Vulnerabili. Intervista a Vittorio Emanuele Parsi
- 11 Aprile 2021

Vulnerabili. Intervista a Vittorio Emanuele Parsi

Scritto da Maria Elisabetta Lanzone

9 minuti di lettura

Questo contributo è tratto dal numero cartaceo 1/2021 “Frontiere”. Questo contenuto è liberamente accessibile, altri sono leggibili solo agli abbonati nella sezione Pandora+. Per ricevere il numero cartaceo è possibile abbonarsi a Pandora Rivista. È inoltre disponibile la formula sostenitore che comprende tutte le uscite del 2020 e del 2021. L’indice del numero è consultabile a questa pagina.


Questa intervista a Vittorio Emanuele Parsi si inserisce in una serie curata da PerCorsi Associazione Culturale ai protagonisti della rassegna “Nel Mondo che cambia: sfide globali e nuovi attori internazionali”, organizzata nell’ambito del Festival delle Conoscenze trasmesso sul canale YouTube del Gruppo Acos e finanziato da Fondazione Acos per la Cultura. A febbraio Vittorio Emanuele Parsi è stato ospite dell’Associazione Culturale PerCorsi – insieme a Francesco Boggio Ferraris – in un incontro che è possibile rivedere su YouTube. Pandora Rivista ha già ospitato un’intervista a Giorgio Barberis dal titolo “Il pensiero liberale: verso una crisi irreversibile?” e prossimamente pubblicherà le successive interviste realizzate a margine degli incontri del Festival.

Vittorio Emanuele Parsi insegna Relazioni Internazionali all’Università Cattolica di Milano, dove dirige l’Alta Scuola di Economia e Relazioni Internazionali (ASERI). Editorialista del «Messaggero», è autore tra gli altri di La fine dell’uguaglianza. Come la crisi economica sta distruggendo il primo valore della nostra democrazia (Mondadori 2012) e Titanic. Il naufragio dell’ordine liberale (il Mulino 2018). Nel 2020, durante il lockdown di aprile, Piemme ha pubblicato l’ebook Vulnerabili: come la pandemia cambierà il mondo. Tre scenari per la politica internazionale. È recentemente uscita, a marzo 2021, l’edizione cartacea aggiornata e ampliata dal titolo Vulnerabili: come la pandemia sta cambiando la politica e il mondo. La speranza oltre il rancore (Piemme 2021).  L’intervista prende le mosse dalle tematiche trattate nel libro.

Vittorio Emanuele Parsi

 


Nella prima edizione del libro erano stati delineati tre possibili scenari per l’ordine internazionale dopo la pandemia: ad un anno di distanza, restano valide quelle ipotesi? Con quali variabili ancora in gioco?

Vittorio Emanuele Parsi: Direi di sì, anche perché gli scenari delineati tracciavano il perimetro entro il quale il futuro potesse finire col collocarsi. Lì erano abbozzati, qui sono stati sviluppati e approfonditi, anche alla luce di tutto ciò che è successo in questo anno. Un libricino da 50 pagine è diventato un volume da oltre 200 pagine, completamente riscritto e totalmente diverso, se non nello spirito e nell’idea di lanciare un messaggio di fiducia e di responsabilità. Gli scenari sono esposti non tanto in termini di maggiore o minore probabilità. Quanto piuttosto per il loro grado di trasformazione rispetto allo status quo ante, al grado di impegno che richiedono anche da parte nostra affinché si realizzino e infine rispetto alla loro preferibilità verso un’idea di centralità dell’essere umano. Così se la Restaurazione è ciò che accadrà qualora non si fosse in grado di catalizzare questo sforzo verso il cambiamento necessario, la Fine dell’Impero Romano d’Occidente disegna invece un mondo in cui la globalizzazione si spacchetta in aree di influenza politica ed economica, mentre il Rinascimento apre alla correzione delle interdipendenze che ci hanno reso sempre più vulnerabili, e prospetta a una nuova armonia tra umanità e ambiente.

 

La Cina rappresenta oggi la prima economia in grado di tornare a crescere dopo la fase emergenziale: che cosa comporta questo fatto in termini di equilibri geopolitici?

