Scritto da Andreas Iacarella
14 minuti di lettura
Il presente contributo è in parte una rielaborazione della relazione “Una storia integralmente umana. De Martino, Camus, Fagioli: percorsi del pensiero europeo nel secondo dopoguerra”, presentata al Convegno scientifico internazionale “Istinto di morte e conoscenza. La teoria della nascita umana e le sue implicazioni” (Roma, Teatro Olimpico, 18-19 novembre 2022), organizzato dalla Fondazione Massimo Fagioli.
«Distruggendo ogni spazio tra gli individui, comprimendoli l’uno contro l’altro, si annientano anche le potenzialità creative dell’isolamento; insegnando ed esaltando il ragionamento logico dell’estraniazione, […] si eliminano le già scarse probabilità di una trasformazione dell’estraniazione in solitudine e della logica in pensiero. […] [S]i ha l’impressione che si sia trovato il modo di mettere in moto il deserto, di scatenare una tempesta di sabbia capace di coprire ogni parte della terra abitata»[1].
Pochi testi come Le origini del totalitarismo possono offrirci un racconto così vivido di cosa significa vivere in un regime di oppressione. L’annullamento di ogni specificità dell’essere umano, del suo carattere sociale e creativo, per una ferrea logica che diventa legge della storia e di natura: la realizzazione di una umanità nuova, o meglio la creazione dell’umanità “autentica”. Prospettiva palingenetica, di fronte alla quale non si pone questione morale: «“colpevole” è chi è d’ostacolo al processo naturale o storico», la rimozione delle «razze inferiori», degli «inadatti a vivere»[2] è adesione a una legge di natura.
Sulla scorta delle parole di Hannah Arendt, possiamo forse figurarci la crisi che visse il pensiero occidentale di fronte all’orrore indicibile della Seconda guerra mondiale, dei regimi totalitari, dell’universo concentrazionario[3]. Aveva preso corpo il massimo del negativo raggiunto dalla nostra specie e la riflessione intellettuale si trovò, d’improvviso, muta. La tradizione di pensiero erede del razionalismo illuminista appariva impotente, minata alla base dalla consapevolezza che quel deserto descritto dalla filosofa era figlio di una «freddezza glaciale del ragionamento», che il totalitarismo era l’«evasione suicida»[4] dalla realtà umana creata dalla modernità tecnica. Una logica che non aveva saputo farsi pensiero, appunto. Risuona il monito di Dialettica dell’illuminismo di Adorno e Horkheimer, su una «ragione illuminista» che, «nata per criticare il mito e liberarsi di esso», si è «a propria volta tramutata in mito, attraverso il positivismo che esaltando la Ragione (…) si è ritorto contro se stesso e l’uomo»[5].
L’abbagliante chiarezza di questo fallimento mise il pensiero europeo e occidentale di fronte alla sfida di superare se stesso, di porre in questione l’intero edificio antropologico sul quale era stato fondato, che aveva assegnato alla ragione il primato assoluto per la comprensione dell’essere umano e della storia. L’oltre il razionale si spalancava, minaccioso e seducente, come problema non più eludibile.
Questo poté nutrire da un lato le correnti cosiddette irrazionaliste della riflessione intellettuale, come la psicologia analitica junghiana o la fenomenologia della religione di Otto, van der Leeuw ed Eliade. In Jung si propone un’«equazione tra l’inconscio e l’arcaico»[6], in cui la dimensione irrazionale è concettualizzata come precipitato di simboli e archetipi universali; Eliade avanza invece, attraverso un recupero delle forme di religiosità “primitive”, l’idea che l’uomo moderno debba fare proprio il «desiderio di abolire la condizione umana attuale – il Tempo e la Storia – per ritrovare una beatitudine primordiale»[7]. In entrambi i casi, quella che viene prospettata è di fatto una fuga dalla realtà vissuta della storia, per penetrare la trama segreta del mondo attraverso un approccio che recuperi una dimensione religiosa e atemporale.
