I paesi di Visegrad, l’Unione Europea e i migranti: un rapporto difficile
- 14 Settembre 2017

I paesi di Visegrad, l’Unione Europea e i migranti: un rapporto difficile

Scritto da Pietro Dalmazzo

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L’Unione Europea ha affrontato il fenomeno migratorio degli ultimi anni utilizzando diverse soluzioni, alcune accettabili, altre meno[1]. Tali soluzioni sono state capaci di generare profonde fratture tra gli stati membri e l’Unione.

Se le migrazioni sono un fenomeno complesso, sollecitate da una miriade di motivazioni che portano necessariamente altrettante conseguenze[2], d’altra parte l’organizzare un sistema di accoglienza efficace ed umano si è rivelato piuttosto complicato per l’Unione Europea.

La Comunità europea ha dovuto fronteggiare due generi di problematiche: da un lato un sistema normativo in materia piuttosto obsoleto, come per esempio quello basato sui trattati di Dublino[3]; dall’altro le difficoltà legate alle resistenze e diffidenze di alcuni paesi membri nei confronti dell’Unione stessa e nei confronti dei migranti.

Tali problematiche hanno segnato la discussione sul piano, fortemente caldeggiato da Italia e Grecia, ma votato da quasi tutti gli stati membri[4], di redistribuzione dei richiedenti asilo in Europa. Approvato nel settembre 2015, all’apice della pressione migratoria, diventato operativo un paio di mesi dopo, il progetto prevede il ricollocamento di circa 160mila richiedenti asilo arrivati in Italia, Ungheria e Grecia nel resto dei paesi dell’Unione nell’arco di due anni. Le quote di richieste da gestire per ogni paese sono stabilite tramite criteri proporzionali, in accordo, almeno teoricamente, con i singoli governi nazionali che assunsero l’impegno di garantire la propria quota. Per ogni migrante accolto l’Unione fornisce un supporto economico e ne paga il trasferimento. Il piano, pensato per alleggerire la pressione migratoria sui paesi più soggetti ad essa[5], permette di neutralizzare, almeno temporaneamente, i trattati di Dublino e di spalmare, almeno parzialmente, il fenomeno migratorio sull’intera comunità europea. Tale proposta viene presentata ed approvata in un momento in cui i contrasti tra i paesi del gruppo Visegrad, o V4, e l’Unione Europea erano, e sono tutt’oggi, praticamente quotidiani.

Questo gruppo, capace di coordinare quattro paesi dell’Europa centrale su diversi obbiettivi, come spiegato in un articolo precedente ha cambiato notevolmente la sua natura dalla nascita, arrivando a formare un vero e proprio fronte di opposizione interno all’Ue[6]. Le fonti di disaccordo tra le due entità sono di diversa natura e si articolano su diversi campi, dal sociale al politico ma, volendo riassumere il contrasto ad un solo concetto principale, si può affermare che i governi dei quattro di Visegrad[7] spingano per una profonda revisione dell’Unione e dei suoi valori, in favore di un progetto europeo fondato sulle libertà nazionali.

Naturalmente una delle lotte più accese tra le due entità sovranazionali si sta combattendo sulla questione migranti. I governi dei quattro paesi si sono rivelati refrattari all’accoglienza, ed hanno guadagnato spesso le prime pagine dei giornali a causa di atti di vero e proprio razzismo nei confronti dei migranti. In un contesto relazionale maturato sul contrasto, il progetto di redistribuzione delle quote dei richiedenti asilo ha incontrato una netta opposizione da parte dei V4 con l’esclusione, all’ultimo momento, della Polonia che si è dichiarata, inaspettatamente, favorevole al progetto, pur non avendo accolto, ad oggi, ancora alcun richiedente asilo.

È il governo ungherese, guidato da Orbán, il capofila dei paesi oppositori; in particolare proprio in Ungheria il tentativo di opporsi al programma si è articolato su diverse tappe. Partendo dall’opposizione in sede di Consiglio europeo e dal ricorso presentato insieme alla Slovacchia contro l’obbligo di accogliere i rifugiati da altri paesi, vanno necessariamente ricordati due passaggi: il referendum del due ottobre 2016 e il tentativo di riforma costituzionale portato avanti da Orbán ma bocciato dallo stesso parlamento Ungherese. Entrambi questi passaggi, pur confermando l’assoluto sostegno dell’Ungheria al suo presidente ed alla sua linea politica, sono falliti dal punto di vista tecnico e giuridico.

 

La linea dell’Unione Europea 

La sentenza della Corte europea del 6 settembre scorso ha chiuso l’iter giuridico del ricorso di Slovacchia e Ungheria, bocciando le richieste ed, in sostanza, il comportamento tenuto da tutti i paesi del blocco di Visegrad nei confronti dei migranti.

In realtà la bocciatura da parte dell’Unione Europea era già arrivata lo scorso giugno, quando la Commissione aprì una procedura d’infrazione nei confronti di questi paesi[8], poiché, oltre alle preoccupazioni legate alle libertà interne, non adempivano, e tuttora si rifiutano di farlo, ai loro obblighi in materia di accoglienza. Avramopulos, commissario europeo per le migrazioni, dopo la sentenza ha ribadito che proseguirà l’iter della procedura d’infrazione fino ad arrivare al deferimento alla corte di giustizia Ue[9].

