Recensione a: Jürgen Habermas, Verbalizzare il sacro. Sul lascito religioso della filosofia, Laterza, Roma-Bari 2015, pp. 334, 28 euro (scheda libro)
Scritto da Andrea Baldazzini
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È ormai innegabile il fatto che la religione sia tornata ad essere uno dei temi centrali all’interno del dibattito pubblico mondiale. Ciò non è dovuto soltanto ai terribili fatti di cronaca che quasi ogni giorno testimoniano una rinnovata ed estremizzata vitalità dei movimenti fondamentalisti di natura religiosa, ma anche all’aver (ingenuamente) ritenuto la religione un fenomeno ormai destinato ad un irreversibile processo di secolarizzazione, ignorando così la necessità di continuare ad investire su quel difficile operare quotidiano e collettivo che è l’integrazione. Il volume che qui presentiamo, composto da diversi saggi più un’intervista con Eduardo Mendieta e pubblicato in Germania nel 2012, mostra chiaramente fin da subito come il rapporto dell’autore con il culto e la fede non sia certo dei più semplici. Costellato da numerose articolazioni, ripensamenti e confronti con le fazioni più integraliste, questo lavoro si può dire rappresenti l’ultima stazione di un lungo percorso di riflessione che trova le sue origini nella famosa opera Teoria dell’agire comunicativo, primo vero luogo di confronto di Habermas con la religione.
Volendo però comprendere a pieno la peculiarità e l’interesse di questa raccolta di saggi, bisogna considerare il fatto che nelle riflessioni habermasiane, soprattutto dagli anni Novanta in poi, l’aspetto epistemologico e analitico, viene continuamente ad intrecciarsi con problematiche e temi di ordine strettamente socio-politico (si pensi ad esempio a Fatti e norme o L’inclusione dell’altro). In particolare, a partire dagli anni Duemila l’autore comincia a riflettere sul tema della religione come fatto culturale ed ermeneutico, legandola ad altre questioni, relative per esempio ai modelli di conoscenza moderni, o al grande problema irrisolto dell’integrazione sociale. In testi quali Tra scienza e fede o L’Occidente diviso, Habermas viene così elaborando un nuovo apparato concettuale che diventerà la base per tutti i lavori più recenti: è qui infatti che prende forma l’idea di “società post-secolare”, o la reinterpretazione del concetto husserliano di “mondo-della-vita” (già discusso nel sesto capitolo di Teoria dell’agire comunicativo) inteso quale «retroterra di ogni agire rivolto all’intesa», ovvero, come quel serbatoio nel quale si conservano le tradizioni culturali, si stabilizza l’integrazione sociale e si confermano le identità individuali, che portano a pensare la società come “mondo-della-vita” simbolicamente strutturato.
Riemerge inoltre anche l’elemento comunicativo, concepito quale punto di partenza per qualunque processo di intesa, un trait d’union da cui è possibile derivare «la presenza di un’istanza di razionalità comune a tutti i soggetti». L’esercizio operato dall’autore può allora essere riassunto nel tentativo di unire l’approccio fenomenologico (grazie al quale determina i caratteri di somiglianza e condivisione propri di ciascun individuo), con quello linguistico (che diviene il mezzo per la concreta messa in comunicazione di Ego con Alter), al fine di individuare solide basi normativo-razionali che rendano effettivamente legittima la possibilità di un dialogo anche tra persone di diverse religioni o culture. Sul versante invece più strettamente politico Habermas arriva a riconoscere il ruolo fondamentale della religione nell’influenzare l’opinione pubblica dei paesi “occidentali”.
Il credo religioso smette infatti di essere un semplice elemento residuale interno al processo di secolarizzazione, diventando in certi casi la risposta violenta a precedenti situazioni di esclusione sociale. Si prende così consapevolezza di come la fede costituisca un fattore inalienabile nella formazione dell’opinione pubblica contemporanea, dalla quale emerge con sempre più forza il bisogno di un impegno comune, tanto della comunità laica quanto di quella religiosa, nell’operare insieme sul piano culturale e del dialogo, per disinnescare i molteplici processi di estremizzazione ed evitare l’insorgere di rinnovate forme di razzismo o esclusione, le quali alimentano l’insorgere di tali nuove conflittualità diffuse.
