Recensione a: Alberto Mario Banti, Wonderland. La cultura di massa da Walt Disney ai Pink Floyd, Laterza, Roma-Bari 2017, pp. 618, 29 euro (scheda libro)
Scritto da Enrico Fantini
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Wonderland è un volume estremamente ricco e del pari ambizioso. L’autore è Mario Banti, storico attento ai fenomeni culturali della fase risorgimentale e dotato di un’ottima formazione letteraria. L’intento del suo ultimo lavoro è nientemeno che dare conto dell’assetto culturale che l’Occidente, in particolare nell’area anglosassone, va esprimendo dagli anni Trenta agli anni Ottanta del Novecento. Un cinquantennio di storia culturale affrontato nel suo centro (la produzione culturale di massa) e tenendo conto soprattutto della penetrazione dei nuovi media: cinema, radio, televisione.
Cominciamo da una definizione. La terra delle meraviglie è quell’enorme apparato culturale che definiamo il mainstream. Si afferma negli Stati Uniti nel periodo entre-deux-guerre anzitutto per ragioni commerciali: l’estensione delle megacorps mediali (e la loro concentrazione per fusioni e acquisizioni) permette la costituzione di un fronte compatto che favorisce la diffusione di prodotti esteticamente standardizzati. A voler estrarre una logica che accomuna questa immane quantità di oggetti estetici si sarebbe portati a rilevare tre macro categorie: l’articolazione del campo narrativo in generi; la struttura seriale delle narrazioni; e un altissimo grado di intermedialità (p. 10). Se la segmentazione in generi e sottogeneri costituisce una semplificazione dei settori merceologici (aiutando il pubblico a orientarsi nel mercato), la struttura seriale ne consente non solo la fidelizzazione ma ne preforma le aspettative; infine, il passaggio di medesimi soggetti mediali dalla forma libro al cinema, dalla soap opera al musical irrigidisce i confini dell’immaginario collettivo: il mainstream «conferisce a tutti i suoi prodotti un’aria di somiglianza».[1] Il processo di standardizzazione è particolarmente evidente nella traduzione da un medium di nicchia ad uno a più larga diffusione. Nel 1934 Lillian Hellman pubblica la sua pièce teatrale The Children’s Hour, da cui trarrà la sceneggiatura per il film diretto a William Wyler, These Three del 1936; del ’39 è The Grapes of Wrath di Steinbeck, film l’anno successivo; infine, Chandler, sempre nel 1939 pubblica uno dei suoi romanzi più significativi: The Big Sleep, che diventerà un film diretto da Howard Hawks nel 1946. Tutte queste opere nelle loro versioni originali contengono elementi non conformistici (relazioni “devianti”: come nel romanzo di Chandler), nudità insistite e epiloghi tragici (si pensi al suicidio di una delle protagoniste in The Children’s Hour). Nella traduzione cinematografica le relazioni al centro degli intrecci divengono rigorosamente eterosessuali, le nudità bandite, il lieto fine imposto attraverso l’espulsione dell’antagonista o la riconciliazione della coppia.
Questa configurazione estetica lascia emergere una potente griglia ideologica. Anche in questo caso è facile rilevarne gli elementi più significativi: l’esaltazione del singolo eroe, l’apprezzamento della violenza redentrice e la valutazione positiva della razza nella rappresentazione della comunità assediata da nemici (virus, alieni, pellerossa…), l’happy ending, il populismo piccoloborghese. Da un lato vi è la forte assertività morale che tenta di imbrigliare i costumi, dall’altro si somministrano blandi placebo politici in forma di utopie democratiche, in cui piccoli produttori – buoni – sono «in grado di contrastare l’eccessiva ingordigia dei super-ricchi». Se in Europa e in Asia si profilavano enormi rivolgimenti negli assetti istituzionali, la produzione mainstream rappresenta la risposta politica che la società americana dà alla crisi del ’29. All’interno di questo quadro storico, la standardizzazione estetica diventa allora solo l’aspetto più visibile di un più complessivo irrigidimento delle strutture sociali. Banti analizza, nello specifico, il comportamento dei gruppi giovanili nelle High school americane: il pervicace disciplinamento dei costumi, delle forme relazionali, il sistema di conferimento del prestigio e viceversa di messa ai margini, la codificazione della vita sessuale, definiscono un sistema pervasivo di trasmissione del conformismo. E sarà proprio alle periferie di questo ampio sistema di ortopedia dei costumi, ai gruppi marginali e squalificati che esso di fatto produce, che occorrerà guardare: è qui che sorgono forme di creatività in grado di sfidare il predominio estetico (e dunque etico) del mainstream.
