Scritto da Otello Palmini
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Questa intervista è focalizzata sulla relazione tra intelligenza artificiale e città: un tema che sta trovando molto spazio nella letteratura accademica internazionale e nel discorso pubblico, dato il crescente numero di intelligenze artificiali che contribuiscono ormai a scandire l’esperienza urbana di milioni di persone. Attraverso le parole del professor Federico Cugurullo del Trinity College di Dublino cerchiamo di fare chiarezza su questa relazione, sia definendo le intelligenze artificiali urbane sulla base della recente storia degli studi urbani, sia recuperando delle preziose informazioni da casi studio estranei al contesto occidentale che possono aiutarci a comprendere questo fenomeno da una prospettiva il più globale possibile. La prospettiva geografica – che informa la ricerca di Cugurullo – ci appare particolarmente feconda essendo riuscita nella sua tradizione recente a coniugare lavoro sul campo e ricerca concettuale interdisciplinare.
Parlare della relazione tra intelligenza artificiale e città potrebbe risultare astratto ad una prima occhiata. Potrebbe fornirci alcuni esempi concreti per dare corpo a quello di cui parleremo?
Federico Cugurullo: L’intelligenza artificiale ha una concreta dimensione urbana. Ci sono intelligenze artificiali urbane che possiamo toccare con mano come, ad esempio, le macchine a guida autonoma. A San Francisco (Stati Uniti) e a Wuhan (Cina) ce ne sono a centinaia e sono diventate una componente ordinaria della mobilità urbana. Pensiamo anche a robot e droni utilizzati per svariati aspetti della gestione del territorio urbano: dalla sorveglianza, alla pulizia, sino alla riparazione delle infrastrutture urbane. In questi contesti, l’intelligenza artificiale sta agendo materialmente nelle nostre città e la sua presenza è visibile. In altri contesti invece, l’intelligenza artificiale urbana, nella forma di algoritmi, risulta ad una prima occhiata invisibile, ma non per questo ha un impatto minore. Anzi, pensiamo ad esempio a una IA come Palantir che cerca di prevedere chi verrà coinvolto in attività criminali e determina dove queste avranno luogo. Il risultato finale è che, a causa di queste decisioni algoritmiche, alla fine qualcuno verrà ricercato dalla polizia. Oppure pensiamo a programmi che in maniera autonoma decidono quali cittadini avranno accesso a un mutuo e potranno comprarsi una casa dove vivere la propria vita, mentre altre persone perderanno questa opportunità e rimarranno in condizioni abitative precarie o, peggio, senza un tetto. Quindi è proprio la nostra stessa vita, in quanto creature urbane, ad essere influenzata dalle intelligenze artificiali urbane.
Negli ultimi anni nel discorso pubblico abbiamo sentito spesso parlare di smart city. Ovvero di città in cui una serie di problemi vengono affrontati attraverso la tecnologia digitale. L’avvento dell’intelligenza artificiale cambia qualcosa in questo scenario?
Federico Cugurullo: Assolutamente sì. In Italia purtroppo la smart city viene ancora intesa come un concetto recente legato al futuro urbano, mentre ormai è il passato. Un passato ancora presente, sia chiaro, ma pur sempre passato e quindi non completamente in grado di aiutarci a comprendere quello che avverrà nel futuro prossimo. Se spostiamo lo sguardo possiamo comprendere come a Singapore, ad esempio, il fenomeno smart city inizia negli anni Ottanta: oltre quarant’anni fa. Pensiamo a tutto ciò che è cambiato in questo lasso di tempo. In termini di sviluppo tecnologico, quarant’anni sono un’infinità. Concettualmente è importante comprendere che mentre la smart city operava in maniera “automatizzata”, l’intelligenza artificiale urbana opera in maniera “autonoma”. Sono termini simili, ma con significati e implicazioni diverse. Le tecnologie smart di vecchia generazione seguono logiche e direzioni prescritte da ingegneri e informatici umani, e le ripetono in continuazione. L’IA non ripete: improvvisa. Prende decisioni secondo una propria logica che spesso purtroppo ci sfugge, se pensiamo ai recenti large language model (LLM) come GPT che sono una gigantesca black box in grado di giungere a delle conclusioni senza la guida diretta di una mente umana. Questo non è un grande problema se chiediamo a queste intelligenze artificiali di scriverci una poesia, ma il discorso cambia radicalmente nell’ambito della governance urbana quando, tornando agli esempi di prima, chiediamo allo stesso tipo di tecnologia di dirci chi si macchierà di un crimine e chi ha il diritto di comprarsi una casa.