La risposta dei paesi di Visegrad non si è fatta attendere, sia la procedura d’infrazione sia la sentenza della Corte sono state interpretate come un diretto attacco alla sovranità nazionale dei singoli paesi e la sua stessa messa in discussione. A questo vanno aggiunte le immancabili dichiarazioni populiste e sensazionali in difesa della Nazione Ungherese, Slovacca, Polacca e Ceca, ormai entrate d’ufficio nel copione dei quadri dirigenti dei paesi di Visegrad, ma che rimangono sempre e comunque fuori luogo e spesso spiacevoli. Il contrasto politico tra i quattro paesi dell’Europa centrale e Bruxelles è un dato di fatto già da diverso tempo, questa sentenza ne è solo l’ultimo capitolo.

Nonostante i recentissimi avvenimenti e dichiarazioni, non è comunque immaginabile un’uscita di questi paesi dall’Ue, così come non è immaginabile, viceversa, la volontà da parte dell’Unione di escludere dal suo interno questi paesi. Se le politiche e soprattutto la visione dell’Ue sono opposte è indubbio che vi sia una reciproca convenienza, economica e politica, a rimanere insieme. Perché se da un lato i fondi Europei e la Comunità economica europea hanno permesso, e tuttora aiutano, il rilancio economico di questi paesi, dall’altro un’eventuale uscita dall’Unione sarebbe un fortissimo colpo all’immagine ed alla credibilità della Comunità Europea già fortemente messa in discussione dalla Brexit.

Oltre alla reciproca convenienza, va comunque evidenziato lo stato generale del piano di redistribuzione che si può considerare praticamente fallito. I numeri sono desolanti: su un totale di 160mila, poi ridotto di circa 70mila unità, sono stati redistribuiti solo 27mila richiedenti su un piano biennale che si fermerà a fine settembre e, come dichiarato da Avramopulos, non verrà rinnovato[10].

Sul numero totale di richieste, i paesi di Visegrad, avrebbero dovuto accogliere un numero piuttosto limitato di richiedenti, per esempio, all’Ungheria era richiesta l’accoglienza di circa 1500 rifugiati[11]. L’Ungheria non ha accolto alcun richiedente, gli altri tre paesi non hanno accolto nessun richiedente asilo dall’Italia e solo poche decine dalla Grecia; in ogni caso la nullità del loro supporto al progetto non basta a giustificarne un tale ridimensionamento. Il fallimento sostanziale del programma non si può ascrivere solo al comportamento inumano tenuto dalle istituzioni dei V4 ma va ricercato in uno spirito comunitario praticamente inesistente. A poche settimane dalla scadenza del piano, solo Malta e la Finlandia sono realmente vicino al raggiungimento della quota a loro assegnata[12]; questo dato dice moltissimo sull’approccio degli altri paesi europei ad una questione di un’importanza sociale, umana e culturale incalcolabile.

Vi sono state delle colpe innegabili da parte di quasi tutti i paesi dell’Unione, compresi Italia e Grecia, i numeri raggiunti dal progetto non possono essere incoraggianti, così come non è incoraggiante la scarsa attitudine dell’Unione ad affrontare certi fenomeni a livello comunitario e non Nazionale. Nonostante i richiami a valori unitari e di reciproca solidarietà praticamente continui da parte delle più alte istituzioni europee.

 

La sentenza della Corte è solo un punto di partenza? 

In un contesto preoccupante come quello evidenziato dal bilancio del progetto di redistribuzione, è arrivata la sentenza della Corte che, naturalmente, non può salvare il piano del settembre 2015, ma può essere un passo per risvegliare lo spirito comunitario dell’Unione. Come evidenziato su diversi quotidiani[13] la sentenza, in senso stretto, ristabilisce la legittimità della distribuzione dei rifugiati, ma ha un significato simbolico non indifferente poiché giunge durante le negoziazioni tra i 28 stati membri per una riforma del diritto d’asilo.

È bene ricordare che, in tema di diritto e richiesta di asilo, dettano ancora legge i trattati di Dublino, che, seppur rivisti nel corso del tempo, stabiliscono ancora l’obbligo, per il migrante, di fare richiesta di asilo nel paese di arrivo e non di destinazione. Questa norma al giorno d’oggi, davanti all’attuale fenomeno migratorio, appare desueta ed una riforma strutturale è una necessità.

L’esecutivo comunitario è fautore di una riforma che permetterebbe una redistribuzione d’autorità dei rifugiati in situazioni particolarmente gravi; una formalizzazione, de facto, del sistema delle quote che, pur avendo fallito in questa situazione, viene ritenuto comunque, almeno teoricamente, valido ed efficace, se applicato. Poiché se è vero che il progetto che si concluderà a fine mese può considerarsi fallito è anche vero che l’applicazione di esso è stata saltuaria ed insufficiente per testarne la validità. Naturalmente, i primi sostenitori di una riforma in questo senso sono i governi di Italia e Grecia, ma le trattative per una conclusione positiva della riforma dei trattati di Dublino procedono molto lentamente ed incontrano diverse opposizioni.