Il mercato americano, tra anni Venti e anni Quaranta, è estremamente frazionato: non vi sono interscambi significativi tra i vari segmenti e in particolare vigono forti steccati tra prodotti middle class, per la borghesia urbana, e prodotti per le popolazioni nere e i proletari. Proprio questa divaricazione così netta garantisce spazi di autonomia in cui far germogliare estetiche alternative. Sulla scena musicale, ad esempio, quella ovviamente che necessita di minori capitali e la cui diffusione è spesso affidata a circuiti paralleli ai grandi canali radiofonici o televisivi, emergono almeno tre aree che sfidano il dominio della popsong (che per forma e contenuti rappresenta il perfetto corrispettivo dell’estetica mainstream): il blues, la costellazione hillbilly e il folk radicale. Se il blues ribalta le piatte aspettative del pop raccontando la droga, la bisessualità e la violenza, la lotta tra sessi (storie tragiche da cui l’happy ending è bandito), l’hillbilly presenta un narratore che pratica l’acrasia come rifiuto dell’assertività morale (il contrario dunque di ciò che accade nella produzione dominante). Infine, il complesso del folk radicale convoglia tematiche e contenuti propri dell’impegno politico e sindacale della sinistra americana. Anche nella letteratura si manifestano novità significative, in particolare con la produzione beat, mentre l’articolazione delle sottoculture giovanili, dai surfisti californiani, ai pachucos, ai legami di solidarietà che emergono nei circuiti della musica nera, crea una serie di comunità marginali e minoritarie che cominciano a costituire un fronte di sfida dell’egemonia mainstream.
Finora si è articolato un sistema piuttosto scontato e stabile, in cui a un’egemonia culturale fa riscontro un contro-linguaggio che trova spazio ai margini del sistema, vitale ma inoffensivo. Dal dopoguerra – a partire dal 1949 – il mercato della produzione culturale comincia a rompere gli steccati razziali (p. 222 e ss.) e a spingere su forme estetiche più trasgressive, magari appoggiate a contenuti edonistici e libertari. Un indice del fenomeno è dato dalla crescente presenza della musica nera nelle classifiche nazionali. Le majors, che avevano puntato sul pop (dai contenuti edulcorati e di facile consumo), lasciano che una miriade di piccole e medie case discografiche sparse sul territorio nazionale si occupino di gestire questi generi espressione di minoranze sociali e etniche, la cui diffusione un tempo era affidata a circuiti dal respiro corto (locali, festival…). Ma l’industrializzazione della produzione periferica è in realtà il risultato di un evento che sta a monte e che, a parere di chi scrive, segna lo snodo concettuale di tutto il libro di Banti, vale a dire l’unificazione di tutte le espressioni estetiche afferenti alle marginalità all’interno di un unico esito culturale simboleggiato dalla musica rock.
Le varie espressioni estetiche risultanti dalla frammentazione della società anglosassone in una serie multiforme di comunità interpretative minoritarie e non integrate, settorializzate e non comunicanti, trova una sua sintesi in un blocco contro-culturale omogeneo ben rappresentato dalla musica rock. Perché? In questo caso ragioni storiche e formali assieme illuminano la costruzione di un codice espressivo trasversale. In particolare Banti individua tre elementi morfologici di base: 1) tutti i prodotti musicali (ma anche letterari o visuali) elaborati da questi ceti marginali intrattengono tra loro una comunione dei contenuti basata sul rifiuto dell’assetto di valori trasmesso dal mainstream; 2) la natura per così dire spuria e non codificata del rock può permettersi di mescolare tradizioni musicali molto differenti (come ad esempio quella americana e afro); 3) l’emersione del concerto funziona come una sorta di rituale antropologico comune a tutte le subculture. Il concerto rock trasforma i giovani appartenenti a circuiti socioculturali diversi in una comunità relativamente compatta: la frattura che comincia a profilarsi separerà ora le generazioni (pp. 378-379) o marcherà una distanza tra integrati e esclusi.
