Scritto da Gian Paolo Faella
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Il testo qui riportato costituisce la rielaborazione di un intervento fatto dall’autore nell’ambito di un seminario interno di approfondimento di Pandora svoltosi a Bologna
Il testo di Soskice e Hall Varieties of Capitalism, edito dalla Oxford University Press nel 2001, costituisce un esempio di approccio di tipo istituzionalista all’analisi comparata di diversi sistemi economici eterogenei fra di loro, anche se si concentra su paesi che hanno istituzioni fondamentalmente democratiche; lo fa individuando due archetipi fondamentali, che gli autori ricostruiscono sulla base di una modellizzazione dell’economia statunitense da un lato e dell’economia tedesca dall’altro.
Gli autori si propongono così di definire le caratteristiche socio-istituzionali di diversi sistemi allo scopo di stabilire gli aspetti a proposito dei quali si può parlare, circa un sistema economico o di un altro, di un vantaggio comparato di un modello rispetto all’altro modello.
La modellizzazione di sistemi socio-istituzionali, in questo tipo di analisi, ha due tipi di conseguenze: relative alle politiche e relative alla struttura interna dell’impresa. Si può, infatti, concepire un insieme di politiche proprio sulla base delle caratteristiche socio-istituzionali del contesto nel quale si va ad operare, e si può altresì concepire, in maniera parallela, la strategia d’impresa come relativa alla maniera in cui il sistema delle imprese si inserisce in una determinata cornice socio-istituzionale, in quanto distinta dalle altre possibili cornici.
Gli autori tracciano dapprima una breve storia degli approcci tradizionali alle analisi comparate delle istituzioni politico-economiche, per come si sono sviluppati a partire dagli anni Settanta.
I primi approcci all’analisi comparata delle istituzioni erano orientati alla concettualizzazione dei processi di modernizzazione. Questo approccio avrebbe però a giudizio degli autori il difetto di sovrastimare l’impatto che l’azione statale può avere sul contesto in cui agisce. In seguito vi sarebbe stato lo sviluppo del neocorporativismo, che però tenderebbe a sua volta a sovrastimare l’impatto dei sindacati rispetto al ruolo della strategia d’impresa. Infine, negli anni ’80 e ’90, caratterizzati dalla presenza di un forte salto tecnologico, ci si è concentrati, con una maggiore attenzione alla sociologia e sotto l’influenza della scuola della regolazione francese, sui sistemi sociali di produzione. Tale tipo di analisi tenderebbe tuttavia a mettere l’attenzione sul ruolo di istituzioni regionali e settoriali, mentre gli autori, con il nuovo approccio qui messo in campo, si propongono di mettere al centro del problema il ruolo specifico degli stati-nazione.
Il messaggio di Soskice e Hall, pertanto, mette al centro le “interazioni strategiche” tra i fattori che coesistono nella determinazione dei caratteri di una Political Economy, nelle sue specificità.
La concezione che Soskice e Hall hanno dell’impresa è eminentemente relazionale. Essi vedono l’impresa come incentrata sullo sviluppo di competenze centrali e sull’implementazione di capacità dinamiche.
Un’impresa è chiamata quindi a sviluppare coordinazione in base a cinque livelli di analisi: (1) le relazioni industriali, (2) il vocational training e la formazione, (3) la corporate governance (4) le relazioni tra imprese, e (5) le relazioni tra l’impresa e i propri stessi lavoratori.
I sistemi nazionali, pertanto, possono essere interpretati in base a come le singole imprese, in ogni singola architettura istituzionale, vengono a incontrare i cinque piani di analisi appena elencati.
Soskice e Hall distinguono allora, come dicevamo, due modelli: economie di mercato liberali (che essi modellizzano sulla base di un’osservazione socio-istituzionale del sistema inglese e americano) ed economie di mercato coordinate (che essi modellizzano sulla base del sistema tedesco).
Nelle economie di mercato liberali le aziende coordinano le proprie attività sulla base di gerarchie e di architetture di fattori tipiche di un mercato competitivo. Nelle conomie di mercato coordinate, invece, le aziende dipendono più pesantemente da relazioni che non sono di mercato per coordinare i propri sforzi con altri attori socio-economici e politici.
Questo secondo tipo di coordinamento comporta un più acuto livello di contrattazione relazionale e incompleta, scambi di informazioni private all’interno di network costituiti da produttori, fornitori e clienti, e relazioni collaborative per migliorare il livello di competenza centrale (o nucleo di competenza) dell’azienda.