In questo senso assume valore la sentenza della Corte, poiché può generare la spinta decisiva a questo progetto, riaffermando la piena legittimità di tali pretese da parte dell’Unione. È una sentenza con una futura funzionalità politica, o almeno queste sono le speranze, perché sul piano pratico della redistribuzione immediata la faccenda sembra irrimediabilmente compromessa.

In conclusione, la sentenza ha dunque un valore più futuribile, oltre ad inasprire naturalmente i rapporti tra Unione e Visegrad. Ma uscendo dalla dialettica del contrasto tra questi due enti la vicenda in questione deve portare anche ad una riflessione più ampia sull’Unione Europea, dando comunque per scontato che il comportamento dei governi di Visegrad sia inaccettabile e, come detto, disumano[14]. La vicenda non è caratterizzata solo i paesi dell’Europa Centro-Orientale, ma anche dal comportamento poco comunitario di molti altri paesi europei che non hanno tenuto fede agli impegni presi nell’ambito del consiglio europeo. Questo comportamento denuncia, per l’appunto, l’incapacità di gestire un problema a livello di comunità. Tale incapacità non può essere tollerabile in un contesto come l’Unione Europea. Così come non è tollerabile che una riforma dei trattati di Dublino venga vista come rinviabile o comunque non strettamente necessaria, anche se i paesi più penalizzati da essa sono solamente due.

È la concezione degli stati membri che deve essere spinta non verso il nazionalismo ma verso una visione comunitaria, sempre molto difficile da assumere, soprattutto se riguarda presunti oneri piuttosto che onori, come in questo caso, ma è uno scalino che è necessario compiere per costruire un’Unione che sia realmente tale.

È un problema quasi ciclico degli stati membri, è un discorso che si ripresenta spesso sotto diverse forme a seconda dei problemi ma che evidenzia sempre la necessità di emanciparsi dagli interessi nazionali per dare spazio agli interessi dell’Unione. É un passaggio fondamentale nel quale questa sentenza può ricoprire un ruolo, poiché rappresenta un, seppur piccolo, passo verso lo sviluppo di un approccio ed una soluzione comunitaria ai problemi. Approccio che dovrà essere, in ogni caso, necessariamente raggiunto il più presto possibile.


[1] Mi riferisco soprattutto all’accordo concluso con la Turchia per agevolare la chiusura della rotta Balcanica. Turchia che al tempo era al centro delle polemiche legate al colpo di stato dell’estate 2016 e alle conseguenti epurazioni e di conseguenza un partner difficilmente credibile per un’organizzazione come l’Unione Europea che si fa vanto e portatrice di un determinato sistema di valori fondato sulla democrazia e la libertà.

[2] https://www.pandorarivista.it/articoli/immigrazione-lavoro-cause-conseguenze/

[3] Qua un piccolo quadro riassuntivo http://www.repubblica.it/esteri/2015/09/10/news/il_trattato_di_dublino-122610371_Visegrad/

[4] Nello specifico votarono contro il piano Ungheria, Slovacchia, Repubblica Ceca e Romania, con la Finlandia astenuta, mentre il Regno Unito, come è in suo potere secondo i trattati stipulati con l’Unione si tirò indietro.

[5] Nello specifico va ricordato che a settembre 2015 la rotta Balcanica era ancora pienamente attiva.

[6] https://www.pandorarivista.it/articoli/il-gruppo-di Visegrad

[7] Slovacchia, Ungheria, Repubblica ceca e Polonia.

[8] https://ilmanifesto.it/la-svolta-autoritaria-spaventa-lunione-europea/

[9] http://www.repubblica.it/esteri/2017/09/06/news/quote_migranti_respinto_ricorso/

[10] M.Bresolin La Corte europea boccia l’Est “Avanti con la redistribuzione dei profughi da Italia e Grecia” La Stampa del 7 Settembre 2017, pp. 6/7

[11] https://www.matteotacconi.com/blog/2017/9/8/orban-e-kaczysnki-sfasciatori-europei Visegrad

[12] M. Bresolin op. cit.

[13] B. Romano Corte Ue: Ricollocare i migranti Il Sole 24 ore del 7 Settembre 2017, p. 6; Caizzi Dublino e sanzioni, ora cosa succede? Il corriere della Sera del 7 settembre 2017, p. 3

[14] Penso, in particolare, alle modalità di controllo dei confini attuate dal governo Orban inaccettabili e degradanti per l’essere umano; per non parlare delle richieste, quantomeno ridicole, presentate all’Unione per finanziare un’ulteriore fortificazione del confine con la Serbia.

Scritto da
Pietro Dalmazzo

Nato a Sanremo nel 1993. Studia scienze storiche presso l'Università di Bologna, dove si è laureato nel 2015 in storia con una tesi sui rapporti tra Italia e Kosovo negli anni '90. Ha preso parte al progetto Erasmus presso l'Università di Gand nell'anno accademico 2016/2017, precedentemente ha collaborato con East Journal ed è un grande appassionato di viaggi.

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