Variazioni sul concetto di “sviluppo”: grovigli, pratiche, concetti concreti. Intervista a Massimiliano Tomba
- 27 Novembre 2023

Variazioni sul concetto di “sviluppo”: grovigli, pratiche, concetti concreti. Intervista a Massimiliano Tomba

Scritto da Silvestre Gristina

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Il termine “sviluppo” ha origini antiche ma, come evidenziato da molti autori, nella modernità ha assunto la forma di un concetto polemico e politico, attraversando la storia del discorso politico occidentale e potendo essere considerato, almeno dall’Illuminismo in poi, uno dei perni intorno ai quali è andata a costituirsi e strutturarsi la costellazione dei concetti politici moderni e, in generale, il canone del moderno. Dal Settecento in avanti, il concetto di sviluppo sembra essersi legato strettamente ai concetti di “progresso”, di “crescita”, di “evoluzione” e “miglioramento”, presentandosi come un groviglio di stratificazioni semantico-lessicali. In questa intervista questi nodi tematici e alcune loro possibili declinazioni concettuali vengono affrontati da Massimiliano Tomba, Professore e Chair del Dipartimento di History of Consciousness all’Università della California, Santa Cruz che si è a lungo occupato di tempo e temporalità, marxismo, teoria critica e pensiero politico moderno e contemporaneo ed è autore, tra le sue numerose opere, di Insurgent Universality. An Alternative Legacy of Modernity (Oxford University Press 2019) e Strati di tempo. Karl Marx materialista storico (Jaca Books 2011).


L’etimologia del termine sviluppo deriva dal termine viluppo, il quale indica un intreccio confuso di fili, un ammasso intricato. Infatti, il termine deriva dal verbo latino volvere che letteralmente significa “far girare” (nel senso di avviluppare). Quindi lo s-viluppo indicherebbe lo scioglimento di questa matassa e, quindi, la soluzione di un blocco, di un intreccio, per la produzione di uno svolgimento lineare, senza nodi. Inoltre, la ricerca sull’origine etimologica del termine viluppo include l’ipotesi di un “viluppo” tra il latino volvere, e un altro termine dal latino tardo, faluppa “scarti di paglia”, fili confusi e non ordinati. Rispetto a questo secondo termine – derivato anch’esso da volvere – lo s-viluppo, sarebbe uno “scartare”, “eliminare”, “mettere da parte” fili di paglia non utili, perché contrari all’ordine. Partendo da queste origini antiche, come emerge anche in suoi lavori come Insurgent Universality, il concetto di sviluppo fattosi polemico e politico diventa uno dei perni del canone della modernità. Lo sviluppo, declinandosi nelle sue accezioni politiche, economiche, industriali e sociali, si pone come l’elemento principale della narrazione – o della auto-narrazione, che assume evidenti tratti ideologici – di una modernità occidentale vista come vettore unitario di progresso della storia mondiale. Per cercare di fare chiarezza sulla genesi del concetto, vorrei cominciare ponendole una domanda sulla sua storia, sulle transizioni-rotture che hanno caratterizzato la sua “metamorfosi”. Quali sono le più significative definizioni moderne del concetto di “sviluppo” e quali i più rilevanti smottamenti interni al concetto che hanno contribuito alla genesi del dispositivo concettuale “sviluppo-progresso”?