Una parte delle sue ricerche sul campo è focalizzata sul contesto asiatico e in particolare sullo strumento dei city brain (cervelli urbani). Potrebbe chiarire di cosa stiamo parlando e come questo strumento stia modificando l’approccio classico alla pianificazione urbana?
Federico Cugurullo: In Asia la sperimentazione urbana contemporanea ci offre una preziosa finestra per comprendere quello che potrebbe essere il futuro della città occidentale. In Cina e Malesia, ad esempio, ci sono intelligenze artificiali urbane di larga scala chiamate city brain che operano come dei giganteschi cervelli digitali, agendo come se la città fosse il loro corpo: un corpo da muovere, gestire e controllare. Questi cervelli sono dotati di algoritmi di tipo predittivo, e quindi non si limitano ad analizzare il metabolismo di una città oggi, ad esempio fornendoci dati riguardo al consumo energetico o al traffico. Il loro raggio di azione è il futuro. Queste macchine cercano di prevedere il domani: dove ci saranno incidenti e quali saranno i livelli di inquinamento. Ma anche dove noi cittadini ci sposteremo e cosa faremo. Sulla base di queste informazioni, la loro governance urbana è volta ad anticipare il futuro e a modificarlo. Detto questo, sappiamo che le loro previsioni sono spesso erronee e imprecise e soprattutto, come ho già ricordato prima, si tratta di una black box di cui nessuno comprende pienamente le logiche. Paradossalmente mentre la tecnologia urbana sta andando avanti, la nostra mentalità di governance e pianificazione urbana sta tornando indietro. A volte sembra di essere tornati di colpo ai tempi degli oracoli dell’antica Grecia quando i politici prendevano decisioni importantissime sulla base di profezie sibilline che esulavano dalla loro comprensione. L’intelligenza artificiale è diventata un atto di fede.
Spesso nel dibattito pubblico percepiamo preoccupazione riguardo al fatto che l’intelligenza artificiale possa andare fuori controllo. Ci troviamo davanti ad un paradosso in cui uno strumento creato dagli umani per controllare la realtà sembra sfuggire al nostro controllo. Come si declina questo paradosso al livello urbano?
Federico Cugurullo: È un paradosso che possiamo facilmente comprendere adottando un approccio critico. Intelligenze completamente autonome non sono mai esistite e mai esisteranno. Pensiamo alla filosofia di Aristotele e alla sua concezione di essere umano come animale sociale che per realizzarsi ha bisogno di un network di altre intelligenze, così come di infrastrutture urbane che ne permettono la vita. Oppure al pensiero di Kant il cui soggetto autonomo è tale solo all’interno di un sistema giuridico che ne limita le azioni, imbrigliandole dentro a un corpo politico più grande. Il discorso non cambia quando si tratta di intelligenze artificiali urbane che si relazionano costantemente con altre intelligenze umane e non umane. Ad esempio, le automobili a guida autonoma non potrebbero mai funzionare senza informazioni sulla mobilità urbana prodotte dai cittadini, e chiaramente hanno bisogno di infrastrutture urbane, le strade banalmente, che sono create sulla base di decisioni prese da urbanisti. Tutte le intelligenze artificiali urbane che vediamo e vedremo entrano nelle nostre città a seguito di decisioni di tipo politico ed economico prese da persone in carne e ossa, siano esse imprenditori senza scrupoli come Elon Musk o rappresentanti eletti di una municipalità locale. Il paradosso, quindi, è che siamo proprio noi a rendere l’intelligenza artificiale sempre più autonoma e in grado di agire senza essere supervisionata. Se un giorno le macchine prenderanno il controllo della nostra città non sarà perché saranno diventate coscienti come in un film di fantascienza, ma perché stupidamente saremo stati noi a dire loro di farlo.
