Scritto da Giacomo Buzzao, Francesco Rustichelli
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Questo contributo è tratto dal numero cartaceo 3/2020, dedicato al tema delle “Piattaforme”. Questo contenuto è liberamente accessibile, altri sono leggibili solo agli abbonati nella sezione Pandora+. Per ricevere il numero cartaceo è possibile abbonarsi a Pandora Rivista con la formula sostenitore che comprende tutte le uscite del 2020 e del 2021. L’indice del numero è consultabile a questa pagina.
Trebor Scholz è un ricercatore e un attivista, fondatore e Direttore dell’Institute for the Cooperative Digital Economy presso la New School di New York. Nel 2014 ha introdotto il concetto di ‘platform cooperativism’. Lo abbiamo intervistato sulle caratteristiche, sulle evoluzioni e sugli ultimi sviluppi del cooperativismo di piattaforma e sulle sue prospettive anche alla luce degli effetti economici e sociali del Covid-19.
Iniziamo inquadrando e definendo il fenomeno. Che cos’è una piattaforma cooperativa?
Trebor Scholz: Per rispondere a questa domanda, potrebbe essere utile innanzitutto chiarire brevemente alcuni termini fondamentali: ‘piattaforma’, ‘cooperativa’ e ‘piattaforma cooperativa’. Quando parlo di ‘piattaforme digitali’, mi riferisco ad applicazioni o siti web utilizzati da individui o gruppi per connettersi tra loro o per organizzare servizi. L’affermarsi di questo modello risale al periodo compreso tra il 2005 e il 2009, quando sono emerse le prime piattaforme digitali di lavoro. Quando mi riferisco a ‘cooperativa’, parlo di organizzazioni autonome di persone unite volontariamente per soddisfare le proprie comuni esigenze – sociali, economiche e culturali – e le proprie aspirazioni, secondo un controllo ed una organizzazione democratica. Ovvero un modello fortemente caratterizzato da processi decisionali democratici e dalla proprietà congiunta.
Il cooperativismo di piattaforma sperimenta all’incrocio tra questi due modelli: le piattaforme digitali e l’impresa cooperativa. Ciò che ne risulta, la ‘cooperativa di piattaforma’, può prendere la forma di una cooperativa tradizionale, o manifestarsi come un fenomeno nuovo, idiosincratico e senza precedenti storici. Se si volesse trovare una definizione – che per la peculiarità del fenomeno non può che essere temporanea – possiamo descriverle come imprese che utilizzano un sito web, un’app mobile o un protocollo per vendere beni o servizi, che si basano su un processo decisionale democratico e sulla proprietà condivisa delle parti interessate.
Quali sono i problemi legati al modello ‘classico’ di piattaforme che il cooperativismo di piattaforma cerca di risolvere? Quando è emersa questa necessità? È possibile identificare un momento o un evento fondante specifico?
Trebor Scholz: Ho inquadrato il concetto di platform cooperativism nel 2014, un momento al quale sono seguiti due libri, da me scritti o co-editati, sull’argomento. Ciò ha contribuito a promuovere il fenomeno sotto questo nome, ma ovviamente l’idea era già stata abbozzata in precedenza – probabilmente non in maniera mirata e senza il supporto di una rete globale che ne socializzasse l’idea – in Italia, in Spagna e in altri Paesi. Ciò è avvenuto in un momento particolare: la gig economy stava entrando a pieno regime negli Stati Uniti e allo stesso tempo cominciavano a diventare evidenti i problemi legati alla sharing economy. Il tutto mentre si susseguivano le ondate di scandali legati alle piattaforme social media sempre più ubique, che hanno lasciato impotenti gli utenti che dipendevano da questi servizi. Quindi, non è poi così sorprendente che il cooperativismo di piattaforma risuonasse con molte persone in quel momento. Le piattaforme digitali estrattive come Lyft e Uber commercializzavano la propria offerta servendosi di narrative ingannevoli che riecheggiavano un linguaggio ed uno spirito di controcultura, legato ai valori della condivisione e dell’economia solidale. Alla gente comune, ai non addetti ai lavori, è servito del tempo per capire che il linguaggio dell’amore, della solidarietà e della condivisione era una falsa pista, un modo per promuovere servizi e prodotti. A sentir loro, queste piattaforme avrebbero combattuto la disoccupazione e la crisi climatica e avrebbero sostenuto una access revolution. Ed effettivamente, alcune migliorie le hanno apportate davvero: se ad esempio si considerasse l’opinione di studenti o rifugiati a New York rispetto ad Uber, questa potrebbe essere con buona probabilità positiva; il livello di accesso per il lavoro è basso ed è facile e rapido iniziare.
