Scritto da Daniele Molteni
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Le vicende individuali non sono mai soltanto personali: illuminano sistemi politici, forme di controllo e narrazioni. In Un giorno nella vita di Abed Salama. Anatomia di una tragedia a Gerusalemme (Neri Pozza), Nathan Thrall racconta la storia di un padre che cerca suo figlio dopo un incidente d’autobus, all’interno di un labirinto fisico e burocratico, decostruendo l’idea che nei territori israeliani e palestinesi esista davvero un “tempo di pace”. La tragedia diventa una lente sulla violenza quotidiana di uno status quo fatto di muri, permessi, confini invisibili e scelte politiche presentate come inevitabili.
Nathan Thrall è giornalista e saggista, vive a Gerusalemme e ha diretto per dieci anni l’Arab-Israeli Project nell’ambito dell’International Crisis Group; con Un giorno nella vita di Abed Salama ha vinto il Premio Pulitzer per la non-fiction nel 2024.
In questa intervista – svolta in occasione della presentazione del libro organizzata da Pandora Rivista a Bologna con Francesca Mannocchi e Nathan Thrall – abbiamo parlato del libro in un momento in cui la sua analisi risuona più che mai: dalla guerra a Gaza alle nuove accelerazioni del progetto di insediamento in Cisgiordania, fino al cosiddetto “piano di pace” per Gaza che, secondo l’autore, sta consolidando l’occupazione dei territori palestinesi. Una diagnosi che invita a interrogare la radice del conflitto, la sua storia di spossessamento e il ruolo determinante degli Stati Uniti.
Il suo libro, Un giorno nella vita di Abed Salama, si apre con una tragedia: un incidente d’autobus e la ricerca disperata di un padre, intrappolato in un labirinto burocratico, nel tentativo di ritrovare il figlio. Perché ha scelto di raccontare proprio questa storia, avvenuta in quello che lei definisce “tempo di pace” in Cisgiordania, in un periodo tra una guerra e l’altra? E cosa rivela riguardo al funzionamento della violenza quotidiana in quei territori?
Nathan Thrall: Il libro nasce soprattutto da una frustrazione per il modo in cui gran parte della comunità internazionale affronta la questione israelo-palestinese. L’approccio generale, quello più diffuso, consiste nell’accettare il cosiddetto “status quo” e nell’alzare la voce solo quando si verifica un evento estremo, un’esplosione di violenza, qualcosa di eclatante. In quei momenti ministri degli Esteri e capi di Stato occidentali si affrettano a dichiarare che bisogna ripristinare la calma. E appena la violenza si attenua, tornano a considerare la situazione nuovamente accettabile. Io invece volevo spezzare questo schema, mostrare quanto sia inaccettabile la presunta calma, quanto per i palestinesi non abbia nulla di “calmo”. Chiamiamo questi periodi “status quo”, come se il quadro fosse immobile, ma non lo è affatto. È un processo lento e costante di appropriazione della terra palestinese e della sua trasformazione in terra ebraica; di espulsione dei palestinesi dalle loro case e di loro confinamento in spazi sempre più ridotti. È un processo che va avanti da decenni e che la comunità internazionale, in un modo o nell’altro, accetta, facilita o addirittura sostiene attivamente. Per richiamare l’attenzione su questa realtà, ho scelto deliberatamente di non concentrarmi sugli eventi che solitamente attirano l’attenzione occidentale. Ho preferito l’esatto opposto: raccontare ciò che viene considerato tranquillo, normale, persino trascurabile. Scegliere come fulcro del libro un incidente d’autobus, qualcosa di apparentemente ordinario, era un modo per mostrare quanto fosse invece straordinario tutto ciò che lo circondava, a causa del sistema di controllo sotto cui vivono i palestinesi, un sistema che noi in Occidente continuiamo ancora oggi a mantenere e preservare.
Una cosa che ho trovato particolarmente coinvolgente nel suo libro è lo stile, il modo di usare la lingua. Restituisce umanità ai palestinesi senza idealizzarli, senza presentarli soltanto come vittime o come responsabili di crimini. Inoltre, fonde reportage, storia orale e analisi politica in un contesto estremamente sensibile. Perché ha scelto questo stile? E che valore attribuisce al linguaggio nel suo lavoro?