Uno dei progetti più iconici di questa nuova stagione urbana è certamente la città lineare di 170 chilometri THE LINE all’interno del progetto NEOM in Arabia Saudita. Questo progetto è stato descritto da più parti come rivoluzionario proprio per la sua grande attenzione allo sviluppo tecnologico. Infatti, l’intelligenza artificiale è indicata come uno dei nuclei centrali di questa nuova dimensione urbana. Dato che nella sua ricerca sul campo ha indagato questo progetto, potrebbe descriverci gli aspetti chiave dell’applicazione dell’IA in questo contesto?
Federico Cugurullo: NEOM è un ottimo esempio per capire come l’intelligenza artificiale urbana non sia soltanto un vettore di trasformazioni tecnologiche e infrastrutturali, ma anche sociali e culturali. La visione di NEOM è quella delle “città autonome” che, nei miei scritti, ho descritto come spazi urbani gestiti da intelligenze artificiali, in cui il cittadino non ha quasi nessun controllo sull’ambiente che lo circonda. NEOM immagina e cerca di realizzare sistemi di trasporto urbano interamente controllati dall’intelligenza artificiale, così come spazi domestici dove sono i robot a cucinare e a pulire. Questa visione tecnologica però funziona soltanto se basata su una nuova visione culturale: a NEOM la privacy non esiste e i suoi futuri abitanti accettano di dare in pasto tutti i loro dati personali agli algoritmi cosicché questi possano comprendere meglio il loro comportamento e anticiparlo. Da un punto di vista concettuale, ritengo che questo sia un tentativo di stabilire un nuovo tipo di contratto sociale, diverso rispetto alla teoria di Shoshana Zuboff riguardo il capitalismo della sorveglianza tramite cui le tecnologie digitali si impossessano dei nostri dati personali a nostra insaputa. Gli sviluppatori di NEOM, invece, vogliono creare una realtà sociale in cui il cittadino sa benissimo di essere sorvegliato e lo accetta, sacrificando volontariamente la propria privacy sull’altare dell’efficienza. Non solo, NEOM immagina anche una società robotica popolata da esseri umani e androidi, e nel 2017 ha mosso i primi passi concreti verso questa direzione, quando un robot chiamato Sophia (realizzato da Hanson Robotics) è ufficialmente diventato cittadino dell’Arabia Saudita. Chiaramente questi sono cambiamenti sociali, spinti dalla tecnologia, che risultano particolarmente scioccanti in un Paese musulmano come l’Arabia Saudita dove ogni volta che vado è impossibile non notare il ruolo dell’Islam nella vita quotidiana dei cittadini. Ma se adottiamo una prospettiva storica e geografica globale, possiamo renderci conto di come simili tensioni tra tecnologie moderne e usanze antiche esistono da secoli, e che l’esperienza di NEOM avrà un’eco anche in Occidente. D’altronde si tratta dello scontro perpetuo tra modernità e tradizione, a cui nessuno studioso ha mai trovato una soluzione. Questo è uno scontro che l’intelligenza artificiale ha oggi riacceso, e che rischia di incendiare il tessuto sociale delle nostre città.
Spesso interrogandoci sulla relazione tra tecnologia e città siamo affascinati dal porci domande sul modo in cui la prima potrà influenzare la seconda. Tuttavia, raramente riflettiamo sull’ipotesi opposta, ovvero su come il tessuto urbano possa influenzare lo sviluppo tecnologico. Le città, infatti, non sono entità passive, ma ambienti ricchi di intelligenze, competenze, interessi e bisogni. Non dovremmo allora chiederci anche come la città potrà influenzare lo sviluppo dell’IA nel futuro?