D’altro canto, lo sconcerto provocato dagli orrori del conflitto mondiale e degli stermini di massa favorì un rinnovato interesse per l’antropologia negativa fatta propria dai diversi esponenti dell’esistenzialismo, che nella sua visione disperante offre come unica scelta realmente data, per raggiungere l’“autenticità” del proprio essere[8], assumere su di sé l’“essere per la morte”, l’angoscia, l’assurdo dell’esistere (da Heidegger a Jaspers a Sartre)[9]. La risonanza di questi due filoni di pensiero si fece sentire molto al di là del dibattito intellettuale. Nel dopoguerra, «l’esistenzialismo div[enne] una cultura, un modo di essere, che tutto pervade[va]: dalla filosofia all’arte, dalla moda al cinema»[10]. Destino simile ebbero anche le proposte filosofico-teologiche di Jung ed Eliade, che, debitamente riformulate, trovarono un larghissimo seguito nei movimenti giovanili e controculturali[11].
Tra questi due poli, opposti ma nei fatti concordi, un’altra strada sembrava però dipanarsi. Nella riflessione europea dei decenni postbellici si evidenzia un fiorire di tentativi di riflessione che si muovono lungo e attraverso il confine, che per alcuni poté apparire un baratro, che da secoli separava ragione e non-ragione. Abbiamo già citato le elaborazioni di Arendt, e quelle critiche di Adorno e Horkheimer, alle quali possiamo accostare l’antropologia progressiva di Ernesto de Martino[12] e il pensiero meridiano di Albert Camus. Nel presente contributo proporremo un primo raffronto tra questi due autori, nella convinzione che una comprensione profonda della loro opera possa venire solo da un’operazione storiografica di questo genere, che collochi i rispettivi percorsi riflessivi in una dimensione storica più ampia.
Fu Carlo Ginzburg a inventare l’espressione «libri dell’anno zero»[13] per identificare quei volumi, elaborati nel pieno del secondo conflitto mondiale, che provavano a compiere un salto, di passione e di intelligenza, contro la ragione assoluta portata al trionfo dalla guerra e dai vari autoritarismi. Facendo nostra e sviluppando questa intuizione, quella che vogliamo proporre non è certo l’immagine di una “scuola” o di una corrente ben definita. Vorremmo piuttosto invitare a leggere, nella filigrana di prospettive e ricerche fortemente autonome, il filo comune di una domanda che era nell’aria: la sfida conoscitiva portata dal non cosciente, sollevata ma non risolta dalla psicoanalisi, per secoli demandata alla magia e alla religione, tornava come questione fondativa[14].
Un illustre commentatore come Gennaro Sasso ha annotato che Il mondo magico di de Martino, pubblicato nel 1948, ebbe un effetto deflagrante nel mondo culturale italiano. Dal cuore della scuola crociana emergeva una prospettiva che poneva la crisi al centro della riflessione, sollevando un «tema eversivo delle più solide certezze»[15]: la “crisi della presenza”, osservata dall’antropologo nel farsi delle culture magiche, appariva infatti da subito come un concetto che aveva in sé le potenzialità per diventare strumento ermeneutico universale, ben al di là del suo contesto di osservazione originario.
È noto come l’elaborazione dello studioso napoletano si fosse approfondita e consolidata nel pieno del conflitto[16], come tentativo, appunto, di far fronte alla caduta di ogni certezza attraverso un cambio radicale di prospettiva. Come pensatore dell’“anno zero”, de Martino traspone il dramma storico vissuto in prima persona «su un orizzonte conoscitivo esteso fino ai limiti aurorali della cultura e delle civiltà umane», consapevole di essere al «punto di partenza di una rifondazione storica»[17].
Nella prefazione al volume del 1948, l’antropologo scrive della necessità di un nuovo storicismo, nutrito di «un eroismo mentale che non conosce sosta, e che mette capo a una humanitas sempre più intima e universale»[18]. È un salto formidabile di pensiero: ricomprendere nella storia ciò che da essa è sempre stato escluso. I primitivi, i contadini, i popoli coloniali, le culture magiche ma soprattutto una dimensione non razionale che dell’essere umano diventa la caratteristica fondamentale[19]. Questo nuovo storicismo, continua de Martino, permetterà l’incontro con il «cultore di psicologia, col psichiatra (…) per riprendere con loro quel discorso “umano” che dall’epoca del romanticismo sembra intermesso»[20]. Appare chiara, in queste righe, la contestazione al principio di esclusione fatto proprio dalla razionalità illuministica: «la comprensione del mondo magico» è possibile, scrive lo studioso napoletano chiamando in causa Hegel, «solo come estensione e approfondimento della critica al dogmatismo realistico»[21].