Per quanto riguarda il ruolo delle istituzioni e delle organizzazioni, nelle economie di mercato liberali le istituzioni che presiedono al funzionamento degli scambi sono soprattutto gerarchie e contratti formali. Nelle economie di mercato coordinate queste istituzioni sono invece istituzioni volte allo scambio di informazioni, al monitoraggio dei comportamenti, e al sanzionamento delle defezioni dai comportamenti cooperativi. Questo secondo tipo di istituzioni comprende associazioni di categoria forti, forti sindacati, networks di shareholders incrociati, e sistemi regolatori atti a favorire lo scambio di informazioni e la collaborazione.
Soskice e Hall forniscono un’analisi che si basa sull’osservazione non soltanto delle regole formali di un’architettura istituzionale, ma anche delle regole informali che definiscono la comprensione diffusa da parte di una serie di attori economici del contesto istituzionale nel quale essi si trovano ad agire.
Per quanto riguarda l’infrastruttura istituzionale e le strategie di impresa, le infrastrutture istituzionali delle economie di mercato liberali impongono alle aziende di avere switchable assets, mentre le economie di mercato coordinato hanno piuttosto assets co-specifici.
Inoltre un calo in borsa di un azienda comporterebbe conseguenze diverse in un’economia liberale e in un’economia coordinata, perché nella prima l’azienda manterrebbe i profitti addossando il calo di profitability sui clienti, mentre in un’economia coordinata l’azienda cercherebbe di mantenere la propria quota di mercato mantenendo i prezzi uguali e facendo scendere i profitti.
Gli autori osservano inoltre che il livello di protezione del lavoro e il livello di capitalizzazione dei mercati finanziari sono inversamente proporzionali generalmente, nonché complementari, nei due tipi di economie.
Gli autori passano poi ad analizzare nello specifico il caso tedesco.
Per quanto riguarda il sistema finanziario o il mercato della corporate governance, le economie di mercato coordinate, come quella tedesca, di solito forniscono alle aziende un supporto finanziario che non è basato su informazioni pubblicamente disponibili. Questo rende possibile alle imprese di ritenere il capitale umano nelle fasi di crisi e di investire in progetti di lungo periodo. Ci sono pertanto sistemi reputazionali complessi che fanno in modo che ci sia scambio di informazioni private a proposito dello stato di un’impresa. Per quanto riguarda la struttura interna di un’azienda, gli incentivi ai manager sono basati su fattori reputazionali legati alla capacità di raccogliere un consenso attorno alle proprie decisioni, e non sono basati su sistemi di attribuzione di azioni.
Per quanto riguarda poi le relazioni industriali, vi è un’equalizzazione dei salari a livelli di capacità equivalenti. Per quanto riguarda i sistemi di formazione, le economie di mercato coordinate offrono lavoro con alte capacità di lavoro specifiche di settori industriali o addirittura specifiche al punto tale da essere relative a singole aziende. Le aziende, quindi, investono molto in formazione. Si affidano a associazioni di imprenditori e sindacati che supervisionano un sistema di formazione pagato dallo stato. In questo modo, limitano il free riding nello sforzo di formazione. Per quanto riguarda infine le relazioni tra imprese, l’economie coordinate sviluppano sistemi di relazioni che facilitano il diffondersi di competenze tecnologiche all’interno dell’economia. Le strategie industriali che vengono promosse, in questo modo, vanno nella direzione della differenziazione del prodotto e in quella della produzione di nicchia.
Gli autori prendono in esame successivamente il caso statunitense, e quindi quello delle economie liberali di mercato.