Nathan Thrall: Una delle difficoltà nello scrivere di Israele e Palestina è che esiste un intero vocabolario che diversi gruppi usano quando parlano tra loro. Mi basta leggere le prime righe di quasi qualunque autore che si occupa di questo tema per capire subito da quale campo provenga e quali siano le sue posizioni politiche. Il mio obiettivo, in tutto ciò che scrivo ma soprattutto in questo libro, era raggiungere persone che non la pensano come me. Per farlo, non potevo adottare il lessico di nessun campo politico, nemmeno di quelli a cui mi sento più vicino. Dovevo evitare tutto quel gergo. La sfida era descrivere la realtà nel modo più semplice e diretto possibile, evitando termini talmente carichi da funzionare più come segnali di appartenenza che come descrizioni della vita quotidiana. Non solo perché detesto il linguaggio tecnico e settario, cosa che è comunque vera, ma perché volevo ridare freschezza a parole che per molti lettori sono diventate slogan. Prendiamo la parola “occupazione”, per esempio. Che cosa evoca per qualcuno in Italia? Magari immagini della Seconda guerra mondiale, o forse qualcos’altro ancora. Lo scopo del libro era dare corpo a quella parola, renderla concreta, permettere al lettore di vedere una situazione precisa: un uomo davanti a dei soldati che gli impediscono di raggiungere il luogo dove gli è stato detto che si trova suo figlio.
Parlando di linguaggio, è interessante notare come si possa restituire a certe parole un significato reale anche senza esplicitamente utilizzarle; parole che, come diceva, usiamo spesso senza interrogarle davvero, come semplici slogan. Dato che parliamo di parole, è così anche per il termine apartheid? In questo senso, il suo libro mette in luce quella che lei definisce l’architettura nascosta del controllo. In che modo questo sistema di segregazione burocratica e spaziale plasma l’identità palestinese?
Nathan Thrall: L’uso della parola “apartheid” è un esempio perfetto di ciò che stavo dicendo. Nei miei altri scritti mi sono occupato a lungo di apartheid, dimostrando che Israele commette il crimine di apartheid così come definito dallo Statuto di Roma e dalla Convenzione internazionale del 1973 per la repressione e la punizione del crimine di apartheid. Nei miei saggi è tutto molto chiaro; alcuni trattano esclusivamente questo tema. In questo libro, però, avevo un obiettivo diverso. Volevo raccontare una storia, far entrare il lettore nei panni dei personaggi e, ancora una volta, evitare il gergo tecnico e le parole che subito suonano come delle dichiarazioni di appartenenza a uno schieramento; evitare di allontanare fin dalla prima pagina un lettore aperto ma proveniente da un altro contesto, che potrebbe sentire quel termine come qualcosa di troppo radicale. Per questo non l’ho usato, se non una volta soltanto in tutto il libro: compare detto dalla voce di un funzionario israeliano che lo ha pronunciato lui stesso. Quindi sì, assolutamente: il libro parla di apartheid, mostra l’apartheid. Ma pensavo fosse molto più convincente lasciare al lettore la possibilità di riconoscerlo da sé, piuttosto che dire esplicitamente fin dalla prima pagina: “questo è apartheid”.
La storia di Israele-Palestina è, prima di tutto, una storia di terra: della sua conquista e trasformazione. In ultima analisi è la storia di un territorio chiamato Palestina, con una popolazione che all’inizio del movimento sionista era per circa il 97% non ebraica, e del modo in cui, grazie agli sforzi del movimento sionista e al sostegno delle grandi potenze, prima il Regno Unito, poi altre, quella terra è stata trasformata nella terra d’Israele. Quando si parte da una piccola popolazione ebraica e da una popolazione palestinese ampia, che si oppone a questo progetto, non si può rimodellare il territorio tutto insieme. Lo si fa pezzo per pezzo. E frammentando la resistenza. Si spezza una lotta nazionale in molte piccole lotte locali, così che ogni villaggio o città palestinese si trovi ad affrontare una battaglia isolata. Questa frammentazione è stata assolutamente centrale, sia per l’esperienza palestinese sia per il successo di Israele nell’espansione del proprio controllo. Nel libro mi concentro sull’area della Grande Gerusalemme; una priorità assoluta di Israele, che vuole trasformarla in una regione a maggioranza ebraica, nella quale i palestinesi non possano mai ottenere sovranità. È l’obiettivo dichiarato ed esplicito del progetto di insediamento. Ciò che cerco di mostrare è come i muri, le strade separate, i checkpoint, il regime dei permessi, le norme urbanistiche e l’incoraggiamento alla costruzione ebraica accanto alla demolizione delle case palestinesi funzionino insieme in questa regione, che è un microcosmo del modo in cui l’intero sistema opera su tutto il territorio.
