Recensione a: Massimo Cacciari, Generare Dio, il Mulino, Bologna 2017, pp. 116, 12 euro (scheda libro)
Scritto da Jaka Makuc
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L’agile volumetto che Massimo Cacciari dedica alla figura di Maria e alla sua iconografia, Generare Dio, offre al lettore attento i risultati di un itinerario di ricerca – il dialogo approfondito tra filosofia e teologia – che l’autore percorre ormai da decenni.
L’indagine sul rapporto tra Cristianesimo e identità europea è stata intrapresa più volte nel corso della storia della filosofia; eppure, come osserva Cacciari fin dalle prime pagine del testo, anche gli autori più significativi di questa tradizione, come Schelling e Hegel, hanno di fatto ignorato la figura di Maria, marginalizzandone così l’importanza.
Generare Dio si riserva al contrario il compito di restituire alla figura della Madonna la centralità che questa occupa all’interno della storia spirituale dell’Occidente: la chiave ermeneutica scelta da Cacciari per affrontare una questione tanto complessa è quella di saper sempre vedere in Maria la mater Dei, colei che, per l’appunto, genera Dio.
Comprendere in cosa si sostanzia questa generazione è, in fondo, il tentativo che percorre il volume: solo cogliendo il significato più autentico di questo evento è possibile restituire all’icona di Maria la propria fondamentale natura di principio teologico irrinunciabile.
Il convincimento implicito di Cacciari, riconducibile forse ad alcune intuizioni contenute in Dell’Inizio[1], è che la generazione divina, ovvero l’icona mariana[2], si ponga per l’appunto “all’inizio”, “al principio” della vicenda divina; il senso di questa lettura, certamente non intuitiva, merita di essere approfondito.
L’iconografia principale che viene riservata a Maria è solitamente proposta nei temi classici dell’Annunciazione, della Madonna col Bambino e della Deposizione (nel testo sono presenti alcune delle tavole più celebri sull’argomento). Ora, sarebbe un errore concepire queste icone come meri “momenti” di una storia lineare, intenderli all’insegna dell’evenemenziale.
La temporalità che regge l’icona mariana è invece quella del principio simbolico, “dell’Inizio” appunto: vige qui una simultaneità strutturale, in cui non ci sono un “prima” e un “dopo” la nascita di Dio, ma dove al contrario, come scrive Rilke, «Gott reift», “Dio matura”. La generazione di Dio si compie quindi nella sua maturazione: possibilità e garante di questo compimento è Maria, colei che genera. Questa precisazione, che si auspica essere sufficientemente chiara al lettore, consente una comprensione più profonda dell’Annunciazione, cui sono dedicati ben due capitoli del testo.
La discesa dell’Angelo ai piedi di Maria (che viene testimoniata dalle celebri tavole di Piero della Francesca e Beato Angelico) costringe quest’ultima alla scelta: la drammaticità di questo momento non viene tuttavia presentata con note esistenzialistiche, non si compie qui la scelta kierkegaardiana in cui si è soli davanti a Dio[3].
Al contrario, la meditazione di Maria segna già l’inizio di Dio, il suo concepimento: «Così medita Maria, come concependo» (p. 29): ella non può stare davanti a Dio perché questi, nel momento stesso in cui la madre medita di accettarlo, viene concepito in lei. Maria diviene ora la Madonna, la sua meditazione è la condizione perché Dio maturi: «Meditare è perciò anche un custodire, conservare in sé la “verità” che appartiene a ciò che si è ascoltato e raccolto, e che dunque non è un nostro prodotto, non ci appartiene» (p. 29).
La domanda che a questo punto si presenta è: dov’è il Padre? È infatti innegabile che la figura del Padre risulta pressoché sbiadita in questo simbolo che è il Mater–Dei, il rapporto della madre col figlio. Anche questo aspetto così dirimente della questione può essere compreso se indagato nella prospettiva ermeneutica dell’ab initio.