La rilettura demartiniana delle culture magiche e primitive mira, dunque, a un compito conoscitivo più ampio. Attraverso questa elaborazione, l’autore abbozza l’immagine di una dinamica interna umana che può essere considerata il motore primario della vita, sia a livello individuale che sociale: crisi, rischio di caduta, riscatto e superamento della crisi. Una dinamica comune al moderno come al primitivo. È in questa lotta, per una «presenza che s[ia] garantita nel mondo»[22], che si realizza per de Martino l’identità più profonda dell’essere umano. Identità quindi non stabile, data una volta per tutte, ma riconquistata, nuova, di continuo.
Il cuore concettuale da cui prende avvio è appunto la nozione di presenza, intesa come senso pre-razionale del sé, «vitalità umana» e cioè «vita che si fa presente a sé stessa»[23]: la storia, nella formulazione demartiniana, è una storia nella prospettiva del sé, cioè di una dimensione interna umana perennemente esposta al rischio di caduta. È una storia drammatica, di lotta contro il negativo. Ma non è una storia negativa: la crisi esiste perché esiste la possibilità del suo superamento, la fine di un mondo è sempre nascita di uno nuovo. «La condizione umana – scrive l’antropologo – è caratterizzata dalla risoluzione di ciò che diviene nella permanenza di ciò che vale», risoluzione che «può essere perduta nel senso del naufragio della presenza (psicosi e nevrosi), ma non mai oltrepassata, come pretendono magia e religione»[24]. Con una tale chiarezza, de Martino ribadisce tra l’altro la separazione tra sanità e malattia, in opposizione alla psichiatria fenomenologica di impostazione binswangeriana[25].
L’arco della riflessione demartiniana si svilupperà in un continuo approfondimento lungo tutta la sua opera, fino al capolavoro postumo La fine del mondo, tracciando un percorso fortemente unitario, benché incompiuto. Nell’ultima fase della sua elaborazione, lo studioso affianca alla nozione di presenza quella di ethos del trascendimento, che precisa quest’idea di un’identità umana con una caratterizzazione precipuamente trasformativa: «il fondamento dell’umana esistenza non è l’essere ma il dover essere»[26], lo sforzo costante di superare il dato, l’esistente, una dialettica che non conosce fine. Questo “dover essere”, l’ethos del trascendimento, è principio antropologico fondamentale e presupposto della temporalità dell’essere umano: è «vissuto umano per eccellenza in quanto energia oltrepassante la situazione» che «sempre da capo torna a proporsi come orizzonte, e proprio per questo ogni singolo vive […] come temporalità, […] come senso della presentificazione che deve far passare, secondo un certo valore, l’avvenire nel passato»[27].
In questo senso l’elaborazione dell’ultimo de Martino segna, secondo Carla Pasquinelli, «la morte del sacro»: l’«ethos del trascendimento diventa la forma attraverso cui l’uomo accetta di stare nella storia in una maniera che non sia pura ripetizione e imitazione del passato»[28]. Il tempo storico è riconcettualizzato dal pensatore come tempo dell’evoluzione continua, della sfida sempre portata a sé stesso: la «coazione a ripetere che nella natura sta senza dramma (la regolarità del cielo stellato), nell’uomo sta come malattia psichica»[29]. All’ethos spetta il compito di fondare la presenza, ma al tempo stesso di plasmare un mondo integralmente umano, in cui essa possa darsi. Non possono sfuggire i radicali contenuti politici e sociali di una tale impostazione.
È stato sempre Ginzburg a paragonare de Martino «al leone della favola, che cancella con la coda le proprie tracce»[30]; questo a rappresentare una tendenza, tipica dell’antropologo, a occultare le proprie fonti. Se a ciò si aggiunge l’impossibilità di accedere alla consultazione integrale dei materiali dell’archivio personale dello studioso, risulta chiaro come sia difficile illuminare questioni riguardanti i prestiti e i debiti contratti con altri pensatori. Fatta questa premessa, è però indubbio che de Martino abbia frequentato la produzione camusiana: ampia traccia se ne trova nei materiali confluiti ne La fine del mondo, dove in particolare l’autore commenta e annota brani da L’étranger e Le mythe de Sisyphe[31].