Vittorio Emanuele Parsi: La Cina è il Paese che è in crescita impetuosa, una crescita che continua da almeno quarant’anni. Persino nel 2020, l’anno della pandemia che proprio in Cina ha preso il via, il suo Pil è cresciuto. Diciamo subito che in uno scenario di tipo restaurativo Pechino rimarrebbe la grande potenza in ascesa che lancia il suo guanto di sfida agli Stati Uniti in termini economici e politici. Quando parlo di Restaurazione lo faccio però invitando ad un’accortezza. Esattamente come avvenne con quella del 1815, che durò di fatto fino all’Unificazione italiana e a quella tedesca del 1861 e 1871, anche in questo caso si potranno delineare fasi successive e l’ordine sarà un ordine precario e instabile, perché non avrà né risolto né affrontato i grandi squilibri che lo hanno reso fragile ed esposto a continue crisi economico-finanziarie fin dagli anni Novanta del secolo scorso. La competizione tra Cina e Stati Uniti è riesplosa in maniera prevedibile e aspra con la presidenza Biden e su questo torneremo più avanti. Ma quello che voglio sottolineare è che per Pechino tanto lo scenario della Restaurazione quanto quello della Fine dell’Impero appaiono promettenti.

 

In che senso?

Vittorio Emanuele Parsi: Nel primo, Pechino parte comunque da una posizione di sfida dichiarata alla leadership americana che rimonta ormai al 2008, all’esplodere della Grande Recessione, e dagli anni della disastrosa presidenza Trump nella quale Xi ha potuto raccogliere la bandiera della globalizzazione e dell’apertura commerciale, declinandola in salsa cinese: “Let’s do business, do not talk of politcs!”… Ha delineato gli accordi per la sua Belt and Road Initiative che rappresenta anche il suo manifesto strutturale per un mondo interconnesso a leadership cinese, oltre che una gigantesca rete infrastrutturale. “Tutte le strade portano a Roma” significava che Roma era il nuovo centro e il resto dell’impero rappresentava una gigantesca periferia. La BRI disegna un centro e definisce delle periferie rispetto a questo nuovo centro. Il progetto ha ambizioni globali. Ma anche in uno scenario di Fine dell’Impero esso sopravvivrebbe o, meglio, si preciserebbe a partire dalla dimensione regionale. In un mondo che si spacchetta, la Cina vedrebbe la sua area insistere comunque sull’Indo-Pacifico – cioè l’area a maggior crescita economica. Egemonizzarla le consentirebbe di costringere ad accodarsi il Giappone e l’India, probabilmente l’Australia e finirebbe con il saldare quell’avvicinamento russo-cinese che è già nell’aria. A quel punto, e considerando le relazioni con l’Africa che Pechino ha e continuerebbe a coltivare, il blocco asio-africano attirerebbe a sé tutta l’Asia Centrale, il Medio Oriente e, alla fine, l’Europa. Lasciando agli Stati Uniti solo l’Emisfero occidentale e, in prospettiva, neppure tutto.

 

Sarebbe l’alba di un nuovo impero?

Vittorio Emanuele Parsi: Esatto, ma questa volta a guida cinese. La domanda che segue è per quale motivo gli Stati Uniti dovrebbero consentire tutto questo, ritirarsi dall’Estremo Oriente e poi dal mondo senza lottare, senza contrastare questo disegno. Il rischio di conflitti in uno scenario di Fine dell’Impero sarebbe molto elevato, soprattutto in termini di escalation male o non controllate. Basta pensare alla questione taiwanese, solo per fare l’esempio più preoccupante. E questo ci porta al terzo scenario, ovvero quello del Rinascimento. È lo scenario sul quale la presidenza Biden sta di fatto già lavorando. Da un lato attacca la Cina e la Russia – le due grandi potenze autoritarie – sul piano normativo: accusandole di avere un approccio al sistema internazionale che comporta la soppressione di qualunque spazio di libertà e dissenso. Il modello che Xi applica ad Hong Kong e nello Xinjiang, per intenderci, e quello che Putin riserva ai vari Navalny. Biden propone l’eterno refrain americano di questi ultimi 100 anni: “l’egemonia americana è il male minore”. Il male minore rispetto a quello di Hitler, di Stalin, di Xi… Da qui deriva la rivalutazione della relazione speciale tra le democrazie, la necessità di un’Europa solida e dinamica dal punto di vista strategico-militare, certo, ma anche politico ed economico. Biden sa che la battaglia sul Pacifico con la Cina si vince a partire dall’Atlantico: rendendo l’Occidente nuovamente un modello attrattivo e di successo in termini di crescita economica, di modello di sviluppo, di sistema politico inclusivo ed equo. Per farlo, però, è necessario che anche l’Occidente rimetta ordine al suo interno, riportando equità, tornando a governare politicamente un sistema economico che ha privilegiato troppo “i pochi” a spese dei “molti”. Non per caso il piano di rilancio da 2000 miliardi di dollari lo ha voluto dedicare al lavoro battezzandolo American Jobs Plan, con un discorso di presentazione tenuto a Pittsburgh – nel mezzo della Rust Belt – e accusando le grandi imprese di avere eluso le tasse, già scandalosamente basse e ulteriormente ridotte dal “populista” Trump, proprio nell’anno della tragedia pandemica. Biden vuole riportare il sistema a essere solido perché equo e inclusivo.

