“L’urbanista socialista” di Michele Achilli
- 17 Maggio 2019

“L’urbanista socialista” di Michele Achilli

Recensione a: Michele Achilli, L’urbanista socialista. Le leggi di riforma 1967 – 1992, Marsilio, Venezia 2018, pp. 160, 16 euro (scheda libro)

Scritto da Alberto Bortolotti

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Il saggio L’urbanista socialista. Le leggi di riforma 1967-1992 di Michele Achilli è un diario politico e, più precisamente, una cronaca narrata in prima persona, della storia della politica urbanistica italiana nella Prima Repubblica.

Questo saggio rappresenta dunque la memoria di un importante periodo di riformismo dimenticato, quasi cancellato dai posteri, quello della “grande urbanistica repubblicana”, una fase politica che ha segnato profondamente il disegno urbano delle regioni, province e città italiane.

L’urbanista socialista è il diario di Michele Achilli, architetto e urbanista, Professore di Urbanistica del Politecnico di Milano e importante dirigente politico milanese del Partito Socialista Italiano (PSI), figura centrale del processo di riforme che, nel Secondo Dopoguerra, portò all’emanazione della Legge Ponte – superamento della Legge Fondamentale dell’urbanistica del ’42 – alla Legge 507/1968, alla Legge 865/1971, nonché ad una serie di proposte di legge e provvedimenti parlamentari operativi per i piani territoriali, il contenimento del consumo di suolo – oggi diremmo dello sprawl urbano – e gli espropri, l’equo canone, la rendita fondiaria, il verde pubblico, la salvaguardia dei parchi e su molte altre voci inerenti la questione urbanistica.

Michele Achilli, eletto parlamentare per sette legislature consecutive (dalla IV alla X), ricoprendo gli importanti incarichi di Vicepresidente della Commissione Lavori Pubblici alla Camera dei Deputati e Presidente della Commissione Affari Esteri del Senato, ripercorre gli avvenimenti di quegli anni con precisione e passione, sottolineando la grande operazione di responsabilità politica che il PSI svolse nell’approvazione delle importanti riforme citate, senza le quali oggi vivremmo in un contesto architettonico e edilizio totalmente diverso.

Come ammette lo stesso Achilli nel libro, nonostante vi siano state molte carenze politiche caratterizzate da un immobilismo decisionale nel continuo e ambiguo rimpallo tra la Democrazia Cristiana (DC) e il Partito Comunista Italiano (PCI) che affronteremo tra poco, la politica urbanistica di quegli anni rappresentò una svolta riformatrice tesa ad una visione socialdemocratica del governo del territorio e del diritto alla casa; un’azione politica che, non a caso, era accompagnata dagli anni della Contestazione e della collaborazione tra la classe politica, i sindacati e le associazioni di categoria – i corpi intermedi – per tutelare l’interesse nazionale da una comprovata speculazione sulle rendite fondiarie, stimolata dal boom economico del Secondo Dopoguerra.

Sin dalle prime pagine del saggio, è importante rimarcare come l’autore contestualizzi assiduamente la prassi politica rispetto allo scenario culturale attorno al quale gravita il dibattito parlamentare relativo all’urbanistica, strettamente legato a tre sfere sociali: il mondo accademico dell’Istituto Nazionale di Urbanistica – diretto all’epoca da importanti urbanisti come Giovanni Astengo, Marco Romano e Bruno Zevi – la Lega dei Comuni Democratici, i cui esponenti erano professionisti, amministratori locali socialisti e comunisti come Luigi Piccinato e Giulio Redaelli e, infine, l’apparato dello Stato del Ministero dei Lavori Pubblici, del quale all’epoca Michele Martuscelli era a capo della Direzione Generale Urbanistica.

In questo senso, l’attività parlamentare di Achilli costituisce la sintesi di questi tre ambiti, la forte preparazione legislativa e tecnica – data dai tanti anni di attività professionale al fianco di Guido Canella – l’impegno nell’università, il dialogo con l’INU e la militanza nel PSI rappresentano forse il motivo per cui la sua azione politica risultò efficace e determinante all’approvazione delle importanti riforme citate.