Il confronto di de Martino con Camus sembra però limitato a questa fase della produzione dello scrittore francese, più soggetta all’influenza sartriana. In quegli scritti, come in quelli di Sartre stesso e di Moravia, l’antropologo individua una testimonianza dell’apocalittica contemporanea, volta a proporre la condizione umana, l’essere-nel-mondo, come “assurdo”. Una posizione intellettuale che tenta un equilibrio impossibile tra «desiderio di unità» e «caos irriducibile della mondanità», un mantenersi in bilico, qualificato «come honnêteté», che de Martino liquida però come «“onestà” tutta letteraria, tutta velleitaria, tutta retorica, tutta ipocrita»[32]. A fronte di ciò, egli rivendica con veemenza l’assoluta “disonestà” «della situazione reale dell’uomo», che non può mai «stare in bilico», ma si trova sempre a «sbilanciarsi o verso la scelta concreta […] di un progetto operativo pieno di senso» o verso la «caduta nel caos e nei “puri” vissuti della follia»[33].
Leggendo queste righe cariche di verve polemica, non può non stupire che de Martino non si sia confrontato con la fase successiva del pensiero camusiano. Con la pubblicazione de L’homme revolté, nel 1951, e la rottura definitiva con Sartre, lo scrittore francese compie il salto definitivo verso un orizzonte riflessivo autonomo e originale, che era in nuce anche nelle opere precedenti. In questo libro capolavoro emerge tutto lo spirito “operativo” della filosofia di Camus, la sua radicale contestazione dello stato di cose presenti e insieme l’afflato progressivo del suo pensiero[34].
Rimandando ad altra occasione un discorso più analitico circa i contatti diretti e indiretti tra i due autori[35], quello che qui vogliamo proporre è la convergenza ideale che si può evidenziare tra le loro ricerche. Da prospettive estremamente differenti, entrambi posero con forza la questione di un ripensamento globale della realtà umana, nella direzione di quell’allargamento antropologico cui accennavamo in apertura. I loro percorsi, pur differenziati, possono così essere inquadrati come risposte autonome ma consonanti a un’esigenza storica, diffusa.
«L’assurdo […] ha fatto tabula rasa. Ci lascia in un vicolo cieco. […] Grido che a nulla credo e che tutto è assurdo, ma non posso dubitare del mio grido e devo almeno credere alla mia protesta» e così conservare «la speranza di una creazione»[36]. Queste righe, dall’introduzione de L’homme revolté, chiariscono senza alcuna possibilità di incertezza la posizione filosofica e politica di Camus. Come ha annotato Olivier Todd, il libro potrebbe avere per sottotitolo: «l’uomo contro una certa idea della rivoluzione»[37]. Lo scrittore si pone infatti frontalmente contro le derive rivoluzionarie di destra e di sinistra, dalla Rivoluzione francese, al nichilismo ottocentesco, al messianismo marxista, ai regimi autoritari del Novecento. Da autore impegnato, Camus pronuncia quella che allora poteva apparire un’eresia: la condanna senza appello del naufragio ideologico di giacobinismo e bolscevismo, dell’omicidio collettivo divenuto strumento di potere.
Tutto il volume è una brillante e rocambolesca analisi delle elaborazioni filosofiche, letterarie, politiche dei due secoli precedenti, da Saint-Just a Sade, da Lautréamont a Nietzsche, fino a Marx, Breton e Lenin, nel tentativo di proporre una nuova realtà di rivolta, inserita in un umanesimo radicale. Non è questo il luogo per una disamina approfondita delle critiche mosse ai vari autori, quanto vogliamo mettere in luce è però come dalla sua corrosiva prosa emerga un’indagine impietosa delle ragioni che hanno portato i diversi pensieri e moti rivoluzionari al fallimento. «Ogni ideologia – scrive Camus – si costituisce contro la psicologia»[38], cioè contro una comprensione più profonda della natura umana.