Qui, per quanto riguarda i sistema finanziario o il mercato della corporate governance, vi è un’attenzione al prezzo corrente delle azioni da parte degli investitori per prendere decisioni. Per quanto riguarda la struttura interna di un’azienda, gli incentivi ai manager sono basati per lo più su attribuzione di pacchetti azionari basati sui guadagni netti conseguiti in un dato periodo. Per quanto riguarda le relazioni industriali, i sindacati sono più deboli e i manager hanno solitamente un potere diretto di assumere e licenziare. Come risultato, le economie di mercato liberali dipendono più da variabili macroeconomiche per la determinazione dell’inflazione e della disoccupazione, perché il potere di contrattazione dei corpi intermedi è minore. Per quanto riguarda i sistemi di formazione, inoltre, ci si concentra su abilità generali e spendibili in più sistemi di imprese differenti, perché il sistema non ha le capacità di sviluppare strategie di specializzazione che implicano un lungo periodo di progettazione. Per quanto attiene alle relazioni tra imprese, vi è la forza delle regolazioni antitrust, e la maggiore diffusione di contratti formali. Il trasferimento di tecnologie avviene per lo più attraverso lo spostamento di scienziati da un’azienda all’altra, e la brevettazione è più frequente e più semplice. Per questo elemento e anche per gli altri fattori interessati, i settori più vicini a trovare ospitalità in questi sistemi istituzionali sono ad esempio le biotecnologie, i semi-conduttori, e la microelettronica. C’è anche una presenza maggiore del venture capital in queste economie.
Vi sono poi alcune differenze interne alle economie di mercato coordinate. Ci sono da un lato relazioni industriali basate sull’accorpamento di settori industriali (Germania e Nord-Europa) e dall’altro relazioni basate invece su gruppi industriali (Giappone, Sud Corea).
La particolarità delle industrie giapponesi, in particolare, è la capacità con cui esse si avvantaggiano della possibilità di trasferimenti tecnologici cross-sector che è dovuta alla presenta dei keiretsu, vale a dire delle famiglie industriali di grosse dimensioni.
Gli autori si concentrano poi sulla nozione di vantaggio istituzionale comparato. I settori di specializzazione delle economie di mercato coordinate (e in particolare del caso tedesco), per quanto riguarda l’intensità relativa dell’attività di brevettazione, sono l’ingegneria civile, i beni di consumo, le armi, l’ingegneria nucleare, i trasporti, le macchine agricole, gli elementi meccanici, i motori, le macchine industriali, le tecnologie ambientali, i processi termali, le tecnologie dei materiali, l’ingegneria dei processi, e la chimica di base.
I settori di specializzazione delle economie liberali di mercato, e quindi degli Stati Uniti in particolare, sono complementari ai settori precedenti, e si tratta delle superfici, della chimica dei materiali, dell’agricoltura, della produzione dei nuovi materiali, delle biotenologie, della farmaceutica, della chimica organica, dell’ingegneria medica, dei sistemi di controllo, dell’ottica, dei semiconduttori, dell’information technology, delle telecomunicazioni.
Si tratta, in questo secondo caso, di settori nei quali l’innovazione radicale è più importante, e nei quali l’acquisto di un’impresa da parte di un’altra impresa è una pratica maggiormente diffusa. Si tratta altresì di settori nei quali l’assunzione di un rischio di impresa è più fondamentale per arrivare a produrre strategie radicalmente innovative che possano attrarre l’attenzione dei mercati.
Nel primo caso, invece, quello delle economie coordinate di mercato, i settori maggiormente coinvolti sono quelli nei quali un’innovazione di tipo incrementale (e quindi non basata sul mutamento radicale di pratiche e di applicazioni) è più diffusa. In queste economie è più difficile acquisire nuove compagnie (e quindi innovare tecnologicamente in maniera radicale) anche per le norme che in esse tendono a stabilirsi circa le acquisizioni sui mercati finanziari.
In generale il settore dell’innovazione, pertanto, è in questa prospettiva identificato come uno dei maggiori fattori nella determinazione di un vantaggio comparato. Tuttavia, altri fattori di vantaggio comparato possono entrare in gioco. Ad esempio, la maggiore capacità da parte delle economie di mercato coordinate di sviluppare un controllo di qualità sui prodotti, rispetto a quanto accade nelle economie di mercato liberali, può richiamare quello sviluppo di prodotti nei quali la domanda è determinata più dalla qualità che dal prezzo.
Per ciò che attiene alle politiche economiche, il problema del policy making economico, secondo l’impostazione dei due autori, non è quello di far cooperare le imprese con il governo, ma quello di far cooperare maggiormente le imprese fra di loro, secondo l’approccio sviluppato dai due autori.
In particolare nelle economie liberali la deregulation è solitamente un buon metodo per migliorare il livello di coordinamento in queste economie.
Per ciò che attiene alle politiche sociali, bisogna invce considerare che anche le imprese sono utili alla determinazione delle politiche sociali. Esse possono beneficiare, ad esempio, di un buon sussidio di disoccupazione in quanto questo incoraggia gli operai ad acquisire competenze che sono relative a specifici settori o a specifiche imprese.
