Scritto da Giacomo Cucignatto, Riccardo Mastini
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Riceviamo dagli autori e pubblichiamo come contributo alla discussione questo articolo di Giacomo Cucignatto e Riccardo Mastini.
Nel corso degli ultimi due anni, lo slogan del Green New Deal è stato adottato da molti movimenti di base in tutto il mondo per articolare le loro rivendicazioni concernenti la transizione ecologica: dal Sunrise Movement alla Grassroots Global Justice Alliance, dal The Leap al Green New Deal for Europe, per finire con Fridays For Future. La popolarità di tale slogan ha catturato l’attenzione della classe politica, con manifestazioni di autentico interesse in particolare da parte di alcuni (come nel caso di Bernie Sanders e Jeremy Corbyn).
Quando si è trattato di passare dalla teoria alla pratica, tuttavia, le misure finora adottate si sono rivelate insoddisfacenti, a partire dall’European Green Deal della Commissione UE. Se quasi tutti ormai concordano sul Green New Deal e sull’indispensabile transizione ecologica, c’è grande dibattito sui contorni che esso dovrebbe assumere e sulle modalità della transizione stessa. In questo articolo argomentiamo che il Green New Deal di cui abbiamo davvero bisogno dovrebbe fondarsi sui tre principi non negoziabili e costantemente rivendicati dai movimenti di base: pianificazione economica, giusta transizione ed equità sociale.
La pianificazione economica
Il Green New Deal implica un netto rifiuto dell’approccio neoliberista alla politica economica e riconduce piuttosto la crisi ecologica a un colossale fallimento del libero mercato. Abbiamo la necessità imprescindibile che i governi tornino ad assumere attivamente un ruolo di guida seguendo la prescrizione formulata da Keynes secondo cui «l’importante per il governo non è fare le cose che gli individui stanno già facendo, e farle un po’ meglio o un po’ peggio, ma fare le cose che al presente non vengono fatte per niente». Il Green New Deal va quindi ben oltre le semplici proposte di investire in ricerca e sviluppo, introdurre sussidi, e tassare le emissioni di carbonio. Mentre tutte queste misure possono avere qualche utilità, non possono sostituire il ruolo fondamentale del settore pubblico nel finanziare, coordinare e programmare la trasformazione del sistema infrastrutturale e produttivo.
La transizione ecologica deve essere finanziata dal pubblico poiché la maggior parte degli investimenti necessari sono costosi e non remunerativi nel breve periodo: ciò li rende poco appetibili per un settore privato altamente finanziarizzato e votato alla ricerca immediata del profitto. Si deve sottolineare, però, che non è pensabile socializzare gli investimenti – magari attraverso partenariati pubblico/privato – per poi privatizzare i profitti, una volta che maturino le adeguate condizioni di mercato. Qualsiasi collaborazione che si rispetti prevede la condivisione dei benefici che ne conseguono: questo dovrebbe essere un punto focale che i movimenti per la giustizia climatica non dovrebbero mai perdere di vista.
Inoltre, la transizione deve essere coordinata, poiché la maggior parte delle infrastrutture da trasformare (rete ferroviaria e stradale, rete per la distribuzione dell’acqua e dell’elettricità, ecc.) sono dei monopoli naturali e quindi la presenza di un unico operatore è più efficiente di una pluralità d’imprese. Da tale considerazione deriva la proposta di socializzare le infrastrutture strategiche in sempre più Paesi e municipalità nel mondo. Il coordinamento dell’attore pubblico risulta inoltre indispensabile per garantire che l’insieme dei molteplici interventi necessari rientri all’interno di un disegno politico organico e coerente.
Infine, non si può affidare all’anarchia del mercato la transizione. Dopo decenni di sistematico svuotamento della pubblica amministrazione, una politica economica e industriale che abbia l’ambizione di fornire soluzioni alle problematiche urgenti poste dall’emergenza climatica non può limitarsi a interventi di natura temporanea per correggere i fallimenti del mercato. Si pone infatti la necessità di un ritorno definitivo alla programmazione, così come alla proprietà pubblica, se si intende governare il processo di mutamento che investirà nei prossimi anni l’organizzazione produttiva e la divisione internazionale del lavoro, garantendo al contempo la piena occupazione e salari dignitosi.
Se la pianificazione pubblica costituisce il principio cardine di una transizione strutturale verso un sistema produttivo in grado di entrare in simbiosi coi processi naturali, dobbiamo chiederci: a che punto siamo nel contesto europeo e italiano? A una prima analisi, potremmo affermare che su questo piano non siamo messi così male. Recentemente il Primo Ministro Draghi in Senato ha affermato senza giri di parole «che la transizione digitale, quella ecologica e le altre grandi sfide globali non si possono affrontare con successo senza un profondo e massiccio intervento dello Stato».