Dall’ottobre 2023, quando il suo libro è uscito per la prima volta in inglese, Gaza è tornata al centro dell’attenzione globale. Ma anche in Cisgiordania e a Gerusalemme la repressione si è intensificata. In questo contesto, dopo il 7 ottobre, come sono cambiate le vite dei palestinesi e degli israeliani? E che cosa rivela questa escalation sull’approccio politico e strategico israeliano verso questi territori?
Nathan Thrall: Una delle cose di cui si parla oggi, dopo il cessate il fuoco a Gaza, è l’idea di applicare alla Striscia il “modello Cisgiordania”. Il modello Cisgiordania significa che la maggior parte del territorio è sotto diretto controllo israeliano, non solo dal punto di vista della sicurezza ma anche amministrativo, cosa che di fatto oggi avviene anche a Gaza. L’obiettivo è poi di concentrare la maggior parte della popolazione palestinese in un’area separata, dove disponga di poteri molto limitati su se stessa: una zona di abbandono e deprivazione. Questo è a lungo stato il modello in Cisgiordania ed è sempre più il modello che si sta consolidando a Gaza. In termini pratici, è così che il territorio è stato rimodellato dal 7 ottobre in poi. In Cisgiordania, il processo di spossessamento israeliano ha subito un’accelerazione drammatica. Decine di piccole comunità pastorali palestinesi sono state cancellate dalla mappa e oggi semplicemente non esistono più, perché esercito e coloni le hanno espulse. Intere porzioni della Valle del Giordano sono state sottoposte a una pulizia etnica dei palestinesi dopo il 7 ottobre. Nel primo anno di questa guerra, Israele ha confiscato più terra palestinese in Cisgiordania di quanta ne avesse presa nei vent’anni precedenti messi insieme. Israele ha visto un’opportunità: con l’attenzione del mondo concentrata su Gaza, poteva accelerare rapidamente il progetto di insediamento in Cisgiordania.
Ma credo che i cambiamenti più importanti non siano quelli materiali, ma quelli che riguardano le idee e la psicologia. Ciò che è avvenuto è la piena normalizzazione della totale disumanizzazione dei palestinesi nella società israeliana. È un elemento sempre esistito, ma ora è espresso apertamente da figure di primo piano, anche del centro-sinistra. Quando il presidente israeliano Isaac Herzog, ex leader del Partito Laburista, afferma che a Gaza non ci sono innocenti, siamo davanti a qualcosa che non si sentiva da decenni nella politica mainstream. Solo se si torna al 1948 o al 1967 si trovano dichiarazioni simili. Ma nel XXI secolo la maggior parte dei leader politici sapeva almeno di non poterle dire ad alta voce. L’altro cambiamento importante è che gli israeliani hanno intravisto, per la prima volta, la possibilità che una pulizia etnica su vasta scala possa avvenire nel XXI secolo. La pulizia etnica su piccola scala è una realtà abituale in Cisgiordania, ma l’idea di rimuovere due milioni di persone da Gaza, e percepire che il presidente degli Stati Uniti potrebbe in qualche modo sostenere o facilitare un simile piano, ha trasformato profondamente la percezione israeliana di ciò che è possibile.
Alla fine, la maggior parte degli israeliani oggi crede che esistano solo tre opzioni reali. La prima è quel tipo di pulizia etnica su larga scala che molti considerano una vera “soluzione” al problema. La seconda è continuare con qualche forma di apartheid: negare ai palestinesi i diritti, rifiutare loro uno Stato, ritoccare checkpoint e muri ma mantenere intatto il sistema fondamentale. Questa è la posizione maggioritaria. E poi c’è una piccola minoranza che sostiene l’idea di offrire ai palestinesi un vero Stato sovrano, non uno Stato solo di nome. Ci sono gruppi più numerosi che sostengono uno Stato simbolico: persone che sarebbero felici di prendere l’attuale realtà di autonomia palestinese limitata e chiamarla “due Stati”, come fa il Piano Trump del 2020; l’ex ministro della Difesa Moshe Yaalon ha riassunto bene questa visione dicendo: “che lo chiamino pure l’impero palestinese. A me cosa importa?”. Ma uno Stato veramente sovrano – con delle forze armate, una capitale a Gerusalemme, il controllo delle frontiere e la rimozione di tutti gli insediamenti – gode del sostegno di pochissimi in Israele. E dopo il 7 ottobre, il numero di israeliani disposti ad accettarlo è sceso ancora. Oggi, dunque, nella società israeliana esiste un consenso molto più ampio e rafforzato sul fatto che l’unica via possibile sia l’apartheid o la pulizia etnica.