È questo il nodo concettuale a fondamento dell’intera opera, così come della produzione successiva[39]. I vari moti rivoluzionari hanno provato a togliere dal campo la questione della natura umana: hanno tentato semmai di superarla, aspirando a un assoluto fuori dal tempo. Storiche o metafisiche che fossero, le rivoluzioni occidentali, da quella francese in poi, sono state rivolte della ragione pura, astratta, che hanno provato a plasmare un’immagine della storia immobile, vagheggiando un fine ultimo che si configura come fuga dalla realtà. Nel pensare la storia, annota lo scrittore, parlare di fine non ha «un valore d’esempio e di perfezionamento», ma «è un principio d’arbitrio e di terrore»[40]. Negando la realtà della vita, quei rivoluzionari hanno creduto in una ragione superiore, facendosi dio e cancellando di conseguenza ogni specificità umana.
Le rivolte storiche fattesi dominio presuppongono, scrive il pensatore, «una negazione e una certezza: la certezza dell’infinita plasticità dell’uomo e la negazione della natura umana. […] Ci si spiega così come il marxismo russo rifiuti nella sua totalità […] il mondo dell’irrazionale»[41]. L’irrazionale «[s]fugge al calcolo, e il calcolo solo deve regnare nell’Impero», l’uomo «non è altro che un gioco di forze sul quale si può premere razionalmente»[42]. Ma proprio «[q]uest’inconscio può allora definire l’originalità di una natura umana, opposta all’io storico» attuale, per questo nelle dittature l’uomo «deve invece ridursi all’io sociale e razionale, oggetto di calcolo»[43]. La portata di queste affermazioni è, con tutta evidenza, detonante. «Né il reale è interamente razionale, né il razionale del tutto reale»[44]. La critica di Camus al razionalismo filosofico è totale, per rimettere al centro della storia l’idea di una natura umana originaria, fatta di affetti, passioni, immagini.
Una nuova realtà di rivolta potrà nascere, per lo scrittore, solo da un pensiero meridiano, della “misura”[45]: ritrovare un’immagine adeguata dell’essere umano, «imparare a vivere, a morire e, per essere uomo, rifiutare di essere dio»[46]. Rinunciare a una trascendenza astratta, per proclamare un nuovo principio rivoluzionario: «Mi rivolto, dunque siamo»[47]. Con questa riformulazione del cogito cartesiano, Camus dichiara che la rivolta è un “no”, un rifiuto dell’esistente, che poggia però su un “sì”. Ovvero sul riconoscimento di una comune umanità, fondamento per una storia da fare insieme: «invece di uccidere e morire per produrre l’essere che non siamo, dobbiamo vivere e far vivere per creare quello che siamo»[48]. L’onnipotenza della ragione si può fermare riconoscendo il nostro limite: «Ciò che sempre diviene non ha la possibilità di essere, occorre un inizio»[49].
Più che filosofo, Camus preferì sempre definirsi scrittore, riconoscendo come primaria nella propria opera la dimensione artistica. Lo ribadì nel 1957, nel discorso per l’assegnazione del Nobel, quando tracciò il manifesto di una generazione che, per opporsi al nichilismo imperante, si era dovuta costruire «un’arte per vivere in tempi calamitosi, per nascere una seconda volta e lottare poi a viso scoperto contro l’istinto di morte»[50]. Una proposizione poetica di azione e pensiero. Ci sembra che questa frase possa riassumere il senso di quanto abbiamo provato ad abbozzare. De Martino e Camus sono due pensatori profondamente differenti: teorico impetuoso e innovativo ricercatore sul campo il primo, scrittore appassionato e immaginifico il secondo. Entrambi hanno però vissuto e lottato nella stessa temperie culturale e storica. Entrambi atei, antiideologici, antitradizionalisti hanno combattuto senza risparmiarsi contro ogni prospettiva che vedeva nell’irrazionale la rovina dell’uomo. In tempi di tormentati ritorni neoscettici, il loro è un pensiero radicale al quale non possiamo rinunciare. Due strade originali, verso una nuova antropologia.
[1] H. Arendt, Le origini del totalitarismo (1951), Edizioni di Comunità, Milano 1996, p. 655.
[2] Ivi, p. 636.