 

L’Italia durante la pandemia – ancora in corso – ha attraversato diverse fasi, sia dal punto di vista sociale, sia istituzionale. Abbiamo certamente assistito all’atteso “rally around the flag effect”: che fase stiamo attraversando adesso e con quali conseguenze?

Vittorio Emanuele Parsi: Il libro illustra la differenza profonda tra la “Fase 1” e la “Fase 2” della pandemia, e prova a spiegare come mai nella prima abbia prevalso un sentimento di genuina, profonda e in definitiva inaspettata solidarietà; mentre in quella successiva siano montati la diffidenza, la frustrazione e un cupo rancore. La risposta si trova nel ritorno in campo della politica. Nella prima fase della pandemia la politica era sospesa, come le nostre vite e il tempo durante il lockdown della primavera 2020: non era in primo piano né per la capacità di immaginare e proporre il mondo che sarebbe venuto “dopo”, né in termini di partigianeria, lotta per la conquista del potere. Sopravvivere non è mai un obiettivo politico sufficiente e neppure “comandare” di restare a casa lo è: tanto più quando obiettivo e comando costituiscono semplicemente l’obbligata ricezione di quanto gli scienziati (virologi, medici, epidemiologi, statistici, biologi) ci dicono essere necessario per non morire oggi e arrivare vivi fino a domani. Nella seconda fase la politica è invece tornata centrale, con la sua grandezza e con le sue miserie. Ora è quasi difficile ricordarlo, ma il passaggio tra le due fasi è stato inaugurato proprio dalla politica, quando i capi di Stato e di governo europei sono riusciti a dare vita al Next Generation Eu.

 

Sembra, dunque, che la politica si ritrovi a giocare su due tempi?

Vittorio Emanuele Parsi: Il tempo della politica è sempre stato bifasico. Da un lato la politica coincide con la capacità di fissare obiettivi ambiziosi e protratti nel tempo, di immaginare, prima ancora che prevedere, il futuro. Dall’altro, la politica deve assumere decisioni rapide, in grado di coalizzare il consenso qui e ora, così da fissare priorità tra le possibili linee d’azione che portano al futuro immaginato e quindi scegliere come allocare risorse che, per definizione, sono scarse. Teniamo a mente questa duplicità del tempo della politica, e non perdiamo di vista la differenza tra prevedere e immaginare: cercando di prevedere il futuro mi colloco in una posizione passiva rispetto agli eventi; tentando di immaginarlo, assumo un ruolo maggiormente attivo nella sua determinazione – considero cioè che le mie scelte siano in grado di influenzarlo e cambiarne il corso e l’esito. La politica ha sempre dovuto confrontarsi con la visione e con la capacità di immaginare e rappresentare un orizzonte verso il quale tendere. Il suo contributo all’edificazione del presente sta proprio nella forza di stagliarlo – di traguardarlo – rispetto a un futuro. Un futuro, non il futuro: cioè quello che concorro a disegnare, verso cui tendo e per realizzare il quale opero nel presente, non un’idea generica di futuro. Il paradosso è che, se si priva la politica della sua dimensione conflittuale, la si riduce a mero ambito di costruzione e trasmissione del consenso. Un’operazione che coincide con la spoliticizzazione della società: al posto del conflitto politico in quanto espressione e educazione del conflitto sociale – il suo inquadramento all’interno delle istituzioni politiche democratiche – si propone la competizione economica come “arena del talento e del merito”. Non importa in che modo la dotazione di talenti sia stata ottenuta – per nascita o per acquisizione – e in che modo il merito venga giudicato – per esempio limitandosi a minimizzare il rapporto costi/benefici, ossia, molto spesso, riducendo i salari. Quello che voglio dire è che attraverso l’espulsione del conflitto sociale e politico dal campo di ciò che è legittimo e fisiologico si restringe il campo del politico, l’ambito nel quale è possibile immaginare e proporre futuri alternativi.

 

E l’Europa? Sta mostrando grandi debolezze per diverse ragioni: da un punto di vista gestionale, di rapporti e risorse, sia in termini di “credibilità” internazionale. Quale ruolo potrà/dovrà ritagliarsi nel “dopo”?