La Legge Ponte e le norme sulla disciplina urbanistica

Quando Michele Achilli venne eletto alla Camera poco più che trentenne, subentrando al famoso esponente partigiano socialista Alcide Malagugini, era già in discussione quella che ancora oggi rappresenta una delle riforme urbanistiche più importanti emanate nell’Italia repubblicana: la Legge 765/1967 del 6 agosto 1967, meglio nota come “Legge Ponte”.

Nel corso del quinquennio dei governi di centrosinistra a guida Aldo Moro (1964-69), la prassi politica sembrava essersi rallentata e, con essa, il dibattito sulla politica urbanistica italiana. Tuttavia, il dramma della frana di Agrigento del 19 luglio 1966 – poco dopo l’inizio del Governo Moro III – segnò l’avvio dell’iter parlamentare che portò all’approvazione della Legge Ponte l’anno successivo. Appena dopo il disastro, il Ministro dei Lavori Pubblici, l’allora esponente socialista Giacomo Mancini, si presentò in aula rimarcando la necessità di una nuova legge urbanistica – anche in forma di decreto legge – che potesse regolamentare l’incontrollata espansione edilizia dell’epoca, ossia la causa originaria della frana di Agrigento.

L’urgenza dell’intervento parlamentare portò poi alla nascita della legge chiamata “Ponte” verso la definitiva Legge Urbanistica che non verrà mai emanata.

In quel periodo, il neoeletto Deputato Achilli, vista la nota esperienza professionale, fu assegnato alla VI Commissione della Camera (Lavori Pubblici), nella quale ebbe modo di proporre importanti modifiche al testo della Legge Ponte portato in Parlamento dal Ministro, tra cui: misure efficaci per la demolizione di opere abusive, norme restrittive per le lottizzazioni di aree in assenza di piani particolareggiati, l’obbligo di assunzione da parte del proprietario costruttore degli oneri per le urbanizzazioni primarie e secondarie, limitazioni alle volumetrie e dimensioni dei fabbricati nei comuni privi di strumenti urbanistici, nonché la prescrizione di standard urbanistici nella formazione dei piani regolatori.

 Sulla scorta di questo impulso riformista, il Governo presenta successivamente il disegno di legge “Norme per una nuova disciplina urbanistica” per introdurre ulteriori strumenti urbanistici tesi a regolamentare soprattutto i piani particolareggiati e le indennità di espropriazione; un disegno di legge che tuttavia, visto l’orizzonte di scadenza della Legislatura, vedrà la sua approvazione nella Legge Tappo, una forma incompleta rispetto agli obiettivi prefissati, sintetizzati attraverso il vincolo di durata quinquennale del Piano Regolatore comunale.

In questo scenario di fine Legislatura, coerentemente con il proprio ruolo propositivo all’interno della VI Commissione, l’autore stesso presenta la proposta di legge parlamentare dal titolo “Norme aggiuntive in materia di piani territoriali di coordinamento”, approvata poi come Legge 507/1968 in data 2 aprile 1968. L’entrata in vigore della Legge Ponte obbligava, infatti, il Ministero dei Lavori Pubblici ad accelerare i tempi per l’esame delle pratiche relative la formazione dei piani territoriali e, questa legge, risultò determinante per il loro coordinamento.

Il rapporto PCI – PSI nella politica urbanistica italiana

Durante il periodo delle riforme urbanistiche citate nel paragrafo precedente, vi fu sempre un rapporto ambiguo tra la maggioranza, rappresentata da DC, PSI, Partito Socialista Democratico Italiano (PSDI) e Partito Repubblicano Italiano (PRI), e la “minoranza collaborativa” del PCI. Come ricostruisce bene l’autore nel proprio libro, l’iter parlamentare che portò all’emanazione della Legge Ponte ne è un significativo esempio.  Sebbene, infatti, il PCI avesse un ruolo collaborativo rispetto alle politiche portate avanti dal PSI all’interno delle amministrazioni locali, soprattutto in materia di politica urbanistica – tanto da costituire con quest’ultimo la Lega dei Comuni Democratici –, in sede parlamentare il PCI ebbe un atteggiamento discutibile proprio nel percorso che portò all’approvazione della Legge Ponte, la quale, non a caso, venne votata in seconda lettura dalla VI Commissione con lo scarto di un solo voto. Questa situazione si verificò poiché, in seguito all’astensione dell’ala destra della DC – che non voleva minacciare in alcun modo gli interessi immobiliari speculativi dell’epoca – il PCI decise di porsi sullo stesso piano dei liberali (contrari) e votò contro la legge, verosimilmente per ragioni tattiche, mirando a mettere in difficoltà il governo.