Massimiliano Tomba: Mi sono annotato tre punti. Il primo riguarda l’etimologia del termine sviluppo da viluppo che indica un intreccio confuso. Dopodiché c’è lo s-viluppo che indica scioglimento. E infine c’è anche una terza stratificazione, che è quella dello scarto, dell’eliminazione. Gli scarti di paglia della faluppa. A questo punto ci sono tre nozioni che si sovrappongono o che coesistono una accanto all’altra: intreccio confuso, scioglimento e scarto. Ora la questione è come riarticolare questi tre termini. Non si tratta semplicemente di decostruire la nozione di sviluppo-progresso, tornando all’intreccio confuso. L’intreccio confuso va comunque sciolto, ma ciò di cui abbiamo bisogno non è una sorta di decostruzione dello sviluppo e celebrazione della confusione. Non si tratta di moltiplicare i fili di paglia, pensando che questa moltiplicazione costituisca già di per sé una soluzione. La questione è lo scioglimento, cioè come pensare una diversa nozione di sviluppo e, al tempo stesso, essere consapevoli che lo scioglimento della matassa richiede scarto. Non possiamo prescindere dal fatto che ci sono e ci saranno degli scarti. Se pensiamo a che cosa è un canone, della letteratura, della filosofia politica, del pensiero filosofico: un canone è costituito da scarti. Ma il canone alternativo – l’anticanone – non è il canone che non scarta nulla. Probabilmente è impensabile un canone del genere, perché dove termina l’inclusione? Non basta moltiplicare i fili dell’intreccio, le temporalità, includere “tutti” gli esclusi. Chi è l’ultimo escluso da includere? Il secondo livello della sua domanda: come, quando e perché la nozione moderna di sviluppo è diventata una nozione politico-polemica? Io credo che questa sia una questione molto importante. Dire che il concetto moderno di sviluppo sia un concetto politico e polemico è quasi ridondante, perché è la modernità stessa che si è costituita e si è auto-rappresentata come concetto politico polemico. La modernità occidentale, iniziata in Europa nel Sedicesimo secolo, si è auto-costituita, contrapponendosi all’immagine delle Americhe come continente da esplorare e da conquistare, la cui storia deve essere scritta. È un’immagine usata anche da De Certeau: l’America come pagina bianca, la cui storia deve essere completamente scritta. Al proprio interno, la modernità ha inventato e si è contrapposta al Medioevo come il secolo dell’oscurità in contrapposizione alla luce della modernità. La modernità ha proiettato tutti i propri malanni e i propri aspetti peggiori nel Medioevo. Medievale è sinonimo di arcaico e oppressivo. Qualcosa di barbarico da civilizzare. Ora, questa operazione agisce come una sorta di ideologia perché opera nella concettualizzazione del materiale storico sulla base della concezione unilineare del tempo.

 

È evidente che quindi la modernità sia intrecciata nella sua costituzione e auto-narrazione al problema dello sviluppo progressivo, cioè del miglioramento. E, come lei diceva, questo concetto di sviluppo ha investito inevitabilmente il piano della storia e il concetto stesso di storicità, che ha contribuito alla figurazione di una linea temporale corredata di una freccia che punta in avanti. Questo modello è servito a sciogliere una matassa di fili e a permettere quella che lei ha chiamato una “narrazione”. Una ricamatura dell’intreccio, che semplifica la storia, perché la scioglie, eliminando quelle che sono le diverse opzioni, le diverse sovrapposizioni e stratificazioni; presenta la storia come uno svolgersi direzionato verso un progressivo miglioramento. Quindi, per approfondire questo aspetto, quali sono gli effetti politici concreti di questo modello di temporalità lineare e pre-direzionale che anima o che riempie il concetto moderno di sviluppo?