Vittorio Emanuele Parsi: L’Europa dovrà soprattutto fare delle scelte di campo, innanzitutto rispetto ai suoi valori. Ma partendo da casi estremamente concreti. Penso al 5G, per fare un esempio. L’offensiva cinese sul 5G è guardata con crescente perplessità non solo negli Stati Uniti ma anche in Europa, dove a lungo la soglia di attenzione era stata straordinariamente bassa. È evidente che la relazione fortissima esistente tra il Partito comunista cinese e i protagonisti del nuovo “capitalismo rosso” non offre sufficienti garanzie che una rete di trasmissioni dati controllata da una società di quel Paese sarebbe impermeabile alle sue autorità politiche. Un discorso simile vale per le attività di hackeraggio continuamente messe in atto da soggetti russi, che sono ritenuti agire di concerto e anche al servizio dell’Fsb, cioè i servizi segreti eredi del Kgb sovietico, dalle cui file proviene non solo Putin, ma anche una parte qualitativamente e quantitativamente considerevole del suo entourage. È un problema che riguarda tutti i sistemi politici in cui la salvaguardia dello Stato di diritto è inesistente – la Cina e la Russia ad esempio, ma anche il Venezuela, la Siria o l’Iran, molti Paesi dell’Asia Centrale a cominciare da quelli ex sovietici – o dove è aggirabile ogniqualvolta i detentori del potere politico lo ritengano necessario – i Paesi del Golfo, l’Egitto, una parte considerevole dei regimi africani. Come vedremo a brevissimo, è tanto più pericoloso quanto più il sistema internazionale è, ad un tempo, globalizzato ma anche “privatizzato”. La totale liceità del profitto, la tracimazione della logica del capitalismo – sempre più priva di quasi qualunque contrappeso in pressoché ogni ambito della nostra vita – è proprio ciò che ha reso i nostri sistemi democratici altamente “vulnerabili” alla penetrazione da parte di grandi potenze ostili. Il paradosso – se così si potesse definire, ma non c’è nulla di paradossale in questo – è che è stata proprio l’apertura completa dei nostri sistemi economico-politici “di capitalismo di mercato e liberali” ad attori che provengono da sistemi “di capitalismo di concessione e illiberali” a consentire più facilmente l’ingresso di “cavalli di Troia” all’interno delle nostre mura cittadine. Il fatto grave è che attraverso il capitalismo globalizzato i nostri sistemi siano infiltrabili da soggetti politici illiberali che minacciano la sicurezza della nostra democrazia. Ma le nostre democrazie sono altrettanto minacciate dallo strapotere dei soggetti economici privati, quando sono in grado di sfuggire alla regolazione del campo della competizione da parte del potere pubblico. La “cattura del regolatore” da parte degli interessi che dovrebbero essere regolati convive con la possibilità che sia la politica a intervenire nel mercato in modo predatorio. È sempre stato così. Quello che oggi è drammaticamente cambiato è la possibilità che il sistema nervoso dell’economia globale e delle nostre società possa rappresentare il tessuto connettivo per entrambe le minacce e, insieme, per minacce di provenienza interna o esterna. Il crony capitalism (il capitalismo clientelare) è la forma verso il quale stanno convergendo tanto il capitalismo di mercato “all’occidentale” quanto quello di concessione “alla cinese”: è la più preoccupante dimostrazione che in un’economia sempre più oligopolistica e oligarchica, fatta di gigantesche concentrazioni proprietarie, iperfinanziarizzata, dagli assetti tecnologici sempre meno trasparenti e sempre più influenti, l’idea dell’opposizione tra Stato e mercato, tra politica ed economia, come salvaguardia della libertà è una semplice favoletta. E prima ci accorgiamo che “il re è nudo”, meglio è.

Scritto da
Maria Elisabetta Lanzone

Docente di Sociologia della Politica all’Università di Padova e Key-Staff Member all’interno del 2020 Jean Monnet Module “Europe in the Global Age: Identity, Ecological and Digital Challenges” dell’Università del Piemonte Orientale, dove ha tenuto anche corsi di perfezionamento sul Public Management. Ha partecipato a vari progetti internazionali a Nizza (UCA, ERMES-URMIS) Parigi (SciencesPo), Bruxelles (ULB e EP) e presso la Fudan University di Shanghai (2017 e 2018). Ha pubblicato articoli sulla Chinese Political Science Review (CPSR) sulla crisi delle democrazie consolidate europee ed è co-autrice del saggio “The Xi Jinping’s Era and the Evolution of Chinese Political System. Internal and External Effects” (2020, St. Kliment Ohridski Sofia University Press). Collabora con l’Associazione Cultura e Sviluppo e con Edizioni Epoké, per cui ha pubblicato due volumi. Dall’anno scolastico 2019/2020 è, inoltre, docente-formatore presso istituti superiori piemontesi, accreditati sulla piattaforma S.O.F.I.A. Ha fondato, insieme a Fabio Lavagno, l’associazione culturale PerCorsi, per la quale si occupa di formazione nell’ambito dell’educazione alla cittadinanza, e dell’organizzazione di eventi culturali sui rapporti Oriente/Occidente e sulle relazioni internazionali.

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