Scrive Cacciari che concepire Dio significa «metterlo alla luce, farlo ek-sistere nella sua pienezza di vita» (pp.29-30): il concepimento divino implica pertanto in sé e per sé già il generarlo, il darlo alla luce appunto. Ma la luce richiama di rimando il problema dell’ombra, sul quale l’autore si sofferma con pazienza.
Seguendo la corposa tradizione biblica, Cacciari identifica Dio con l’ombra in grado di illuminare, «ombra illuminante» (36): quest’ombra riveste un ruolo fondamentale durante l’Annunciazione, ovvero la generazione di Dio, in quanto adombra colei che dà alla luce: «Maria lo intende e lascia che l’ombra si spanda su di lei e in lei, come un fiato silenzioso e leggero. […]. Essa entra in Maria come il silenzio nel discorso, come la pausa nel canto» (pp. 38-39).
L’ombra del Padre è dunque onnipresente in tutta la simbologia, come l’oscurità della chiesa che consente ai raggi di luce di manifestarsi; se così non fosse, se non vi fosse un’ombra in grado di accompagnare l’illuminazione, ovvero la meditazione di Maria, si sfocerebbe nella plenitudine abbagliante dell’iconografia bizantino-ortodossa, in cui la figura mariana diviene angelo tra gli angeli e lo splendore del cielo dorato nasconde la tragicità della scelta della Madonna.
Un errore interpretativo assai simile viene compiuto anche dalla tradizione gnostica, la quale, incapace di accettare la commistione di luce e ombra, le oppone l’un l’altra in una metafisica dicotomica che sacrifica a sé innanzitutto la potenza dell’icona, preferendole simboli astratti finalizzati a rimandare, sovente per mezzo di afflati suggestivi, a quel pleroma divino che per la propria stessa essenza si nega a qualsivoglia rappresentazione iconografica.
Come si può constatare, la difficoltà maggiore che la figura della Vergine solleva è quella di comprendere la particolare relazione che la lega al Figlio, l’autentico significato dell’espressione Mater-Dei.
Cacciari ricorre qui ad alcune delle rappresentazioni più celebri della Madonna col Bambino (il Mantegna tra tutti): la tenerezza dell’immagine si scontra con la cupezza del presagio di morte che adombra la scena. Per quanto detto in precedenza, dovrebbe apparire chiaro al lettore che questo rimando al futuro del Figlio non è un semplice presentimento, ma si inscrive “nell’inizio”: ancora in questa icona, forse la più icastica delle rappresentazioni mariane, “Dio matura”.
Il contatto che lega Maria al figlio segna, in verità, una distanza profondissima, quella che separa la madre che resta dal figlio che “esce”, che va via; nella vicinanza dei corpi si consuma il distacco della kénosis. Scrive infatti Cacciari:
Nel simbolo il loro approssimarsi è un movimento infinito, che ne salva la distanza. Questa prossimità dolorosa, in cui dolore e gioia, paura e letizia continuamente si alternano, continuerà fino alla resurrezione […]; questa prossimità che può apparire nella forma della massima vicinanza, come in quella dell’abbandono, costituisce il cuore pulsante dell’icona dei due, madre e bimbo[4].
La relazione tra i due non è di vicinanza in quanto “empatia”[5], non è possibile alcuna immissione nel dolore dell’altro; piuttosto, essa va intesa come un riconoscimento drammatico e al contempo amorevole (qui la paradossalità dell’icona) della lontananza che li separa, dell’impossibilità di ridurre l’uno sull’altro[6]: Gesù “è fuori” Maria e il loro ricongiungimento viene ricercato dalla tradizione in un’epifania celeste, nell’assunzione della madre al regno del figlio. Ciò può tuttavia avvenire solo se Maria comprende e accetta che il proprio compito consiste nell’accompagnare «la kénosis del figlio» (p. 52), ovvero quell’allontanamento da lei che trova origine nell’inizio stesso della storia divina (il Dio che già matura all’interno della pancia della madre).