Massimiliano Tomba: Se prendiamo per buono quanto Koselleck ci insegna rispetto alla storia concettuale del termine progresso, questo termine, Fortschritt, “procedere in avanti”, inizia ad affermarsi in Germania con Kant. Esso serve per dare senso alla storia. Ora la cosa interessante è questa: perché ad un certo punto c’è bisogno di una nozione di progresso o di sviluppo in grado di dare direzione al movimento storico? Probabilmente questo avviene perché la cosiddetta modernità si è costituita come cesura rispetto al passato, come cesura rispetto a un ordine esistente, distruzione di punti di riferimento e di tradizioni. I pensatori della prima età moderna erano in guerra contro la tradizione aristotelica: Hobbes, Descartes, Gassendi. Ma anche Lutero. La modernità inizia con una sorta di potente tabula rasa. Ora, la questione è molto semplice: se la modernità inizia con questa tabula rasa, inizia anche con una distruzione di punti di riferimento e di orientamento. A questo punto c’è bisogno di una nuova bussola per orientare pensiero e azioni. E le nozioni di tempo assoluto, poi di sviluppo, poi di progresso, forniscono una nuova autorità. Una direzione. È quanto avviene in modo esplicito nella filosofia della storia di Hegel, dove il progresso, il movimento dello spirito, è ciò che dà autorità al divenire, alla successione di stadi storici. Si tratta di una sorta di teleologia al contrario, cioè costruita a partire dal presente. Ora, a mio avviso, uno dei problemi del nostro presente riguarda la rappresentazione del tempo storico. Tradizione e progresso sono stati appropriati da forze politiche contrapposte. La tradizione, il passato è un qualcosa di romantico, di destra. Il progresso e il futuro sono o sono stati i dispositivi di orientamento della sinistra. Dico “sono stati” perché probabilmente la nostra riflessione parte dal fatto che progresso e futuro non sono più sufficienti come principi di orientamento. Ed è su questa base che stiamo avendo questa discussione, che stiamo ripensando il modo in cui la modernità si è auto-rappresentata, il modo in cui per un certo periodo di tempo nozioni come progresso e sviluppo hanno funzionato come dispositivi di orientamento, ma oggi non lo sono più. Questo ci impone di ripensare tempo e storia. Prima ha usato un termine in relazione all’intreccio confuso: il termine è “ricamatura”. Ecco, occorre una sorta di differente ricamatura di questo intreccio di fili. Una nuova ricamatura richiede un altro principio d’ordine. Cioè, mettiamola in questi termini, quanti sono i ricami e gli intrecci possibili? Questo significa che, quando decidiamo per un ricamo, per una ricamatura, interveniamo nel materiale storico e, quindi, ancora una volta, torna in campo il fatto che lo scioglimento dell’intreccio confuso richiede anche scarti e scelte. Non possiamo prescindere da questo. Pensare un approccio storiografico che non scarti significa muoversi verso un’operazione infinita di moltiplicazione dei punti di vista. Non è questa la soluzione. Bisogna piuttosto pensare a una diversa ricamatura. Una ricamatura che possa aprire possibilità per il presente.

 

Rispetto alla narrazione moderna e occidentale dello sviluppo e a questa concezione monolitica della temporalità lineare, vi sono forme economiche, sociali, giuridiche e politiche alternative al canale della modernità che hanno convissuto e convivono con la società industriale, con lo Stato moderno e vengono considerate pre-moderne, sottosviluppate, ovvero ferme a stadi o gradi arretrati sulla linea di sviluppo. Giocando un po’ con i termini che abbiamo mobilitato, il canone occidentale ha fatto di tutta la storia un unico fascio, eliminando gli scarti di paglia, che rimangono, però, come potenzialità storiche e concezioni di temporalità differenti o contrari al modello dello sviluppo occidentale. A proposito di questo ultimo punto, lei pensa che sia possibile rintracciare nella storia del pensiero o della politica dei modelli concettuali di temporalità alternativi? E a partire da questi è possibile recuperare o riattivare delle concezioni di sviluppo, di scioglimento che non prevedano un progresso lineare? Cioè, è possibile ripensare il concetto di sviluppo senza vederlo schiacciarsi sulla nozione del progresso e quindi senza vederlo allearsi con un tipo di temporalità lineare che è specifica del canone della modernità e del canone occidentale?