Gli interessi nazionali nell’arena internazionale, in questo approccio, sono tali per cui gli stati saranno favorevoli a iniziative che consentono loro di mantenere un vantaggio comparato delle proprie imprese nell’arena internazionale, e sfavorevoli a iniziative che vadano in senso contrario.
La visione convenzionale della globalizzazione sostiene che c’è una sostanziale omogeneità tra sistemi istituzionali, e una sfida per far diminuire il costo del lavoro, e che tale sfida sarà vinta o meno in ogni specifico paese dal capitale a seconda della quantità di resistenza che i sindacati e le sinistre sono in grado di portare avanti per contrapporsi a questa dinamica. Sostiene anche che ci sia un forte elemento di pressione da parte delle imprese sui governi dovuto ai processi di globalizzazione stessi.
L’approccio qui presentato propone un’altra analisi della globalizzazione, secondo la quale la lotta per l’abbassamento del costo del lavoro è soprattutto interno alle economie liberali di mercato, laddove è ragionevole aspettarsi che nelle economie di mercato coordinate ci sarà invece una minore tendenza alla delocalizzazione, a causa della difficoltà a ricreare l’ambiente istituzionale basato sullo scambio di informazioni e sulle relazioni non di mercato in nuovi contesti. L’approccio qui presentato, inoltre, fa prevedere che ci sarà un arbitraggio istituzionale per l’accaparramento di nuove imprese. Si sostiene, in altre parole, che ci sarà una concorrenza tra sistemi istituzionali per cui in determinati settori ci sarà una tendenza a sviluppare la propria impresa in un certo sistema nazionale, e in determinati altri settori ci sarà una tendenza a cercare ambienti istituzionali che hanno caratteristiche di vantaggio comparato del tutto opposte.
Dal punto di vista generale, abbiamo qui, in definitiva, un tipico approccio anti-keynesiano al problema dell’economia politica, proprio per la scarsa importanza qui attribuita alle dinamiche macroeconomiche, e dunque al rapporto tra inflazione e disoccupazione. Per meglio dire, vi è la registrazione della vicinanza dei sistemi liberali a un’ideologia macroeconomica di stampo keynesiano delle relazioni sociali, e vi è una registrazione di altrettanta lontananza però da quella ideologia nel contesto culturale delle economie coordinate.
L’approccio di Soskice e Hall ci fa innanzitutto chiedere quale sia la specifica situazione italiana in questa biforcazione. La debolezza del sistema istituzionale italiano ma dello stesso capitalismo italiano, rispetto a quella che è la forza delle relazioni para-familiari, nel contesto della sociologia politica del paese, fa dubitare in particolare che il loro approccio sia davvero determinante per comprendere le dinamiche interne al sistema italiano. Non a caso egli parla di una terza forma di capitalismo, detta capitalismo mediterraneo, che essi però non hanno interesse a indagare nello specifico perché impegnati nella determinazione di una dicotomia netta che ha esiti teorici specifici.
Più convincente risulta la capacità dell’approccio di Soskice e Hall di comprendere le dinamiche interne al processo di integrazione europeo nell’ultimo quindicennio, per l’accento posto sul ruolo dei diversi e poco integrabili sistemi nazionali nel contesto del tentativo di omogeneizzazione delle economie europee che ha avuto inizio con l’adozione di una moneta unica.
Interessante, a mio giudizio, è la considerazione del sistema inglese (ma anche, per certe sue caratteristiche ultra-liberali, di quello italiano) come un sistema non integrabile rispetto alle economie renane, con i loro annessi sistemi di welfare.
Ci saranno allora, in questa ottica, due aspetti del problema della natura ibrida dell’architettura italiana, relativamente all’analisi dei due autori: uno relativo al sistema istituzionale, e l’altro relativo al sistema delle imprese.
In particolare, risulta evidente, rispetto al problema italiano, l’assonanza molto forte tra il capitalismo relazionale del nord Italia rispetto al sistema di relazioni industriali presente nel modello tedesco per come esso viene presentato in questo testo. Allo stesso tempo, però, la sostanziale assenza (o comunque l’estrema parzialità) di un welfare generalista rende la nostra architettura istituzionale ultra-liberale e più aperta ai processi di irrefrenabile globalizzazione del capitale e, ad essa opposta, localizzazione del disagio sociale, cui assistiamo dal punto di vista dell’evoluzione dell’economia internazionale.
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