[3] In rapporto al discorso che qui proponiamo, sarà interessante approfondire anche la riflessione sul tema della nascita avanzata dalla pensatrice tedesca, nel confronto con quella di matrice heideggeriana. Cfr. M. Moretti, Hannah Arendt. La nascita come antidoto al terrore ideologico, «Per amore del mondo», 17 (2020).
[4] H. Arendt, Le origini del totalitarismo, op. cit., p. 655.
[5] E. Amalfitano, Controstoria della ragione. Il grande inganno del pensiero occidentale, L’asino d’oro, Roma 2022, p. 162.
[6] F. Dei, James G. Frazer e la cultura del Novecento. Antropologia, psicoanalisi, letteratura (1998), Carocci, Roma 2021, p. 172.
[7] S. Botta, Dagli sciamani allo sciamanesimo. Discorsi, credenze, pratiche, Carocci, Roma 2018, p. 112. Per un’indagine approfondita sul pensiero di Eliade, sui suoi strumenti intellettuali e sulla natura teologica e finalistica del suo metodo storico-religioso, cfr. L. Ambasciano, Sciamanesimo senza sciamanesimo. Le radici intellettuali del modello sciamanico di Mircea Eliade: evoluzionismo, psicoanalisi, te(le)ologia, Nuova cultura, Roma 2014.
[8] Per una critica della nozione di “autenticità”, cfr. il classico T. W. Adorno, Il gergo dell’autenticità. Sull’ideologia tedesca (1964), a cura di P. Lauro, Bollati Boringhieri, Torino 2016.
[9] Cfr. M. Fagioli, L’idea della nascita umana. Lezioni 2010, L’asino d’oro, Roma 2015. Sulle estreme conseguenze del pensiero heideggeriano, cfr. anche V. Farias, L’eredità di Heidegger nel neonazismo, nel neofascismo e nel fondamentalismo islamico, Medusa, Milano 2008; E. Faye, Heidegger, l’introduzione del nazismo nella filosofia (2005), a cura di L. Profeti, L’asino d’oro, Roma 2012.
[10] E. Amalfitano, Controstoria della ragione, op. cit., p. 164.
[11] Cfr. ancora S. Botta, Dagli sciamani allo sciamanesimo, op. cit., pp. 101-135 e A. A. Znamenski, The beauty of the primitive. Shamanism and the western imagination, Oxford University Press, Oxford 2007, pp. 165-203.
[12] La convergenza tra il Mondo magico demartiniano e Dialettica dell’Illuminismo era già stata segnalata nel 1954 da Renato Solmi, nella sua introduzione a Minima moralia di Adorno.
[13] Clara Gallini et al., La fine del mondo di Ernesto de Martino, «Quaderni storici», 40 (1979), pp. 228-248, p. 239.
[14] In questo filone si possono inserire, senza alcuna pretesa di esaustività, anche altre esperienze, che trovano tutte la loro incubazione o la loro prima manifestazione tra gli anni Quaranta e Sessanta del secolo scorso: la ricerca sull’immagine di Michelangelo Antonioni, quella linguistica di Giovanni Semerano e poi, guardando alla generazione successiva, il marxismo di Ágnes Heller, con la sua teoria dei bisogni radicali, le indagini sulla stregoneria di Cesare Bermani e Carlo Ginzburg, quelle sul “meraviglioso” ottocentesco di Clara Gallini e, in maniera radicalmente più compiuta, la teoria della nascita di Massimo Fagioli.
[15] G. Sasso, La voce dei ricordi, Bibliopolis, Napoli 2012, p. 47.
[16] R. Ciavolella, L’etnologo e il popolo di questo mondo. Ernesto de Martino e la Resistenza in Romagna (1943-1945), Meltemi, Milano 2018.
[17] P. Cherchi, Ernesto de Martino: un pensatore dell’«anno zero», in Id., Il signore del limite. Tre variazioni critiche su Ernesto de Martino, Liguori, Napoli 1994, pp. 9-62, p. 33.
[18] E. de Martino, Il mondo magico. Prolegomeni a una storia del magismo (1948), Bollati Boringhieri, Torino 2007, p. 4.