Ragione e dialogo come media del sacro
Chiarite le premesse, è il momento di considerare più da vicino quanto trattato in Verbalizzare il sacro, che bisogna precisare essere un’opera dal contenuto specificatamente teoretico. Questo volume si presenta infatti come una profonda sintesi tanto dell’aspetto epistemologico quanto di quello politico. Qui ci si concentrerà maggiormente sui primi capitoli, probabilmente i più interessanti e originali, mentre per quanto riguarda il resto del libro basti fare presente che a guidare le riflessioni dell’autore sarà il concetto di Politico. Attraverso una sua genealogia verrà infatti rievocato il tema della teologia politica, discussa a partire dai lavori di Maria Pia Lara e in polemica con la concezione schmittiana. Secondo Habermas solo il liberalismo politico rawlsiano può rappresentare un valido contromodello a tutte quelle concezioni di normativismo forte che manifestano chiari tratti di radicalismo e dogmatismo totalmente antidemocratici. Proprio di Rawls è inoltre la frase che si potrebbe utilizzare se si volesse riassumere il nodo concettuale a partire dal quale l’autore costruisce tutto il suo lavoro e che ben dimostra come vi sia, al di là delle apparenze, una profonda organicità tra i diversi saggi. Essa recita: «la secolarizzazione dello Stato non ha affatto implicato una secolarizzazione della società». Questo è il vero cuore del problema, problema le cui radici affondano nelle origini delle pratiche ritualistiche e nelle visioni del mondo che le religioni da sempre hanno costruito.
Non è quindi un caso che l’autore prenda le mosse precisamente dal concetto di “mondo-della-vita” inteso quale “luogo delle ragioni”, qualcosa di differente dalle cosiddette “immagini-di-mondo” di matrice religiosa, e descrivibile come «quello sfondo immateriale di esperienze da cui non può prescindere alcuna esistenza storicamente situata, fisicamente incarnata e comunicativamente socializzata»[1]. Volendo essere essenziali, il problema potrebbe venire riassunto nel dovere, da parte del pensiero post-metafisico, di imparare a tenere conto della rimozione della dimensione vitale operata dal paradigma epistemologico positivista, che ha dimenticato l’importanza del fondamento di senso husserliano, scadendo in un bieco oggettivismo il quale, a sua volta, ha finito per negare persino l’accesso della ragione al discorso. Anche questo non è certo un tema nuovo nella riflessione habermasiana, più interessante però è la possibile soluzione che l’autore viene ora a proporre. L’oggettivazione bipolare dell’immagine-di-mondo – scienza della natura da un lato e scienza dello spirito dall’altro -, nonché il parallelo decentramento delle prospettive percettive e interpretative della soggettività conoscente, trovano un possibile rimedio nel concetto riformato di “mondo-della-vita”, inteso quale limite della possibilità di «oggettivare naturalisticamente l’autocomprensione soggettiva della quotidianità individuale» (p. 26). Detto in altri termini, la proposta habermasiana si identifica nella risposta alla de-trascendentalizzazione (cioè all’eliminazione di una realtà fondativa comune in grado di tenere insieme scienza, spirito e religione) dell’Io pensato a partire da una prospettiva di naturalismo debole. Già a questo primo livello epistemologico si può affermare che lo sforzo dell’autore vada nella direzione della costruzione di una realtà comune, nella convinzione che solo a partire dal riconoscimento di una dimensione vitale in cui tutti si trovano da sempre dati e che non necessita di essere conquistata, possa prendere vita una forma di intesa. Il problema è in sostanza quello di costruire una struttura teorica che permetta di considerare contemporaneamente, dando a entrambe la stessa dignità, religione e scienza quali espressioni di un’unica realtà condivisa.
È a partire da tali considerazioni che il mondo-della-vita si mostra come il luogo delle ragioni incarnate simbolicamente, luogo nel quale la comunicazione gioca un ruolo di non secondaria importanza. Com’è risaputo, per l’autore ogni atto comunicativo implica un insieme di regole, aspettative, doveri, insomma un vero e proprio agire. Allora, se comprendere un atto linguistico significa «conoscere il tipo di ragioni cui il parlante deve fare appello se vuole riscattare la pretesa di validità di ciò che ha detto» (p. 43), dovrebbe apparire più chiaro anche il titolo scelto per la versione italiana dell’opera. “Verbalizzare il sacro” significa in sostanza conoscere le ragioni indotte da una precisa immagine-di-mondo di natura religiosa, che andranno poi a tradursi in atti linguistici e infine in vere e proprie azioni, capaci di influenzare considerevolmente l’interazione e l’integrazione sociale.