Al di là delle parole, che spesso lasciano il tempo che trovano, il Next Generation EU, la nuova Strategia industriale europea, il Green Deal europeo e gli interventi industriali specifici in alcuni settori ritenuti strategici – la strategia per l’idrogeno e quella per le batterie su tutti – sembrano confermare un ritorno alla programmazione sul medio e sul lungo periodo, mettendo in discussione la capacità del mercato di guidare le transizioni ecologiche e digitali.
Allo stesso modo, la Nota di Aggiornamento al Def 2021 recentemente elaborata dal Governo Draghi si pone nello stesso solco, per esempio quando si afferma che «il Governo intende fornire una maggiore stabilità e pianificazione delle scelte per la transizione energetica tramite l’introduzione di una programmazione quinquennale, al fine di favorire gli investimenti nel settore» (p. 121). Ma non basta il ritorno alla programmazione a garantire che l’intervento pubblico sia orientato a definire una transizione socialmente sostenibile. Bisogna interrogarsi su quali siano le finalità di tale intervento pubblico e i soggetti che ne beneficiano maggiormente.
La giusta transizione
La trasformazione radicale del tessuto produttivo che la transizione ecologica implica avrà infatti ripercussioni drammatiche per molti lavoratori. Per tale ragione il Green New Deal è un programma all’insegna del principio della transizione giusta: i lavoratori di quei settori che verranno soppressi o ridimensionati devono necessariamente essere tutelati e impiegati in nuovi “lavori verdi”. La buona notizia è che i dati ci rivelano che un euro investito nella transizione ecologica produce molti più posti di lavoro dei tanti euro con cui continuiamo a foraggiare le industrie inquinanti. La produzione e installazione d’impianti energetici da rinnovabili, l’efficientamento degli edifici, le riparazioni di oggetti ed elettrodomestici, l’agroecologia su piccola scala, ecc. sono attività che possono creare molti posti di lavoro, peraltro difficili da delocalizzare e da automatizzare.
La “cattiva” notizia è che la transizione ecologica nel breve e nel medio periodo implica anche la chiusura di impianti e attività più inquinanti nel comparto manifatturiero ed energetico: la natura sostitutiva dei posti di lavoro creati grazie alla transizione ecologica rende difficile valutare quale sarà il saldo occupazionale netto di questa profonda trasformazione. Proprio per questa ragione, negli Stati Uniti il Green New Deal è ormai indissolubilmente legato alla Garanzia universale di lavoro (job guarantee), che in Italia alcuni hanno denominato “lavoro di cittadinanza”.
Tale proposta, elaborata originariamente da Minsky, attribuisce allo Stato il ruolo di datore di lavoro di ultima istanza e configura un programma pubblico di creazione diretta di lavoro, che impieghi su base volontaria tutte le persone che siano in grado di lavorare, così come sono, a prescindere dalle competenze e senza alcun tipo di condizionalità. Nell’approccio di Minsky, la proposta è finalizzata al raggiungimento e al mantenimento della piena occupazione, unico strumento ritenuto efficace contro la diffusione della povertà. Negli ultimi anni, tale proposta è stata rielaborata per risolvere il convenzionale trade-off tra lavoro e ambiente, ossia per coniugare piena occupazione, sostenibilità ambientale e qualità del lavoro.
La Garanzia di lavoro garantisce una maggiore flessibilità sistemica introducendo un bacino di occupazione pubblica discrezionale, che può essere indirizzato dal governo verso attività che utilizzano risorse naturali e fonti energetiche rinnovabili (FER) e che sono caratterizzate da un impatto ambientale nullo o minimo in termini di emissioni. La proposta ha inoltre il merito di configurare un piano pubblico per l’occupazione finalizzato a modificare la composizione del prodotto e i metodi di produzione per affrontare l’emergenza climatica, così come le altre grandi sfide del presente, mettendo al centro il lavoro di cura.
La pandemia e la crisi ecologica hanno rivelato che abbiamo un disperato bisogno di una trasformazione economica che metta al centro l’attività di riproduzione socio-ecologica – la messa in sicurezza del territorio, il riciclo dei rifiuti, e le filiere di approvvigionamento energetico e alimentare di prossimità, nonché istruzione, cultura, e salute – piuttosto che la produzione di beni di consumo. È tempo di prendersi cura sia delle persone che del pianeta.
La cura può diventare il segno distintivo di un’economia basata sul sostentamento del vivente, piuttosto che sull’espansione delle merci, sui servizi più che sui prodotti. Le attività di cura sono ad elevata “intensità di lavoro” e risulta perciò evidente il loro potenziale nel ridurre la disoccupazione favorendo al contempo la creazione di una società più vivibile. La Garanzia universale di lavoro garantirebbe dunque che il saldo occupazionale netto della transizione ecologica rimanga sempre positivo.