[19] Circa la ricerca sul non cosciente condotta dall’antropologo mi limito a segnalare, in una prospettiva psichiatrica, R. Altamura, La difficile coerenza, in E. de Martino, Scritti minori su religione marxismo e psicoanalisi, a cura di R. Altamura e P. Ferretti, Nuove Edizioni Romane, Roma 1993, pp. 7-44; L. Barra, De Martino e le scienze della mente, in Conoscere per trasformare. La ricerca di Ernesto de Martino, a cura di A. Iacarella e S. Marzetti, Left, Roma 2021, pp. 96-108.
[20] E. de Martino, Il mondo magico, op. cit., p. 5.
[21] Ivi, p. 221. Nel volume si evidenzia con forza la critica portata da de Martino alla tradizione idealistica tedesca, da Hegel in poi, e in particolare all’identità di reale e razionale. Critica che sarà condivisa, come vedremo più oltre, anche da Camus.
[22] Ivi, p. 222, corsivo nel testo.
[23] E. de Martino, La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali (1977), a cura di C. Gallini, Einaudi, Torino 2002, p. 654.
[24] Ivi, p. 661.
[25] Ivi, pp. 168-193.
[26] Ivi, p. 668.
[27] Ivi, p. 674. Si evidenzia qui dunque una differenza fondamentale rispetto all’imperativo morale kantiano, che andrebbe ulteriormente indagata.
[28] C. Pasquinelli, Trascendenza ed ethos del lavoro. Note su La fine del mondo di Ernesto de Martino, «La ricerca folklorica», 9 (1984), pp. 29-36, p. 34.
[29] E. de Martino, La fine del mondo, op. cit., p. 223.
[30] C. Ginzburg, Verso “La fine del mondo”. Sull’ultimo progetto di Ernesto De Martino, in Id. La lettera uccide, Adelphi, Milano 2021, pp. 201-211, p. 202. Nello stesso saggio, l’autore propone anche la seducente ipotesi che L’eclisse di Antonioni, uscito nel 1962, abbia esercitato un’influenza sull’interesse di de Martino per il tema delle apocalissi.
[31] E. de Martino, La fine del mondo, op. cit., pp. 537-544.
[32] Ivi, pp. 543-544.
[33] Ivi, p. 544.
[34] Sappiamo, dalla corrispondenza dell’autore, che la stessa Arendt apprezzò molto il volume camusiano. Cfr. O. Todd, Albert Camus: una vita (1996), Bompiani, Milano 1997, p. 540.
[35] Se de Martino è stato certamente lettore di Camus, non vi sono tracce circa l’inverso. Nei Taccuini e nella corrispondenza edita, così come nelle opere dello scrittore francese non è stato infatti possibile trovare alcun cenno all’antropologo.
[36] A. Camus, L’uomo in rivolta (1951), Bompiani, Milano 2014, pp. 12-13.
[37] O. Todd, Albert Camus, op. cit., p. 526.
[38] A. Camus, L’uomo in rivolta, op. cit., p. 132.
[39] Il tema era d’altronde da sempre presente all’autore, se consideriamo che già il 14 novembre 1946 scriveva, in una lettera a Nicola Chiaromonte: «Ma forse bisogna anche (…) che riconosciamo i nostri errori e che dichiariamo a tutte lettere che esistono valori, una natura umana e due o tre cose che abbiamo negato o svilito» (A. Camus e N. Chiaromonte, In lotta contro il destino. Lettere 1945-1959, a cura di S. Novello, Neri Pozza, Vicenza 2021, p. 66).
[40] A. Camus, L’uomo in rivolta, op. cit., p. 245.
[41] Ivi, p. 259.
[42] Ibid.
[43] Ibid.
[44] Ivi, p. 323.
[45] Sulla nozione di “misura” come chiave di volta dell’opera camusiana, cfr. V. Bédard St-Cyr, La mesure dans l’œuvre d’Albert Camus, Département de philosophie-Université de Sherbrooke, Sherbrooke 2020, pp. 96-123.
[46] A. Camus, L’uomo in rivolta, op. cit., p. 334.
[47] Ivi, p. 27.
[48] Ivi, p. 273.
[49] Ivi, p. 323.
[50] A. Camus, Discorsi di Svezia, in Id., Opere. Romanzi, racconti, saggi, a cura di R. Grenier, pp. 1233-1266, p. 1242.