da alcuni anni stanno dedicando crescenti attenzioni alla nuova politica industriale, una policy vista come indissolubilmente legata ai cambiamenti strutturali in atto, dappertutto nel mondo, nell’industria manifatturiera – basti pensare alla trasformazione digitale e alle scienze della vita. Il tema ha così (ri)guadagnato posizioni nella letteratura economica internazionale. Al contributo dei citati Mazzucato e Rodrik si possono aggiungere, solo per fare altri quattro nomi, quelli di Philippe Aghion, Ha-Joon Chang, Joseph E. Stiglitz e Justin Y. Lin[14]. Un motivo in più per proseguire in questo cammino. Il secondo piano da coltivare al fine di plasmare una (nuova) politica industriale europea è quello fattuale, empirico. Bruxelles gestisce il programma Horizon che ha sostituito i vecchi Framework Programme, a suo tempo giunti alla 7^ edizione. Dopodiché, in piena pandemia, l’UE ha saputo trovare lo slancio per lanciare il Next Generation EU, che nelle sue declinazioni nazionali, ossia i Piani Nazionali di Ripresa e Resilienza, dedica moltissime risorse agli investimenti in conoscenza finalizzati soprattutto alla duplice transizione di cui si è già detto. Ci sono poi le Alleanze Industriali e gli Important Projects of Common European Interest (IPCEI) visti da Bruxelles – come di recente ha sottolineato Gian Paolo Manzella[15] – nella loro dimensione di «strumenti di cooperazione industriale»[16]. C’è, infine, il Chips Act – la Legge Europea sui Semiconduttori – approvato dalla Commissione europea l’8 febbraio scorso nel più ampio contesto di una digital sovereignty da conquistare su scala internazionale[17]. È possibile scorgere, in questo Chips Act, un mutamento di attitudine di non breve momento verso una politica industriale più attiva (o positiva, che dir si voglia), che richiederà tempo sia per essere compresa a tutti i livelli di governo dell’UE, sia per essere concretamente implementata in un così delicato ambito della vita economica – i chip, o semiconduttori, com’è noto, sono componenti essenziali per una miriade di prodotti[18].
Ora, in un mondo ideale i due piani sopra menzionati – idee e fatti o, se si preferisce, teoria e prassi – si influenzano l’uno con l’altro, rafforzandosi a vicenda. A livello europeo, pur con gli inevitabili alti e bassi, questo sta avvenendo da un po’ di tempo a questa parte. Un semplice excursus delle Comunicazioni della Commissione europea pubblicate sulla politica industriale copre un periodo che va dal 2002 al 2022, senza contare gli innumerevoli Staff Working Document pubblicati a supporto dai Servizi della Commissione. Nello stesso arco di tempo il contributo della letteratura economica internazionale si è fatto via via più consistente, con un ruolo di rilievo giocato dagli economisti industriali europei e italiani (a quest’ultimo riguardo, si pensi al contributo degli studiosi raccolti intorno alla rivista l’Industria). Per concludere, questa influenza reciproca – questa contaminazione – fra teoria e prassi è l’unico modo, possiamo aggiungere, per assicurare coerenza e coraggio a una politica industriale che deve necessariamente svilupparsi, come in parte sta avvenendo, al livello sopranazionale di governo europeo, data l’altezza delle sfide che l’UE ha innanzi a sé. E che deve poi – scendendo “giù per li rami” – trovare attori e strumenti sia nazionali che regionali capaci di incoraggiare il cambiamento strutturale; ossia, la scoperta delle cose nuove, processi e prodotti, per il nostro tempo. L’Italia, paragonata all’attivismo in patria di Germania e Francia, appare caratterizzata da una eccessiva timidezza nell’impostare programmi di politica industriale[19]. All’interno del Paese, invece, la Regione Emilia-Romagna ha sviluppato una serie di network (per esempio, Rete Politecnica degli ITS, Rete ad Alta Tecnologia, cooperazioni rafforzate fra gli Atenei regionali, ecc.) e di obiettivi (s3-Strategia di Specializzazione Intelligente, Data Valley, Ecosistema dell’Innovazione) che danno sostanza al nuovo approccio di policy centrato sugli investimenti in conoscenza. Resta, tuttavia, il fatto che alla “seconda potenza manifatturiera d’Europa” – uno dei mantra preferiti dalla classe politica – è richiesto qualcosa in più della sommatoria di una serie di eccellenze regionali, emiliano-romagnole o lombarde o venete – per restare alle tre più importanti Regioni industriali del Paese – che siano.
[1] Per approfondimenti, rinvio alla monografia dedicata alla New European Industrial Policy: F. Mosconi, The New European Industrial Policy. Global competitiveness and the manufacturing renaissance, Routledge, Londra e New York 2015. Si veda inoltre: F. Mosconi (a cura di), Le nuove politiche industriali nell’Europa allargata, Monte Università Parma Editore (2° edizione), Parma 2005.
[2] Commissione europea, Industrial Policy in an Enlarged Europe, COM (2002)714, Bruxelles, dicembre 2002. R. Prodi, La politica industriale nell’Europa dell’allargamento, Discorso pronunciato alla Conferenza organizzata dalla Commissione europea, Speech/03/18, 21 gennaio 2003.