Ma ci sono problemi che sorgono nella differenziazione tra le persone che fanno questo tipo di lavori occasionalmente, per 3-4 ore a settimana ad esempio, e quelle che invece lo fanno a tempo pieno. Per un full-timer, questi lavori sono prevalentemente a bassa retribuzione e tutti i rischi sono esternalizzati sul lavoratore che possiede, assicura e mantiene la propria auto. Un recente studio della New School e dell’Università di Berkeley ha mostrato che la paga media di un autista a Seattle è di 9,73 dollari (al netto delle spese di manutenzione dell’auto e del combustibile), che è significativamente inferiore al salario minimo di 15 dollari in vigore a Seattle. Allo stesso tempo, oggi conosciamo quali problemi possano creare gli affitti a breve termine: sappiamo infatti che Airbnb riduce l’offerta di affitti a medio e lungo termine, rendendo più difficile trovare e permettersi un appartamento o una stanza, e che le piattaforme di questo tipo contribuiscono ai processi di gentrificazione. Basti pensare a città come Barcellona, Praga o San Francisco.
Quindi, ricapitolando, abbiamo visto come i lavoratori delle piattaforme digitali siano sottopagati ed abbiano un ‘boss algoritmico’ le cui decisioni sono opache. E questi sono solo alcuni dei problemi causati dalle piattaforme digitali. Ci sono ad esempio, quelli relativi all’estrazione dei dati, sia dei conducenti che dei clienti. E poi, i problemi legati alla sostenibilità finanziaria delle piattaforme: si consideri che ogni corsa con Uber è sovvenzionata per oltre il 40%, dai fondi degli investitori, con l’obiettivo che Uber emerga come monopolista a livello globale. Si considerino inoltre le discriminazioni di carattere razziale che avvengono attraverso la piattaforma Airbnb. Uno studio di Harvard ampiamente pubblicizzato ha dimostrato come gli ospiti afroamericani (specialmente gli uomini di colore) abbiano più difficoltà ad affittare il loro appartamento rispetto alle donne bianche, che le affittano molto più facilmente. Le cooperative di piattaforma sono una risposta a questi problemi.
Possiamo definire il cooperativismo di piattaforma un ‘movimento’? Qual è stata la sua evoluzione negli ultimi anni?
Trebor Scholz: Gli attori che costruiscono con entusiasmo piattaforme cooperative in tutto il mondo costituiscono un movimento, senza dubbio. Abbiamo i nostri riferimenti comuni come le conferenze del Platform Cooperatives Consortium (PCC), i nostri libri e il nostro inno. Quando ho iniziato a tenere lezioni sul cooperativismo di piattaforma nel 2015, avevo già captato questo entusiasmo inconfondibile. Le persone venivano da me e mi chiedevano come potevano essere parte di questo. Parte di cosa, mi sono chiesto. È in quel momento che ho deciso di fondare il PCC per coordinare, sperimentare e fare ricerca su questo nuovo modello. Le università di Harvard e Oxford, il MIT e le US Worker Cooperatives sono state coinvolte e sono parte di questa rete. Ad oggi, contiamo almeno 500 progetti di cooperativismo di piattaforma – quelli di cui siamo a conoscenza –, distribuiti in 47 Paesi.
Un passaggio importante che ha contribuito all’evoluzione del cooperativismo di piattaforma è stato quello dell’organizzazione delle conferenze; in particolare quella del 2015 che ha dato il via e l’ultima, quella del 2019 – Who Owns the World – che ha avuto luogo alla New School ed ha rappresentato un vero momento clou, riunendo oltre 1.000 persone da più di 30 Paesi, venute per raccontare delle proprie esperienze e del proprio lavoro con le cooperative di piattaforma. Di rilievo anche il momento della fondazione dell’Institute for the Cooperative Digital Economy, ad oggi l’unico istituto di ricerca che si concentra nello specifico sulla peculiare sovrapposizione di piattaforme digitali e cooperative.
Qual è stato l’impatto della pandemia sul cooperativismo di piattaforma? E in questo contesto, quali sono le esperienze emergenti più promettenti? Quali opportunità per questo modello, in virtù del momento di difficoltà di alcune piattaforme ‘classiche’?