La spiegazione del “mondo-della-vita” in termini comunicativi ha comunque richiesto all’autore innumerevoli passaggi che qui non è possibile affrontare nello specifico, basti ricordarne i principali: a partire dallo studio sulla nascita della dimensione vitale, l’attenzione si è poi concentrata sul trasformarsi dei gesti in veri e propri atti dotati di carica simbolica, i quali assumendo lo statuto di sapere condiviso daranno vita ad uno spazio di interpretazioni pubblicamente accessibile in cui ogni attore si trova già da sempre presente. Per ultimo Habermas si rivolge alle pratiche rituali intese come forme extraquotidiane di comunicazione portatrici di una normatività forte, elemento questo che giocherà un ruolo chiave nella terza parte dell’opera quando in discussione sarà la questione dell’integrazione socio-relazionale nei sistemi democratico-liberali contemporanei.
Habermas: dal sacro alla religione alla democrazia
Ad ogni modo, uno degli aspetti più interessanti di questo lavoro consiste senza dubbio nell’aver riproposto, in modo originale, la questione riguardante la formazione tanto dei processi di individualizzazione quanto di quelli di socializzazione, esaminati in relazione al concetto di rito, qui concepito come modo di padroneggiare la socializzazione comunicativa che passa sempre attraverso vari simboli linguistici. L’ipotesi di ricerca habermasiana prende infatti avvio dell’idea secondo cui «oggi a riacquistare attualità è la vecchia ipotesi che fa derivare il linguaggio dalla comunicazione gestuale» (p. 69) e non è un caso che la prima parte del volume termini proprio con l’affermazione secondo cui il complesso sacrale (l’insieme di rito e mito) non si è dissolto, ma anzi permane e si riproduce: «le tradizioni religiose, in simbiosi con il culto comunitario, non hanno affatto perso vitalità» (p. 78).
Nonostante la sua prospettiva laica, Habermas vede molto chiaramente il ruolo giocato dalle tradizioni religiose nel fornire, ad ogni cittadino credente e non, un grande serbatoio di intuizioni morali che possono fornire a tutti ispirazioni importanti. Come ha notato molto bene Thomas M. Schmidt «la teoria habermasiana della secolarizzazione mostra di coniugare la differenziazione weberiana delle sfere di valore (frutto della razionalizzazione della vita religiosa) con la linguistificazione durkheimiana del sacrale, che svincola i potenziali di razionalità intrinseci all’agire comunicativo»[2].
Con un concetto così riformulato di “mondo della vita”, è quindi stato possibile riqualificare la religione ridandole quella dignità che aveva perduto rimanendo per troppo tempo all’ombra dello spirito scientifico, mentre attraverso lo studio dell’atto linguistico verbalizzante il sacro, e la sua traduzione, il contenuto di credo è stato reinserito come termine argomentativo valido all’interno del dibattito pubblico.
Le conclusioni sarebbero poi davvero innumerevoli e necessiterebbero molto più dello spazio qui a disposizione, perciò ci si limiterà ad un’unica considerazione nella convinzione che possa riassumere il significato complessivo dell’opera, in quanto essa possiede molto di più di un semplice valore euristico. Questa raccolta di saggi è una testimonianza appassionata del grande sforzo dell’autore di costruire un serio dialogo tra mondo della fede e mondo laico, un’azione di lotta contro l’imposizione di tutti quei valori trasformati in dogmi. Il desiderio di Habermas è quello di considerare il nuovo ruolo che le religioni avranno nella sfera pubblica, cercando di fornire gli strumenti concettuali a partire dai quali costruire una “società inclusiva”, dove l’uguaglianza politica e la differenza culturale non si limitino alla sopravvivenza, ma riescano in una più completa e reale convivenza. Quello che viene chiesto non è altro che l’assumere «un comportamento epistemicamente oneroso, moralmente necessario, epperò non giuridicamente obbligatorio»[3], ovvero di praticare quel dialogo che deve essere sempre appreso e mai imposto.
[1] Jürgen Habermas, Verbalizzare il sacro. Sul lascito religioso della filosofia, Laterza, Roma-Bari, 2015, p. 7.
[2] Thomas M. Schmidt, Discorso religioso e religione discorsiva nella società postsecolare, Trauben, Torino, 2009, p. 19.
[3] Jürgen Habermas, Verbalizzare il sacro. Sul lascito religioso della filosofia, Laterza, Roma-Bari, 2015, p. 243.