La dimostrazione dell’imbarazzo politico creato dal PCI si evinse ulteriormente in seguito alle dichiarazioni favorevoli alla Legge Ponte espresse da alcuni noti esponenti comunisti del mondo accademico, come quella del Presidente dell’INU Edoardo Salzano, il quale, nella Prefazione del volume “Gli Standard Urbanistici”, definì la suddetta legge come “una conquista” nel campo dell’urbanistica. 

Michele Achilli e la questione urbanistica

LUrbanista socialista rappresenta una preziosa cronaca del periodo che ha forgiato l’urbanistica italiana contemporanea. La fedele ricostruzione dei fatti e del contesto politico-culturale aiuta il lettore a capire l’importanza di quella azione legislativa e, allo stesso tempo, quanto questa fu incompleta nella risoluzione dei problemi che, ancora oggi, rimangono irrisolti, come l’equo canone, il tema della rendita fondiaria e l’abusivismo edilizio, per citarne alcuni.
Vi è infine un’altra macro-questione che attraversa tutto il saggio, quella legata al rapporto Stato-comuni. L’operazione legislativa che portò alle modifiche e agli aggiustamenti della Legge Ponte godette di una collaborazione tra Parlamento, Governo e amministrazioni locali. Questa sinergia tra forze politiche, all’interno dei grandi partiti storici – che avevano soprattutto il ruolo di propulsori di elaborazione politica – permise di risolvere la complessità della questione urbanistica che, con la successiva costituzione operativa delle Regioni, di fatto, ha visto un suo deperimento nel dibattito politico.
La delegazione della materia urbanistica alle Regioni ha permesso una variegata declinazione degli strumenti urbanistici tale da rendere quasi impossibile una regia unica nazionale dello sviluppo territoriale, un’impostazione legislativa che si è successivamente accentuata nel cosiddetto “Modello Lombardo”[1] dei Piani di Governo del Territorio (PGT) andando a smarcare ulteriormente il livello nazionale da quello locale.

In conclusione, L’Urbanista socialista non è solo un saggio che ricostruisce il punto di arrivo del dibattito urbanistico in Italia, ma anche una guida indirizzata ai futuri legislatori e ai politici, con la speranza che questi saranno in grado di riaprire il dibattito sulla questione urbanistica per elaborare una nuova strategia nazionale.


[1] Impostazione urbanistica fondata sulla frantumazione della pianificazione urbana nelle mani dei comuni e raccordata da deboli piani territoriali regionali, contrapposta al “Modello Tosco-Emiliano” che, al contrario prevede una significativa regia regionale.

Scritto da
Alberto Bortolotti

Laureato in architettura con una tesi in urbanistica al Politecnico di Milano, è vicepresidente dell’Ordine degli Architetti di Milano. È attualmente dottorando in urbanistica e politiche urbane presso il Dipartimento di Architettura e Studi Urbani (DAStU) del Politecnico di Milano. È stato visiting scholar presso il Public Governance Institute di KU Leuven e il Dipartimento di Geografia Umana, Pianificazione e Sviluppo Internazionale dell’Università di Amsterdam. Prima di entrare nell’ambiente accademico, ha lavorato come architetto, urbanista, consigliere politico e ricercatore, sia per istituzioni pubbliche che private come il Ministero della Cultura italiano, il Parlamento Europeo e la Fondazione Feltrinelli. È autore di: “Modello Milano? Una ricerca su alcune grandi trasformazioni urbane recenti” (Maggioli 2020).

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