Trebor Scholz: Questo è un momento ottimo per la cooperazione! Come insegna il lavoro di storici della cooperazione come Vera Negri, è proprio in situazioni come questa – quando le reti di sicurezza e gli ammortizzatori sociali, creati dai governi o dalle comunità si sgretolano, che ci si affida alla cooperazione. La proposta di valore molto specifica delle cooperative, che costituisce il loro focus, ed il rapporto con la comunità, diventa fondamentale in tempi di crisi. Il punto di forza delle piattaforme cooperative, infatti, è la capacità di fornire soluzioni specifiche per la cooperazione ai vari problemi. Negli ultimi anni, abbiamo appreso che le cooperative di piattaforma non arrivano a competere da un punto di vista dimensionale con Google, Apple o Uber. Ma possono comunque offrire delle alternative.
Si consideri a questo proposito l’esempio di Smart.coop, una piattaforma cooperativa fondata in Belgio che trasforma i liberi professionisti in dipendenti della cooperativa, offrendo loro le protezioni normalmente fornite ai dipendenti, secondo il diritto del lavoro. La cooperativa fornisce inoltre servizi di contabilità fiscale e spazi di coworking per i soci. Un modello che funziona in modo diverso e che si adatta da Paese a Paese ma che mantiene lo stesso approccio di base. Quella di Smart.coop, è una proposta di valore messa a punto a livello locale affinché possa essere attraente per i liberi professionisti del Paese in questione. Ad esempio, mentre nel Regno Unito questo modello ha fallito, in Germania funziona molto bene. Ciò è dovuto principalmente alle diverse normative per liberi professionisti e dipendenti in questi Paesi. Smart.coop crea vantaggi tangibili per i liberi professionisti e non cerca di competere con le Big Tech; piuttosto offre un’alternativa.
L’obiettivo di concorrere con Uber – il riferimento più semplice e intuitivo – comporta delle sfide non indifferenti. Come si può competere con un’impresa che ha la possibilità di eccedere i limiti di spesa dei suoi concorrenti per più di trent’anni? Eppure c’è chi cerca di farlo comunque. È il caso di The Drivers Cooperative, una promettente piattaforma cooperativa appena lanciata a New York. I due fondatori, Erik Foreman – organizzatore sindacale e studente Ph.D – con una conoscenza approfondita del precedente concorrente di Uber (Juno) ed un’ex dipendente di Uber – Alissa Orlando – potrebbero riuscire nella creazione di un terzo valido servizio taxi a New York. Tra le motivazioni che ne giustificherebbero il successo, c’è la vicinanza agli autisti e il sostegno dei sindacati (il che significa che anche il marketing potrebbe funzionare, raggiungendo attraverso la piattaforma migliaia di potenziali utilizzatori, con facilità). Dispongono inoltre di un discreto capitale iniziale e di un’app che, seppur tutt’altro che perfetta, potrebbe comunque essere sufficiente per il ‘terzo’ concorrente a NYC. Fin dall’inizio, il loro partner principale è Home Care Associates nel Bronx, la più grande cooperativa di lavoratori negli Stati Uniti. Il loro primo cliente? Il politico americano progressista Alexandria Ocasio-Cortez.
Ci sono progetti promettenti anche in Italia. A Bologna, ad esempio, c’è Consegne Etiche che sta proponendo qualcosa che nessuna delle aziende tecnologiche della Silicon Valley potrebbe mai fare: la città ha convocato tutte le diverse parti interessate per conoscere e comprendere le esigenze di ognuna di queste.
C’è poi un trend emergente che consente alle organizzazioni no-profit esistenti come Hylo.com di convertirsi in cooperative multi-stakeholder. In modo simile, Bobooki è stato appena lanciato a Berlino dal ‘veterano’ delle piattaforma cooperativa Felix Weth e dal suo team. Il progetto non nasce come cooperativa, ma si pone il chiaro obiettivo di diventarlo nel giro di pochi anni. Bobooki basa il suo funzionamento solo su prestiti in modo che una volta che vorranno convertirsi, potranno semplicemente ripagarli e non saranno quindi in debito con gli azionisti. In fase di startup, questo consente una sorta di agilità per i fondatori, che possono prendere decisioni rapidamente. Solo quando l’attività è ben stabilita ed ha successo, comprovato da entrate adeguate e da un mercato, il modello può essere trasformato in un’organizzazione democratica: in una cooperativa.