Quanto pensa che questi effetti psicologici che ha descritto siano legati anche alla religione e ai traumi storici? Penso, per esempio, all’ascesa del sionismo religioso in Israele e alla crescente influenza che sta avendo nella politica israeliana.
Nathan Thrall: Quello del sionismo religioso è senza dubbio un fenomeno importante. Tuttavia, credo sia fondamentale sottolineare la continuità della politica israeliana. Il progetto di colonizzazione, per esempio, è stato avviato dal centro-sinistra israeliano. Il Partito Laburista era al potere nel primo decennio dell’occupazione dopo il 1967, ed è proprio quel partito ad aver creato le prime decine di insediamenti. Ogni governo israeliano, di sinistra, di destra o di centro, ha ampliato il progetto insediativo dal 1967 in poi. Per questo non voglio alimentare una narrativa che attribuisce tutta la responsabilità agli attuali nazionalisti religiosi. È vero che i sionisti religiosi tendono a sostenere politiche più di destra, a essere più apertamente favorevoli alla pulizia etnica e più disposti a dire senza giri di parole: “questa terra è nostra e i palestinesi non vi appartengono perché lo afferma la Bibbia”. E la loro crescente influenza politica ha effetti concreti. Ma la pulizia etnica compiuta dallo Stato nel 1948 è stata portata avanti in larga misura da persone che si consideravano laiche. Ora, si può discutere di quanto quelle figure, che si definivano laiche, lo fossero davvero nel senso in cui oggi intendiamo il termine. Per molti versi erano messianiche: volevano ristabilire un regno ebraico nella Terra Santa; usavano il linguaggio della redenzione; ricorrevano a una retorica religiosa pur percependosi come laici. E in fin dei conti si basavano comunque su una rivendicazione biblica. Perfino Ben-Gurion, famoso per rifiutare di indossare la kippah ai funerali, disse alle autorità britanniche: “la Bibbia è il nostro mandato”. Per questo esito a definire quei primi leader sionisti completamente laici; ma è così che si identificavano, e certamente erano laici rispetto ad altri segmenti dello spettro politico sionista. Il ricorso più ampio alla giustificazione biblica del sionismo è pervasivo. Esiste persino tra coloro che dichiarano di non credere nella Bibbia, come appunto i sionisti laici, i leader del movimento laburista. C’è una frase famosa dello storico israeliano Amnon Raz-Krakotzkin che cattura perfettamente il programma politico di quelle figure e la loro visione: “Dio non esiste, ma ci ha promesso questa terra”.
Durante il suo lavoro all’International Crisis Group, si è occupato a lungo della politica estera statunitense verso Israele e Palestina. In questo contesto, qual è la sua analisi dell’attuale ruolo degli Stati Uniti? Esiste un legame tra Israele e il concetto statunitense di “destino manifesto”?
Nathan Thrall: Credo che ci sia una certa tendenza a pensare che il sostegno degli Stati Uniti a Israele sia dettato unicamente dalla realpolitik, dall’idea che Israele sia un asset strategico o una sorta di avamposto americano in Medio Oriente. Ma mio avviso è un’interpretazione sbagliata. Ho parlato con numerosi alti funzionari americani che non la vedono affatto così. Molti di loro dicono, con grande franchezza, che Israele è un peso strategico. Quando gli Stati Uniti combattono guerre nella regione non fanno mai decollare i loro aerei da Israele, perché hanno basi in tutto il Golfo, in Turchia e altrove. E ripetutamente, molti generali statunitensi hanno dichiarato al Congresso che il sostegno a Israele danneggia la posizione di Washington in Medio Oriente, perché gli Stati Uniti sono percepiti come talmente sbilanciati a favore di Israele da essere complici delle sue azioni. Per questo non credo che gli interessi strategici spieghino la politica americana verso Israele. La radice è più profonda, ed è legata alla cultura politica degli Stati Uniti. C’è un intero ecosistema mediatico e politico che accetta senza metterle in discussione le premesse fondamentali del sionismo, che non problematizza la legittimità di fondare uno stato etnico attraverso lo spossessamento di un altro popolo.