[3] Nel discorso del gennaio 2003 il Presidente Prodi illustrò i contenuti della Comunicazione della Commissione europea (dicembre 2002) soffermandosi, fra le altre cose, sui settori che potevano essere visti come terreno d’elezione per la nascita di nuovi campioni europei: «Biotecnologie e scienze della vita; il settore dell’informazione e della comunicazione; la cosiddetta economia dell’idrogeno; l’industria della difesa; il nostro aerospazio […]».
[4] A titolo esemplificativo, si pensi alla Comunicazione del 2012 che elencava le sei linee prioritarie di azione individuate dalla Commissione: «Tecnologie di fabbricazione avanzate; Tecnologie chiave; Prodotti biologici; Industria sostenibile, edilizia e materie prime; Veicoli puliti; Reti intelligenti», Commissione europea, A Stronger European Industry for Growth and Economic Recovery: Industrial Policy Communication Update, COM (2012)582, Bruxelles, 10 ottobre 2012.
[5] M. Mazzucato, The Entrepreneurial State. Debunking Public vs. Private Sector Myths, Anthem Press, 2013; trad. it., Lo Stato innovatore, Laterza, Roma-Bari, 2014.
[6] Di particolare interesse per le PMI è il programma Sbir, istituito nel 1982 e gestito dall’Agenzia federale per le piccole imprese (SBA-Small Business Administration, creata nel 1953).
[7] Oltre alle politiche dei due Stati membri, va segnalato il Manifesto firmato congiuntamente da Germania e Francia nel febbraio 2019, subito dopo la bocciatura da parte della Commissione europea, nel suo ruolo di Autorità Antitrust, della fusione Siemens-Alstom: Bundesministerium für Wirtschaft und Energie e Ministère de l’économie et des finances, A Franco-German Manifesto for a European industrial policy fit for the 21st Century, 19 febbraio 2019. Per una prima analisi, rinvio a F. Mosconi, Tessendo la tela della nuova politica industriale europea. Il caso di Italia, Germania, Francia, in «l’Industria», N. 4 (2019), pp. 611-632.
[8] G. Amato, Politica industriale e politica della concorrenza nell’Europa unita, in F. Mosconi (a cura di), “Le nuove politiche industriali nell’Europa allargata”, Monte Università Editore Parma, Parma 2005 (2° edizione), pp. 111-124.
[9] A. Jacquemin, The New Industrial Organization. Market Forces and Strategic Behaviour, The MIT Press, Cambridge (MA) 1987; trad. it., La nuova economia industriale. Meccanismi di mercato e comportamenti strategici, il Mulino, Bologna 1989.
[10] P. Guerrieri e P.C. Padoan, L’economia europea. Tra crisi e rilancio, il Mulino, Bologna 2020. Gli autori illustrano l’argomento dell’«unificazione del mercato interno» al capitolo 2 del loro libro, per poi dedicare un’analisi ad hoc all’«allargamento a Est» nel capitolo 5, dove presentano numerosi dati sulle performance dei vari Paesi (PIL, esportazioni).
[11] D. Rodrik, The Economist Debate: “Industrial Policy: This House Believes that Industrial Policy Always Fails”, luglio 2010.
[12] D. Rodrik, Industrial Policy for the Twenty-First Century, John F. Kennedy School of Government, Cambridge, MA, settembre 2004 (poi pubblicato in: One Economics Many Recipes. Globalization, Institutions, and Economic Growth, Princeton University Press, Princeton (NJ), capitolo 4, pp. 99-152. D. Rodrik, Normalizing industrial policy, Commission on Growth and Development, Working Paper No. 3 (2008), Washington DC.
[13] F. Mosconi, The New European Industrial Policy. Global competitiveness and the manufacturing renaissance, Routledge, Londra e New York 2015.
[14] Per questi autori si vedano a titolo esemplificativo: P. Aghion et al., Rethinking Industrial Policy, Bruegel Policy Brief, 16 giugno 2011. H-J. Chang, 23 Things They Don’t Tell You about Capitalism, Penguin Books, Londra 2010. J.E. Stiglitz, J.Y. Lin (a cura di), The Industrial Policy Revolution I. The Role of Government Beyond Ideology, Palgrave Macmillan, New York 2013.
[15] G.P. Manzella (in corso di pubblicazione nel 2022), Sviluppi recenti della politica industriale e “riflessi italiani”.
[16] Manzella precisa che le «Alleanze Industriali sono oggi sviluppate in ambiti come materie prime, batterie ed idrogeno e lo sarà a breve su processori e tecnologie a semiconduttori e su dati industriali, edge e cloud, e, in prospettiva, su lanciatori spaziali e aviazione ad emissioni zero […] Gli IPCEI sono già oggi formalizzati per le batterie e il settore della microelettronica e, nei prossimi anni, sono previsti sui temi del cloud di prossima generazione, dell’idrogeno, dell’industria a bassa emissione di carbonio».
[17] Commissione europea, A Chips Act for Europe, COM(2022) 45 final, Bruxelles, 8 febbraio 2022.
[18] Il dossier pubblicato dalla Commissione sul Chips Act, a partire dalla Comunicazione (Commissione europea 2022) è assai completo (Q&A, Factsheet, Comunicato stampa, ecc.).
[19] Si rinvia a F. Mosconi, Tessendo la tela della nuova politica industriale europea. Il caso di Italia, Germania, Francia, in «l’Industria», N. 4 (2019), pp. 611-632, e alla bibliografia lì pubblicata.