Federico Cugurullo: Senza dubbio. Non solo per il valore scientifico e filosofico della domanda in sé, ma soprattutto perché, se non riflettiamo su come le città possono cambiare l’intelligenza artificiale e il suo uso nella società, allora non c’è davvero speranza per il futuro. Faccio un esempio pratico. Due anni fa, la municipalità di San Francisco era pronta a utilizzare dei robot dotati di armi al posto dei poliziotti umani. I cittadini si sono ribellati e hanno protestato pubblicamente contro quelli che hanno definito “killer robot”, e lo hanno fatto con tale intensità e convinzione che alla fine la municipalità locale si è arresa e ha bloccato l’uso di quel tipo di intelligenza artificiale urbana. David Harvey ha parlato spesso di “rebel city” che è un tema oggi comune nella geografia urbana: città i cui cittadini esercitano la propria cittadinanza in maniera attiva manifestando dissenso quando lo sviluppo urbano va contro i loro interessi. È un concetto chiave, come anche un’opzione pratica quando, riallacciandomi al discorso di prima, sentiamo che l’intelligenza artificiale sta sfuggendo al nostro controllo. Purtroppo, buona parte dell’occidente urbano è nella morsa del neoliberismo e spesso i servizi pubblici sono in mano a compagnie private che non lasciano ai cittadini l’opportunità di esprimere le loro preferenze politicamente. Dove però quell’opportunità esiste, non dobbiamo sprecarla. Se visioni urbane come quella di NEOM vi spaventano, o l’idea di essere fermati da un poliziotto robot capace di uccidervi, come sarebbe potuto capitare a San Francisco, vi terrorizza, allora ricordatevi di questi sentimenti la prossima volta che andrete a votare.
I suoi libri e i suoi articoli sono fortemente caratterizzati da un approccio interdisciplinare che combina primariamente geografia, filosofia e studi urbani. Crede che questa prospettiva – che appare distante dal classico specialismo verticale che contraddistingue oggi l’accademia – sia necessaria per comprendere più compiutamente la relazione tra città e tecnologia? Potrebbe tratteggiare i vantaggi ricavati dall’applicazione di questo metodo?
Federico Cugurullo: Ritengo che sia necessaria, se vogliamo creare città in cui la tecnologia è utilizzata in maniera sostenibile. Quando rimangono isolate, le singole discipline non sono in grado di generare sostenibilità urbana. Penso al caso di Masdar City ad Abu Dhabi che ho studiato a lungo. Si tratta di un progetto controllato quasi esclusivamente da ingegneri e informatici per creare la smart city definitiva, ma il risultato è stato un colossale fallimento. Pochissime persone hanno scelto di andare a vivere a Masdar City i cui spazi sono ancora in buona parte deserti. Questo perché non c’è stata nessuna attenzione sociale quando la città è stata progettata e si è erroneamente pensato che la tecnologia potesse risolvere qualunque problema. La tecnologia è si riuscita a ottimizzare la mobilità urbana e il consumo energetico di Masdar City, ma non ha dato alle persone una ragione per viverci. Non ha creato una comunità e la città è risultata senza anima, ed esempi simili sono purtroppo presenti in Africa e in Asia, particolarmente in Cina. Secondo alcuni studiosi si tratta di città fantasma, ma come ho scritto nei miei libri questo non è il concetto giusto. I fantasmi fanno pensare ad una vita che c’era e poi si è interrotta, mentre città come Masdar City non sono mai veramente nate e non hanno mai vissuto. Sono aborti. Queste sono vere e proprie tragedie che una prospettiva interdisciplinare può riuscire a evitare. Con l’aiuto della geografia umana per comprendere come le persone vivono la città e ci mettono radici. Con quello della scienza politica per creare strumenti di governance democratica così da poter ascoltare i desideri dei cittadini. Con quello dell’ecologia per fa sì che questi desideri non eccedano i limiti degli ecosistemi che ci circondano. E ovviamente anche con quello della filosofia per pensare in maniera critica a che tipo di futuro urbano vogliamo costruire.