Il paradosso della insuperabile lontananza fra i due riemerge e si amplifica nel motivo della Deposizione (o Pietà). La figura della Madonna ai piedi della croce, riproposta nel volume attraverso i capolavori di Giovanni Bellini e Rogier van der Weyden, riassume finalmente quanto Cacciari sviluppa nel corso del saggio.
La morte del Cristo ne segna, in realtà, la nascita autentica: Dio si genera nella morte. È solo con questa, infatti, che si compie l’adagio di Rilke; lo sviluppo che qui è accaduto non è cronologico, ma simbolico. L’abbraccio della madre al cadavere del figlio è simultaneo a quello che riceve il piccolo bambino nelle tavole del Mantegna: non c’è alcun tipo di successione temporale, ma solo il paradosso dell’inizio, ab initio.
Anche in questo caso, quindi, la vicinanza di Maria a Gesù si rivela essere una distanza irrecuperabile, che rende la sofferenza della madre ancora più straordinaria in quanto rivolta a ciò che è incommensurabilmente remoto. Cacciari scrive che:
La perfetta com-passione è pertanto il segno di Maria […], dal momento della nascita del figlio a quello della Croce. Nessun santo, nessun martire può aver sofferto come lei. Ella ha rivissuto nella carne la kénosis divina: ha generato il figlio dell’Altissimo, che ha fatto esodo da lei fino alla morte più maledetta. E soltanto in essa lo ha ritrovato, qui solo si è congiunta al figlio perfettamente[7].
Questa congiunzione perfetta si realizza perciò nell’accettare il nesso Mater-Dei come suggello della “tensione indisgiungibile”[8] che lega Maria e il Figlio: il simbolo che viene eletto a massima espressione di questo assurdo dell’icona è la Croce. È nella mistica francescana che Massimo Cacciari rinviene l’intuizione più originaria per l’ermeneutica dell’icona mariana: «la gloria di Maria consiste nell’essere concrocifissa» (p. 64). Il dolore per la croce del figlio è tale da elevare la madre a una propria crocifissione, che trova tuttavia senso solo in relazione a quella subita dal figlio; con un’altra immagine, la personale “passione” di Maria si spiega alla luce di quella di Gesù, ossia come com-passione[9].
Il tentativo di pensare quell’Età del Figlio che si inaugura col Cristianesimo può pertanto essere messo in atto solo a partire da una meditazione approfondita della figura di Maria, immortalata nella propria potenza simbolica dalla tradizione iconografica umanistico-rinascimentale. Ignorarla o marginalizzarla significa, di fatto, fallire nel difficile – e persino paradossale – itinerario di comprensione del mistero divino: Generare Dio si propone come un’occasione per evitare di incappare in questo errore e ripensare un legame – quello di una madre col proprio figlio – che rimane sospeso tra il divino e, allo stesso tempo, l’umano.
[1] Cacciari, Dell’Inizio, Adelphi, Milano, 1990.
[2] L’espressione qui non allude alla sola immagine della Madonna col bambino, come si mostrerà in seguito.
[3] L’immagine della solitudine nei confronti di Dio viene proposta da Kierkegaard in La malattia mortale.
[4] P. 45.
[5] A tal proposito, si legge che «il figlio non può essere “compreso”» (p. 47).
[6] Come, al contrario, avviene nell’immagine di sapore bizantino o gnostico, in cui Maria diventa a propria volta una figura celestiale.
[7] Pp. 63-64.
[8] «Così avviene nella forma più autentica del simbolo: i due rimangono prossimi proprio nella continua tensione, che sembra ogni volta poterli separare. È questa tensione a renderli invece indisgiungibili» (p. 46).
[9] È qui opportuno esplicitare il rimando etimologico che distingue l’empatia, ossia la capacità di penetrare il dolore altrui attraverso un’esperienza immediata, dalla compassione, inteso come l’atteggiamento che rispetta la distanza del dolore altrui per limitarsi ad accompagnarlo.
Rogier van der Weyden, Deposizione dalla Croce. Crediti immagine: [Public Domain] attraverso wikimedia.com