Tutta la teoria di fenomeni come l’androginia, il crossover razziale, il rifiuto delle mode borghesi, l’attenzione per l’underworld di tossici, emarginati, omosessuali, incarnato nei costumi della cultura rock compone il panorama unitario della controcultura sorta a partire dagli anni Sessanta. Questo fenomeno di portata enorme per la cultura dell’Occidente contemporaneo reca con sé almeno altre due implicazioni degne di nota. La prima è la saldatura con riflessioni estetiche che di massa non sono. Da una parte infatti si creano connessioni continue con esiti artistici d’avanguardia (le esibizioni rock che si trasformano sempre di più in performance, con richiami all’arte sperimentale): la controcultura di massa ingloba alcuni dispositivi della cultura highbrow come la complessità e l’innovazione continua. Si pensi in questo caso alla parabola davvero paradigmatica di un gruppo come i Beatles: da una produzione che fino al 1964 accetta l’impianto semplicistico della popular music, con melodie e testi che rasentano la banalità, alla pubblicazione di album esteticamente ben più complessi, in particolare dopo l’incontro con Dylan (da Help! a Magical Mystery Tour del ‘67), fino all’ibridazione con esperienze artistiche d’avanguardia (segnatamente con il duo John Lennon-Yoko Ono). Dall’altra le arti tradizionali fanno propria la cultura pop inserendovi il classico armamentario controculturale: la sospensione del giudizio morale, l’impiego di materiali provocatori e scioccanti, l’attenzione alla marginalità. La seconda implicazione invece riguarda la capacità di questo nuovo agglomerato estetico di sfruttare tutti i media disponibili: un concept album si trasforma in un musical che poi verrà tradotto in un film o in un libro e così via… Tale capacità di ramificazione consente di creare una costellazione contro-culturale davvero di massa, in grado di competere con l’egemonia dell’intrattenimento mainstream (p. 441).
Questo blocco solidale formatosi negli anni ’60, questa produzione estetica in grado di costituire un fronte sociale compatto e trasversale che coinvolge emarginati, proletari e studenti dell’Ivy League statunitense, si frantuma in micro comunità ermeneutiche completamente disgregate solo pochi anni dopo, nel corso degli anni ‘80 (p. 481). Perché? Banti individua una serie di ragioni: l’evoluzione dei gusti e della composizione del pubblico a mano a mano che i diversi movimenti radicali vanno incontro alla loro disfatta (p. 421); la crisi economica dei primi Settanta induce nel pubblico un rifiuto a immergersi in narrazioni tragiche, preferendo la fuga verso il disimpegno; il processo di espansione delle megacorps che tendono a gestire tutto il campo delle produzioni culturali (p. 485); la risposta della nuova cultura di massa che comincia ad assorbire elementi della controcultura: l’attenzione agli emarginati, la resa meno scontata delle psicologie dei personaggi che rappresenta. In definitiva la novità, la difficoltà e l’edonismo vengono piegati a fini conformistici e consumistici. Questa frantumazione in una miriade esplosa di comunità ermeneutiche si nota bene nella segmentazione della scena rock avvenuta negli ultimi decenni: i concerti come le tendenze musicali assecondano molto più micronicchie di mercato in cui gruppi separati e dotati di apparati ideologici debolissimi (punk, dark, metal…) rappresentano circuiti non più comunicanti.