In larga misura, un’eventuale transizione dell’economia digitale verso il cooperativismo di piattaforma potrebbe essere legato ad un cambiamento più ampio del paradigma capitalistico che ha caratterizzato gli ultimi quarant’anni. In particolare, l’orientamento al breve termine e il focus sulla massimizzazione dei profitti per gli azionisti dovrebbero essere sostituiti da un paradigma che favorisca i lavoratori e la società nel senso più ampio. Torneremo al business as usual nel post-pandemia? Quale ruolo può giocare il cooperativismo di piattaforma in una società che non vuole tornare alla sua precedente ‘normalità’?
Trebor Scholz: Direi che la crisi che stiamo affrontando in questo momento fa parte delle più ampie crisi del capitalismo che hanno iniziato ad emergere negli ultimi quattro decenni. E, ancora più minacciosa rispetto all’attuale crisi sanitaria, c’è la catastrofe climatica che incombe: è davvero qualcosa che non andrebbe dimenticato. Quindi, no, non credo che dovremmo tornare alla ‘normalità’. Anche perché quella normalità non funzionava comunque per la maggior parte delle persone. Invece, dovremmo insistere per dare forma a una realtà diversa. Ad esempio, in Italia, la tradizionale resistenza al digitale potrebbe essere utilizzata per sostenere gli argomenti a favore di un suo utilizzo con fini sociali, per aiutare coloro che sono oggi disoccupati. Si immagini di poter azzerare la Silicon Valley e costruirne una diversa, ex novo. Come dovrebbe essere? In altre parole, cambiare la narrativa che accompagna il progresso tecnologico: usare la tecnologia per servire effettivamente la società. La piattaforma cooperativa potrebbe sicuramente presentare degli elementi interessanti a questo proposito.
Penso che il cooperativismo di piattaforma, potrebbe essere qualcosa di interessante anche per l’Unione Europea, che non vuole allinearsi con la Silicon Valley, il che è fantastico, e non vuole nemmeno allinearsi con le piattaforme cinesi, il che è comunque fantastico. Ma qual è allora il ruolo dell’Europa? Non è così chiaro. Penso che le piattaforme cooperative potrebbero essere uno strumento utile nella cassetta degli attrezzi dei policy-maker per rispondere alla pandemia e alle numerose crisi convergenti. Le cooperative di piattaforma potrebbero cambiare interi settori.
Negli Stati Uniti, invece, la pandemia ha alimentato la grande crisi del già insostenibile sistema di istruzione superiore. Negli USA ci sono alcune delle migliori università del mondo, ma frequentarle indebita gli studenti per tutta la vita. Alcuni gli finiscono per continuare a pagare il debito fino all’età di sessant’anni. Invece, dovremmo considerare di gestire le università in modo cooperativo, online e offline. Dovremmo anche ripensare le discussioni sulle città intelligenti in termini di trust di dati cooperativi, proprietà dei dati e governance. Oppure iniziare a pensare alle cooperative di dati sanitari come Midata.coop in Svizzera e negli Stati Uniti, Savvy.coop.
Quale ruolo possono giocare le piattaforme cooperative per incoraggiare la partecipazione e migliorare la qualità delle nostre democrazie?
Trebor Scholz: Io credo che giochino un ruolo importante. Le piattaforme cooperative non sono una speculazione teorica, relegata alla ‘torre d’avorio’ accademica, ma qualcosa di concreto che si può osservare confrontatosi con i lavoratori. Quando ho incontrato le donne che lavoravano con Up&Go, una cooperativa di pulizie a New York, mi sono reso conto di cosa significhi la dignità per loro. Come alla proprietà sia seguita la dignità, di come le loro famiglie guardino a loro in maniera differente ora che non sono più subalterni, o di come ora possano gestire i loro programmi e pianificare le loro vite, per esempio andare a prendere i figli a scuola. Tutte queste cose che solitamente erano invisibili e non tenute in considerazione, avere questo tipo di emancipazione democratica sul luogo di lavoro, accomuna le persone per condividere aspettative simili in altri contesti della loro vita. In questo senso, le rende cittadini migliori. È davvero un’esperienza concreta di democrazia. La democrazia è stata diffusa in tantissimi Paesi nel XX secolo ma stranamente nell’ambito lavorativo – dove le persone passano la maggior parte del tempo – è stata adottata a malapena.
Come è possibile promuovere la diffusione delle piattaforme cooperative? Quale tipo di supporto sarebbe auspicabile? Come possono contribuire le istituzioni? E cosa aspettarci dal mondo finanziario e della società civile?