L’equità sociale
Il terzo elemento qualificante di un Green New Deal è che la transizione ecologica sia all’insegna della giustizia ambientale. Vi è infatti un rapporto diretto fra censo e livelli di emissioni personali, e quindi di responsabilità per la crisi ecologica (paradigmatico è il caso delle emissioni generate dal settore dell’aviazione). In Italia il 10% dei cittadini più ricchi emette in media 18 tonnellate di CO2 pro capite all’anno, mentre invece il 40% più povero ne emette in media solo 4. Al contempo vi è invece un rapporto inverso fra ricchezza personale e vulnerabilità ai disastri ambientali.
Il fatto che le classi sociali più povere siano più vulnerabili alla crisi ecologica deriva dal fatto che la ricchezza funge da ammortizzatore fra un cittadino e la sua esposizione al rischio. Come ha l’Agenzia europea dell’ambiente, le persone a basso reddito tendono ad essere maggiormente colpite dai rischi ambientali per la salute. Infatti, i più poveri hanno maggiori probabilità di essere esposti all’inquinamento, dipendono maggiormente da servizi pubblici sempre più scarsi, e le loro abitazioni tendono ad essere di qualità inferiore. Il riscaldamento globale non fa che peggiorare le cose: le estati sempre più torride colpiranno più duramente le persone a basso reddito che vivono in appartamenti non ventilati e che fanno mestieri logoranti. Ne consegue che chi ha generato la crisi climatica debba sobbarcarsene i costi e che i più vulnerabili ricevano aiuto nel navigare un’epoca di profonda trasformazione economica e di più frequenti disastri ambientali. Piuttosto che la carbon tax, la tassazione da utilizzare è perciò quella sui redditi e sul patrimonio per ridurre il potere d’acquisto di coloro che inquinano in maniera spropositata e redistribuire tale ricchezza a coloro che vivono in condizioni di precarietà. Se la transizione vuole essere socialmente sostenibile, è perciò necessario stabilire un nesso fra la disuguaglianza economica e la responsabilità per la crisi ecologica. Ciò che è successo in Francia con le proteste dei gilets jaunes dovrebbe essere di monito a coloro che trascurano la centralità della questione sociale nella transizione.
Coerentemente con queste premesse, il Green New Deal deve rifiutare di ridurre la transizione ecologica ad una questione di stili di vita individuali, che rischia di avere derive elitiste e quindi alienare la maggioranza dei cittadini. Per costruire un programma ecologista e progressista è innanzitutto necessario indicare l’élite economica e politica nazionale come responsabile dell’inazione di fronte all’emergenza climatica. Questo spostamento della frontiera di conflitto – dalla denuncia dei comportamenti individuali alla denuncia dell’assenza di cambiamenti strutturali – è il primo passo verso l’allargamento dell’ecologia alle classi popolari.
In termini di strategia politica, il Green New Deal ambisce quindi a radunare una coalizione eterogenea di cittadini che va dall’operaio disoccupato delle aree deindustrializzate, a cui si prospetta un “lavoro verde”, al giovane laureato che vive in un centro urbano, che si preoccupa della crisi ecologica per sé stesso e per i propri figli. La Garanzia di lavoro permetterebbe inoltre di ricomprendere i lavoratori nei servizi di cura della persona, sempre più a carico delle donne – a livello formale e informale – a causa delle carenze del servizio pubblico nazionale. Queste ultime sarebbero dunque tra le prime beneficiarie dell’introduzione del programma. Forse non riusciremo mai a far appassionare una maggioranza di cittadini ad astrusi modelli climatici, ma sicuramente possiamo ottenere il consenso popolare a favore di un grande progetto infrastrutturale pubblico e verde per i servizi essenziali alla resilienza socio-ecologica.
Conclusioni
Il Green New Deal sarà inevitabilmente un “compromesso di classe” fra mobilitazioni dal basso e i gruppi più lungimiranti dell’élite economica e istituzionale. Non è auspicabile né respingere il Green New Deal, poiché non sufficientemente ambizioso, né accettarlo acriticamente. Piuttosto è utile tenere a mente che le forme che assumerà in ogni paese saranno il risultato della forza con cui i movimenti per la giustizia climatica e sociale – Fridays for Future, Extinction Rebellion, i comitati contro le grandi opere inutili e dannose, quelli contro le nocività, i sindacati – riusciranno ad imporre le proprie rivendicazioni a livello nazionale.
Per una riforma complessiva del capitalismo o un suo definitivo superamento, i movimenti per la giustizia climatica dovranno certamente porre al centro delle loro considerazioni strategiche lo Stato, tenendo tuttavia bene a mente che negli ultimi decenni le istituzioni pubbliche sono state sempre più cooptate da interessi oligarchici. Le élite politiche potranno esercitare la loro relativa autonomia dal capitale e dalle sue considerazioni di profitto immediato solo se poste sotto sufficiente pressione dal basso. Lo Stato disciplinerà il capitale solo se minacciato. Il sentiero per una transizione ecologica socialmente orientata è terribilmente stretto e necessita di conseguenza di una notevole lungimiranza strategica da parte dei movimenti e dei soggetti che vorranno farsene promotori.