Questo, in breve, il contenuto di un libro ampio, ben scritto, che assomma una documentazione molto vasta e tratta un tema di una complessità tale da scoraggiare qualunque studioso. Alcuni recensori hanno accusato il volume di schematismo, di una certa rigidità concettuale. Tuttavia, per quanto sia innegabile una bretella narrativa nella gestione di materiali altrimenti sfuggevoli, sembra più opportuno riflettere sul rapporto che il saggio articola tra storia come descrizione del particolare, di ciò che accade una sola volta e con specificità irripetibili e sociologia come analisi di strutture per definizione ricorsive. È evidente che la storia della società e della cultura facciano un uso particolarmente abbondante di quadri concettuali. In Wonderland ad esempio è molto chiara la struttura weberiana (forse meglio hegeliana) soggiacente: da una pluralità scissa particolarmente consistente prima della Seconda Guerra mondiale, all’unità del fronte controculturale tra anni Cinquanta e Settanta, al ritorno alla frantumazione a partire dagli anni Ottanta. Va detto che non si tratta, naturalmente, di una semplice replica delle condizioni di partenza; la frantumazione avviene su crinali diversi: se negli anni Trenta è schiacciata su questioni razziali o socioeconomiche, dopo comincia a funzionare come pura diversificazione consumistica. E tuttavia, al di là delle specificità della storia che tende a esaltare ciò che di irripetibile ha il fenomeno indagato, il modello sociologico di base è molto evidente. In questo caso non un modello progressivo e lineare che conduce ad un esito univoco, quanto piuttosto un sistema a “rete” in cui, continuamente, a fasi di frantumazione sociale seguono periodi di condensazione
In particolare la struttura concettuale sembra emergere con maggiore evidenza in quello che è il punto più delicato del libro: la strutturazione del fronte unitario controculturale. Banti, come si è visto, dispiega un ventaglio molto ampio di cause che hanno consentito l’unificazione di forme espressive afferenti alle varie minoranze della società statunitense: annovera, ad esempio, la questione economica, con le majors concentrate sulla produzione di massa che lasciano spazio di manovra alle piccole case di produzione; oppure nomina le grandi questioni civili (Vietnam ecc..). Eppure l’autore punta (intelligentemente) su un modello eziologico diverso, che emerge bene dalla sua analisi del rock. Il rock sorgerebbe dalla fusione di tre tradizioni musicali afferenti a minoranze culturali distinte che trovano una loro composizione attraverso solidarietà statuite a livello squisitamente formale. Insomma è l’evoluzione delle forme estetiche ad approntare il piano della loro futura convergenza. Questa unità, che per altro pare venire prima delle solidarietà attuabili a livello sociale, ha come esito una espressione puramente contrastiva, di reazione: se il mainstream è moralmente assertivo, semplice, consolatorio e perimetrato sullo spazio del “dicibile”, la contronarrazione rock invece sospende il giudizio etico, è formalmente complessa e, parlando di storie ai margini, rifiuta il lieto fine: due blocchi estetici plasticamente rappresentati da Walt Disney da un lato e dai Pink Floyd dall’altro (citati, non a caso, nel sottotitolo del volume).
È uno sguardo storiografico estremamente interessante, che afferisce ad una famiglia di studi che da Warburg arriva al formalismo russo delle prime due decadi del ventesimo secolo. Tuttavia pare che il testo lasci fuori un enorme non detto. Banti tenta in tutti i modi di preservare l’autonomia delle meccaniche culturali, sottolineando, ad esempio, la distanza che separa la controcultura americana degli anni Sessanta dalla tradizione socialista e comunista, ma è lecito domandarsi quanta di questa storia sarebbe stata possibile senza una cultura diffusa in Occidente che per una serie di mediazioni anche non troppo scontate fa capo, inequivocabilmente, alla cultura marxista e alla potenza politica dell’Unione Sovietica. Sia detto questo perché è opportuno sottolineare come in fondo (e questo il libro di Banti lo segnala più volte, mettendo in luce appunto un dispositivo storico e non una storia) i legami di solidarietà che si creano dal basso, attraverso azioni di piccolo cabotaggio o come qui attraverso fenomeni di contiguità espressiva che addirittura precedono solidarietà statuite e livello sociale e politico, mantengano una natura storicamente effimera. Insomma, senza una griglia ideologica e senza un potere politico avviene ciò che questo libro descrive: lo spontaneismo sociale ha come suo massimo esito ideologico la reazione speculare alle forme egemoniche (in fondo non creando nulla di originale) ed è destinato al fallimento nel breve periodo. Una lezione semplice, utile anche per il presente.
[1] Max Horkheimer, Theodor, W. Adorno, Dialettica dell’illuminismo, Torino, Einaudi, 1980, p. 126.
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