Massimiliano Tomba: Tornando a Hegel, la nozione hegeliana di “superamento”, quando è applicata alla storia, opera chiaramente come una sorta di teleologia inversa, e questo già a partire dal modo in cui, nella Fenomenologia dello spirito, Hegel affronta la tragedia di Antigone, dove i termini del conflitto sono preordinati a partire dall’esito. E l’esito è il diritto romano. Cioè il conflitto non sanabile tra leggi della città, di Creonte, e legge degli inferi, della famiglia, dei parenti, di Antigone, è risolto nella figura successiva in cui gli individui diventano soggetti di diritto e il diritto diventa diritto astratto, diritto romano. Io credo che, quando Hegel scrive questo pezzo di storia e ci fornisce l’immagine di Antigone, avesse in mente un conflitto ancora aperto ai suoi tempi, cioè il conflitto tra pezzi di diritto consuetudinario, ancora presenti in Germania, e l’affermazione di un nuovo diritto, costruito sul modello del diritto civile, del codice francese. Ma questo è il modello: uno scontro tra paradigmi legali. E il conflitto era talmente chiaro che ancora Marx, quando scrive il pezzo sui furti di legna per la Reinische Zeitung, ha in mente questo conflitto tra il diritto consuetudinario di prendere legname dalle foreste e il nuovo diritto di proprietà privata che, invece, considera un furto ciò che per centinaia d’anni era stato un diritto tradizionale. Ad ogni modo, Hegel ricama la storia in una determinata maniera e lo fa anche quando definisce – e qui vediamo ricamo e scarto – Lutero e la riforma come il punto di partenza del principio della libertà soggettiva e quindi della modernità. Questo inizio del ricamo della storia presuppone già l’esclusione di un’alternativa concezione o pratica della libertà, che è quella dei contadini tedeschi del 1525. Quindi il ricamo di una determinata costruzione storica, linearità storica, presuppone lo scarto. La questione interessante è questa: cosa significa avere una ricamatura alternativa? Significa includere una mezza paginetta per ricordare che Müntzer è stato ammazzato e migliaia di contadini tedeschi massacrati? No, questo è semplicemente il gioco di includere gli esclusi. Io credo che qui la cosa diventi un po’ più complicata in termini di immagine, perché, anche se l’immagine della ricamatura mi piace, ora abbiamo bisogno di un’immagine più sofisticata, perché quello che lì avviene è una tensione tra paradigmi politici, legali, teologici incompatibili fra loro. Quello che avviene durante la guerra dei contadini è uno scontro tra paradigmi incompatibili, tra pratiche della libertà incompatibili. Quando i contadini presentano le loro dodici tesi, uno degli articoli afferma: “siamo liberi e vogliamo essere liberi”. È un attacco alla servitù. Quando Lutero commenta questi articoli si infuria. Per lui abolire la servitù – e quindi la proprietà che il signore ha sul corpo dei servi – è un furto nei confronti del padrone – e questo è l’argomento legale. Da un punto di vista teologico, Lutero replica che la libertà è la libertà dell’anima e non ha niente a che fare con la libertà dei corpi. Qui si apre una tensione reale. Ed è una tensione che crea instabilità nel presente. Cosa vuol dire che crea instabilità? Che in un qualche modo, tornando alle sue immagini, riapre l’intreccio confuso, decostruisce lo sviluppo, la linearità, lo smonta, lo apre e lo rende suscettibile a diverse ricamature. L’immagine del ricamo non è più sufficiente, perché è un’immagine statica, mentre si tratta di pensare a una sorta di campo di forze dinamiche, dove gli elementi oscillano e vibrano costantemente, si muovono. E questo richiede un altro modo di pensare la storia. Credo che qui ci sia un grande capitolo nuovo da iniziare. Ha a che fare col canone, a come va pensato il canone.