Esistono poi fattori politici interni molto rilevanti. I gruppi e i donatori filoisraeliani esercitano un’influenza enorme nella politica americana. Le persone esitano a parlare apertamente di questo tema per paura di essere accusate di alimentare stereotipi sugli ebrei, sul denaro o sul potere. Ma il dato rimane: nella questione israelo-palestinese, il denaro gioca un ruolo enorme. I politici americani dipendono dai grandi donatori, perché candidarsi negli Stati Uniti è straordinariamente costoso, e il sistema politico è essenzialmente un sistema di corruzione legalizzata, inondato di finanziamenti privati. C’è una differenza abissale tra il sostegno economico di cui può godere un politico che adotta una posizione di principio basata sui diritti umani e quello a disposizione di chi si allinea con i responsabili delle violazioni. Questa disparità plasma i comportamenti politici. Chi lavora nella politica americana lo dirà in privato; in pubblico, nessuno vuole ammettere quanto si pieghi ai donatori.
Cito tutto questo perché ha menzionato il destino manifesto. Per me è importante comprendere che la relazione tra Stati Uniti e Israele non è semplicemente una storia di interesse strategico o di imperialismo americano. Come dicevo, Israele è spesso un peso per gli Stati Uniti. E questo ci porta al momento attuale. Gli Stati Uniti stanno offrendo un sostegno assolutamente incrollabile a Israele. Sono pienamente complici dell’attuale genocidio. Nelle prime settimane di guerra Israele aveva bisogno di massicci rifornimenti americani; senza il supporto di Washington, non avrebbe potuto combattere questa guerra. Gli Stati Uniti sono dunque co-responsabili di questa violenza. Sono complici dello spossessamento dei palestinesi e della continua negazione dei loro diritti.
E riguardo a questo cosiddetto piano di pace proposto da Donald Trump: come immagina che si tradurrebbe nella pratica? E come valuta questo processo, non solo in termini di “pace”, ma anche di giustizia?
Nathan Thrall: Questo non è un piano di pace. Quello di cui stiamo parlando è che Israele continuerebbe a occupare più della metà del territorio, senza alcuna prospettiva di porre fine a tale occupazione, e proseguirebbe a bombardare e controllare a distanza il resto del Paese. La Risoluzione 2803 del Consiglio di Sicurezza, che incorpora il Piano nel diritto internazionale e che è stata approvata il 17 novembre, prevede che Israele si ritiri solo secondo un calendario e delle condizioni stabilite da Israele stesso e da esso approvate in coordinamento con le altre parti. Questa “pace” è l’antitesi della vera pace. È semplicemente un accordo per cessare il fuoco, destinato a fallire. Per cominciare, Hamas non ha mai accettato integralmente i termini dell’accordo e, in particolare, ha ripetuto più volte di rifiutare l’idea di un disarmo completo, dichiarando di accettare lo scambio di ostaggi e che il resto andava discusso. Ma Trump ha scelto di interpretarlo come un’accettazione totale. Per quanto posso vedere, Hamas continuerà a essere la principale forza sul terreno nelle aree popolate di Gaza. Israele continuerà a condurre una guerra a bassa, media o alta intensità contro i palestinesi di Gaza. Forse ci saranno ritiri limitati; forse no. In ogni caso, Israele controllerà tutta Gaza, da fuori o da dentro. Nulla di tutto ciò somiglia a un accordo di pace.
E il modo in cui si è arrivati a questo punto è che Trump ha offerto a Netanyahu un accordo molto più favorevole, dal punto di vista di Netanyahu, rispetto a qualunque cosa gli fosse stata proposta in precedenza. Fin dai primi giorni dopo il 7 ottobre, Hamas ha ripetutamente affermato che avrebbe restituito ogni singolo ostaggio in cambio della liberazione dei prigionieri palestinesi e della fine della guerra. Dopo l’invasione di Gaza, hanno aggiunto: e del ritiro di Israele da Gaza. Quindi che cosa ha ottenuto Netanyahu, alla fine? Lo scambio prigionieri-per-ostaggi senza porre fine alla guerra e senza ritirarsi da Gaza, ma ritirandosi solo da una sua parte.