Trebor Scholz: Un cambio di paradigma di questo tipo non sarà rapido. Ma per prima cosa, per essere efficace un movimento necessita di un framework intellettuale: un insieme di riferimenti ‘decolonizzati’. E questi riferimenti non devono essere meramente a Robert Owen o a Rochdale, ma anche provenienti dal Sud globale, dove le culture della cooperazione, della solidarietà e del mutuo supporto esistono da migliaia di anni. Le istituzioni sono di cruciale importanza in questo processo. Altrimenti c’è il rischio di ripetere quanto accaduto con le proteste contro il linciaggio di George Floyd. Gli attivisti locali e le persone hanno protestato nelle strade di tutto il Paese per chiedere un taglio ai finanziamenti della polizia. Ma non si è ottenuto molto a livello di risultati. La ragione è che le persone avevano bisogno di tornare alle loro vite dopo un po’ di tempo. Avevano dedicato energie, ma poi alla fine dovevano riportare i loro figli a scuola. Dovevano tornare a lavorare. Ed è qui che entrano in gioco le istituzioni: qui certi valori e impegni possono persistere e le persone possono lavorare con continuità per tradurre la loro agenda in politiche concrete.
Per sostenere la diffusione di questo modello è importante comprendere quali siano le dimensioni che il progetto richiede rispetto alle esigenze della comunità. Per le piattaforme cooperative, questo significa lavorare attraverso alleanze, network e federazioni di più piccole piattaforme locali. I progetti open source posso accelerare questo processo se variegate e più piccole cooperative riescono a condividere l’infrastruttura digitale.
Come si stanno muovendo il Platform Cooperativism Consortium e le importanti realtà accademiche e politiche affiliate nel promuovere la transizione digitale delle cooperative tradizionali? Quali sono le azioni implementate per promuovere e diffondere il modello del cooperativismo di piattaforma?
Trebor Scholz: Il ruolo del Consorzio dalla sua fondazione è stato, prima di tutto, quello di essere un hub dei ricercatori su questo tema e un volano per la creazione di una comunità intorno ad esso, principalmente attraverso le conferenze che sono state organizzate. Ma il Consorzio è ora anche una comunità intellettuale con i suoi membri e le facoltà associate, con i nostri studenti e le 9.000 persone che si sono iscritte alla newsletter. Recentemente il Consorzio ha iniziato a lavorare con la Mondragon University e la Mondragon Corporation. La scorsa estate abbiamo iniziato un corso online intitolato Platform Co-ops Now. Più di un migliaio di candidati hanno fatto richiesta per seguirlo, ma abbiamo potuto selezionare solo 450 persone da 47 Paesi. Un vero interscambio culturale! Dall’inizio del primo corso, sono emerse 112 piattaforme e continueremo ad erogare il corso alternandolo presso l’Università e alla New School. Questo corso ambisce a fare un’enorme differenza, dal momento che è suddiviso in una parte teorica e una fase di incubazione, e che ha oltre 40 partner da tutto il mondo. Abbiamo coinvolto, per esempio, molte organizzazioni cooperative italiane – incluse alcune realtà che fanno parte di Legacoop.
Inoltre, abbiamo creato una biblioteca online con quasi 1.700 risorse sul nostro sito. E abbiamo creato un elenco degli ecosistemi cooperativi, che include 500 progetti di piattaforme cooperative che verranno pubblicati sul nostro sito prima della fine di gennaio. Abbiamo anche una tool library, così da vedere quale cooperativa abbia utilizzato uno strumento di ricerca specifico. Infine, ci siamo dotati di una media library con quasi 120 video di testimonianze. Il Consorzio ha compreso il suo ruolo nell’aiutare a far recepire le piattaforme cooperative come un ecosistema, più che come progetti individuali, identificando necessità sistemiche invece che individuare esigenze specifiche per ciascun progetto. Stiamo inoltre lavorando ad un ‘libro bianco’ con una serie di proposte politiche per le municipalità.
Contemporaneamente alla stesura di questa intervista, si sta svolgendo la seconda edizione del corso Platform Co-ops Now avviata il 26 ottobre e che si concluderà il 29 gennaio. Questi corsi sono promossi dall’Institute for the Cooperative Digital Economy presso la New School, in collaborazione con numerosi partner internazionali. Quali sono i loro obiettivi e verso chi sono rivolti?
Trebor Scholz: I corsi sono rivolti letteralmente a tutte quelle persone nel mondo che vogliano trovare una soluzione ai problemi di cui abbiamo parlato e trovare nel modello di piattaforma cooperativa una soluzione.