 

Quindi, contro l’immagine dello sviluppo lineare si cerca una figurazione della storia che riparta dal groviglio, cioè che riparta dal campo di forze in tensione. Lei si è concentrato su degli esempi nella storia del pensiero, nella storia politica, del passato, che portavano in sé delle differenti concezioni della temporalità. Ma, oltre a queste differenti concezioni della temporalità e delle formazioni, del concetto di sviluppo che abbiamo visto nel passato, nei suoi lavori lei ha mostrato che esistono anche attualmente delle forme di vita politica, legale ed economica che convivono all’interno e ai margini del processo di sviluppo occidentale. Assumere uno sguardo plurale sulla vicenda moderna e sullo sviluppo occidentale vuol dire mostrare differenti linee temporali che coesistono anche oggi e mostrare come la narrazione dello sviluppo abbia funzionato e funzioni attraverso lo sfruttamento e al tempo stesso l’occultamento di forme considerate pre-moderne. Questo è interessante perché permette di tornare a pensare il tempo nei termini di quel groviglio non ancora sviluppato e quindi di mostrare la natura ideologica del concetto di sviluppo a cui siamo stati abituati e i suoi effetti materiali. Rispetto ai nostri tempi, quali sono degli esempi di pratiche politiche, di forme economico giuridiche che, funzionando in modo anacronistico, entrano in attrito col concetto di sviluppo occidentale e vi oppongono modelli alternativi? Quali sono quelle forme di libertà e di vita politica che pensano o che, praticandosi, propongono delle teorie alternative al concetto di sviluppo occidentale e moderno?

Massimiliano Tomba: Non ogni conflitto e ogni urto produce possibilità concrete. Faccio due esempi. Tratti dal mio nuovo libro. Sono esempi geograficamente distanti. Mi spiego. Un esempio è relativo ad un evento accaduto nel 2000 in Bolivia, “la guerra dell’acqua”. Cosa succede? Succede che al tentativo di privatizzare l’acqua e le risorse idriche, poi al tentativo di nazionalizzare le acque, la popolazione di Cochabamba, riattivando tradizioni locali indigene, forme consuetudinarie, incominciò a ripresentare l’intera questione nei termini di proprietà sociale. La proprietà sociale non è né privata né pubblica. La proprietà sociale è una sorta di pratica legale, per cui chi usa l’acqua definisce anche i rapporti di proprietà rispetto all’acqua. Si tratta di un’inversione del modo in cui noi pensiamo la legge: non ci sono proprietari che si riferiscono all’acqua come oggetto di proprietà, ma è l’acqua ad avere priorità giuridica. A partire dall’acqua come possesso comune si crea una rete di usufruttuari dell’acqua, che limitano il loro accesso in relazione a bisogni e necessità reciproche, così come in relazione al limite delle risorse. E questo è stato fatto in modo molto naturale, riattivando e, quindi, anche reinventando forme tradizionali, indigene, di legalità. Quello che emerge è un’alternativa chiamata proprietà sociale. La proprietà sociale è ciò che stiamo cercando. È un concetto concreto, che mostra possibilità in atto. Qualcosa che lì funziona come pratica. Una pratica che è anche pratica di pensiero. In un qualche modo il nostro compito è sviluppare quella pratica e quel pensiero. Il secondo esempio riguarda le pratiche dei santuari, molto spesso chiese. Gli esempi che studio sono uno negli Stati Uniti, in Arizona, e uno in Germania. E nonostante le differenze hanno degli aspetti sorprendenti di affinità: in entrambi i casi viene data accoglienza agli immigrati sulla base della tradizione dei santuari e gli attivisti, per lo più religiosi, lo sanno e lo dicono. Quando questi attivisti in Arizona furono accusati di aver dato accoglienza a immigrati senza documenti e di aver violato leggi federali, la loro risposta fu che avevano obbedito ad altre forme di obbligazione. Queste obbligazioni sono ancora più antiche dello Stato perché hanno qualche migliaio di anni di storia e ci interpellano, ci chiamano a una forma di obbligazione, a una forma di rispetto di questa tradizione. Ciò che qui è interessante è l’urto tra dimensioni legali incompatibili. Gli attivisti rivendicano l’obbedienza ad un’autorità diversa da quella dello Stato. Rivendicano non un diritto di disobbedire a leggi ingiuste, ma un dovere, un obbligo rispetto a una tradizione. Di conseguenza, molti dei termini legali a cui noi siamo abituati vengono sovvertiti perché c’è un’altra autorità a cui fare riferimento, che non è lo Stato, ma che non è neanche l’autorità individuale-morale del foro interno. No, è un’autorità più forte del foro interno, è un’autorità che ha duemila anni di storia ed è l’autorità di una tradizione: l’autorità del santuario. Ancora una volta, ecco qui che l’anacronismo della tradizione dei santuari diventa un elemento dirompente che apre tensioni e quindi possibilità: un modo diverso per pensare che cosa è cittadinanza. Al tempo stesso è un modo per liberarci dalla trappola progressiva della nozione di secolarismo. Qui la religione praticata è l’elemento che sovverte la legge secolare, che invece è costruita sulla contrapposizione binaria cittadini-stranieri, cittadini-alieni. E allora qual è l’elemento progressivo? È l’elemento secolare dello Stato moderno o è l’elemento religioso che scompagina queste contrapposizioni polemiche, binarie, sulle quali è costruita la statualità moderna? L’elemento progressivo è quello dello Stato e della legge o quello della tradizione? E questo vale sia per Cochabamba, sia per la tradizione dei santuari. Ciò che oggi richiede di essere pensato è il fatto che molte di queste contrapposizioni non funzionino più. In realtà i termini vanno riportati nell’intreccio confuso, nel quale le possibilità emergono. Al tempo stesso dobbiamo essere umili abbastanza per pensare e dire che queste possibilità non vengono create ex nihilo dal teorico, dal filosofo. Questa è presunzione. Queste possibilità devono essere studiate e indagate nelle pratiche concrete.