Parlando della crescente consapevolezza di ciò che sta accadendo in Palestina, negli ultimi mesi abbiamo assistito a proteste di massa, dai movimenti studenteschi a diverse mobilitazioni in tutto il mondo. Tutto questo può essere considerato un autentico risveglio politico, o piuttosto come un’ondata morale passeggera? E una solidarietà transnazionale di questo tipo può davvero influenzare le politiche occidentali verso Israele e il contesto israelo-palestinese, o almeno trasformare il tenore del dibattito pubblico?
Nathan Thrall: Credo assolutamente nell’importanza dei cambiamenti dell’opinione pubblica e della solidarietà globale. Ed è esattamente il motivo per cui ho scelto di scrivere questo libro nello stile che ho adottato. Il mio obiettivo era quello di raggiungere un pubblico ampio, nella convinzione che un cambiamento dell’opinione pubblica sia una condizione necessaria, anche se non sufficiente, per un cambiamento reale. Su questo non c’è alcun dubbio. Tuttavia, non nutro speranza che nei prossimi anni questo mutamento nell’opinione pubblica e questa ondata di solidarietà possano tradursi in cambiamenti politici significativi. Già da poche settimane dopo il cessate il fuoco l’attivismo è stato molto meno visibile rispetto al periodo del genocidio. E persino durante il genocidio, quali cambiamenti politici concreti sono scaturiti da questa solidarietà globale? Non si è riusciti nemmeno a ottenere qualcosa di basilare come un divieto dell’Unione Europea sui prodotti provenienti dagli insediamenti. È la misura minima immaginabile, e ancora non è neppure sul tavolo delle discussioni. Le esportazioni israeliane nel settore della difesa hanno raggiunto un record assoluto nel 2024, e metà di esse sono andate in Europa. Dunque, sebbene i mutamenti dell’opinione pubblica internazionale siano enormemente importanti, richiedono tempo per tradursi in politiche effettive. Molto di questo cambiamento è generazionale e il mio ottimismo guarda a qualche decennio nel futuro, quando le persone che oggi sono giovani, e che stanno guidando questi movimenti, si troveranno in posizioni di reale potere politico.
Nonostante il suo focus sia su una tragedia, Un giorno nella vita di Abed Salama, in fondo, parla anche di speranza. Non necessariamente della possibilità di assistere lei stesso alla fine dell’apartheid e della segregazione, ma magari che possano farlo le sue figlie, come sottolinea lei stesso. Se dovesse scrivere questo libro oggi, lo scriverebbe in modo diverso? Ci sono immagini, episodi o periodi storici che ora sente il bisogno di mettere maggiormente in evidenza?
Nathan Thrall: Per me, purtroppo, la situazione descritta nel libro non è cambiata dopo il 7 ottobre. È solamente peggiorata, le realtà descritte si sono intensificate e ampliate, e oggi sono ancora più vere e diffuse su un’area geografica più vasta. Dunque, non modificherei l’impostazione fondamentale del libro. Penso però che questo sia un momento in cui le persone dovrebbero approfondire le radici della violenza in Palestina. Nei miei futuri lavori, mi piacerebbe dedicare maggiore attenzione alla pulizia etnica del 1948 e al ruolo centrale che essa ha in tutto ciò che vediamo oggi. Uno dei problemi del discorso pubblico attuale è che ruota quasi interamente attorno all’occupazione iniziata nel giugno del 1967. La si tratta come se fosse tutta la storia, come se la storia cominciasse in quel momento. Gran parte del dibattito, del lavoro politico e persino della ricerca accademica è plasmata da questo inquadramento. Certo, l’intera seconda parte del mio libro affronta il 1948 e, in particolare, la pulizia etnica di Haifa nell’aprile di quell’anno, ma credo che oggi ci sia un desiderio di saperne di più. Dobbiamo prestare molta più attenzione alla storia precedente del sionismo – al 1948 e a ciò che lo precede – se vogliamo capire davvero quali sono le questioni fondamentali. In altre parole, la storia che vorrei raccontare d’ora in poi è quella che si concentra più direttamente sulla questione centrale dello spossessamento. È davvero il cuore dell’intera vicenda israelo-palestinese. Tutto il resto discende da lì.