 

Riprenderei il filo etimologico che abbiamo utilizzato per orientarci in questo campo problematico, che viene aperto dal concetto moderno di sviluppo, per chiederle qualcosa rispetto a una possibile proposta “positiva” per ripensare il concetto di sviluppo dopo averne mostrato il carattere ideologico e dopo averne decostruito la linearità e la semplicità. Cosa significa dal punto di vista costruttivo adottare l’approccio che lei sta provando a sviluppare, cioè un approccio plurale alla temporalità che non ricada in un relativismo o in una moltiplicazione di prospettive equipollenti? Assunto il fatto che non sia sufficiente “pensare” alternative, ma che sia necessario osservare la teoria attivarsi nelle pratiche, quali sono i riferimenti teorici che l’hanno ispirata per produrre la sua metodologia di analisi e critica della storia, critica dell’idea di sviluppo, di progresso e del canone occidentale? Potrebbe essere possibile pensare una filosofia politica che riparta da queste traiettorie interrotte, da queste idee rimaste ideologicamente occultate, incapsulate nel passato, per sbarazzarsi del concetto moderno di sviluppo o, meglio, riconfigurarlo in modalità inedite. Che tipo di pensiero politico deriverebbe da una ripresa del concetto di viluppo, di groviglio, che è stato riqualificato nel nostro discorso, con il tipo di temporalità che ne deriva? Quindi, in sintesi, se si parla spesso di politica dello sviluppo, cosa deriverebbe, paradossalmente, da una politica del viluppo, cioè se ripensassimo la sfida della modernità a partire dalle tensioni che si danno nel groviglio e non più appunto, dallo scioglimento lineare e pre-articolato di questo groviglio? 

Massimiliano Tomba: Questa è una buona domanda. Vedo almeno due o tre elementi. Partirei da questo: non si tratta solo di pluralizzare le temporalità. In molti pluralizzano le temporalità, ma non credo che sia questa la via da prendere. Oppure sì, ma solo fino a un certo punto, cioè le temporalità vanno pluralizzate fino al punto in cui siamo in grado di trovare e di spiegare, di dimostrare le incompatibilità fra questi diversi livelli temporali, perché queste incompatibilità producono tensioni non sanabili, non ricomponibili, se non con l’eliminazione di una delle parti. Quindi non basta la pluralizzazione, dobbiamo mostrare le tensioni, fino a mostrare il punto in cui queste tensioni sono incompatibili, incomponibili, insanabili. Probabilmente qui è utile tenere contemporaneamente sulla scrivania Benjamin e Bloch, perché Bloch pensa a questa pluralità di tempi storici e, al tempo stesso, cerca di pensare modelli organizzativi di orientamento alternativo. Non scarta l’idea del progresso, ma cerca di costruire differenziazioni e variazioni nell’idea di progresso. Credo che questa sia una direzione interessante, che lavora con il multiversum ma senza cadere nel relativismo, nella glorificazione delle diverse temporalità. Il punto è: che tipo di ordine possiamo dare a queste diverse temporalità? Cosa significa tutto questo, oggi? Che questo multiverso di temporalità può essere pensato come la forma della possibile universalità in cui troviamo una molteplicità di esperimenti presenti e passati, che si integrano a vicenda, si completano a vicenda. L’universalità non è un qualcosa che verrà raggiunto in futuro, la potenzialità dell’universalismo non è un qualcosa di semplicemente normativo, che detta la direzione da prendere; l’universalità è piuttosto la consapevolezza dell’incompletezza di ogni esperimento e della sua necessità di completarsi e integrarsi nella relazione con altre esperienze. Ed è questo il modo in cui possiamo ripensare una rete di connessioni tra esperimenti politici diversi. Per questo ho intitolato il mio ultimo libro Insurgent Universality, e non Universalism. Occorre avere il coraggio e la fermezza di nervi per affermare che viviamo in una sorta di costante instabilità. La questione è cosa fare, invece di produrre meccanismi di pseudo stabilizzazione. Se prendiamo consapevolezza di questa costante instabilità, ne segue che la crisi non è che l’esito di un processo di intensificazioni, non è ciò che permette l’uscita dal tunnel, ma in un qualche modo, l’uscita, per quanto il termine diventi ora inappropriato, è un qualcosa – qui torna Benjamin – che è presente in ogni momento. E molto spesso può anche essere alle nostre spalle. E l’uscita è ciò che si gioca nel campo di forze. L’uscita sono le possibilità prodotte, create nel campo di forze. E sono possibilità concrete perché in atto. Sto parlando dei santuari, di Cochabamba, della proprietà sociale. Sono possibilità in atto e sono produzione di concetti concreti, che costituiscono una sorta di instabile normatività epistemica. Ci si orienta sulla base di questi concetti concreti, prodotti in pratiche concrete. E il nostro compito è pensarle. E credo che pensarle non sia un gioco accademico, credo che pensare questi concetti concreti sia tenere aperte queste possibilità sul piano, certo della teoria, ma anche dell’auto-rappresentazione di ciò che stiamo facendo e delle domande dalle quali siamo partiti: che cos’è un canone? Che cosa è storia? Che cosa è storia della filosofia? Che cosa è politica? Se incominciamo a fare storia in modo diverso, storia della filosofia in modo diverso, se cominciamo a pensare il canone in modo diverso, a partire da questi concetti concreti, allora probabilmente il nostro modo di pensare e rappresentare la realtà cambia. Di certo tutto questo può avere ricadute nella formazione delle giovani generazioni. Nella misura in cui cambia il modo in cui rappresentiamo il reale, cambia il modo in cui interveniamo nel reale. Credo che questo sia ciò che possiamo permetterci e ciò che possiamo fare oggi. Ma credo che non sia poco.

Scritto da
Silvestre Gristina

Borsista di ricerca all’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici e Cultore della materia in Storia della filosofia all’Università di Padova. Ha conseguito il Dottorato in Filosofia all’Università di Padova e la laurea in Filosofia all’Università di Bologna. È membro fondatore del gruppo di ricerca bolognese Prospettive Italiane, membro della Rete Fichtiana Italiana e del gruppo di ricerca padovano Metamorfosi del Trascendentale.

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