Costituzioni europee e finanziamento della politica
- 02 Agosto 2018

Costituzioni europee e finanziamento della politica

Scritto da Edoardo Caterina

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Trasparenza e finanziamento della politica: a Bonn, il 6 maggio 1949, due giorni prima dell’approvazione finale della Legge Fondamentale (Grundgesetz) tedesca, l’atmosfera accademica e austera del “Consiglio Parlamentare” (Parlamentarischer Rat), l’organo incaricato di redigere la nuova costituzione, fu rotta da un appello accorato.

A farlo era un deputato del piccolo partito Zentrum, Johannes Brockmann, che il giorno prima si era visto respinto in commissione un suo emendamento al futuro art. 21 della Legge Fondamentale (l’articolo sui partiti politici). La sua proposta era quella di obbligare i partiti a pubblicare le proprie fonti di finanziamento, onde garantirli da “influenze antidemocratiche”. Brockmann si appellò quindi al Plenum: “a parlare in favore della mia proposta sono i trascorsi dei nostri partiti tedeschi, in particolare quelli del partito che ci ha terrorizzato per dodici anni”. Brockmann alludeva ai finanziamenti occulti provenienti dai grandi gruppi industriali di cui si credeva avesse beneficiato il partito nazista prima del 1933[1] L’emendamento venne approvato con alcune modificazioni e per la prima volta venne inserita in una costituzione una disposizione sul finanziamento della politica.

Tre anni prima un simile tentativo era fallito nella confinante Francia, quando la prima Assemblea costituente (eletta nell’ottobre 1945) aveva respinto la proposta di un articolo che prevedesse, tra le altre cose, un controllo statale sulle finanze dei partiti. Se si guarda ai numerosi progetti costituzionali francesi del dopoguerra[2] ci si imbatte di frequente in previsioni sulla pubblicità delle finanze dei partiti. La preoccupazione costante era non tanto quella di una deriva autocratica “eterodiretta” all’interno del partito, quanto la dipendenza da interessi particolari e fenomeni di corruzione politica, che furono oggetto di svariati scandali durante la Terza Repubblica.

In Italia le cose erano andate diversamente. Il tema del finanziamento della politica non fu compiutamente affrontato in Assemblea costituente. In parte perché in Italia, a differenza che in Francia e in Germania, non vi erano ancora state “prove generali” di un regime democratico e vi era una certa fiducia, forse un po’ naïf, nel funzionamento del nuovo sistema e dei partiti (i tedeschi e i francesi ricordavano invece bene i guasti di Weimar e della Terza Repubblica). In parte perché i due maggiori partiti, DC e PCI, traevano cospicue fonti di finanziamento dall’estero (USA e URSS). Fino al 1974 il finanziamento della politica in Italia sarebbe rimasto del tutto privo di regole e avrebbe seguito modalità riservate e occulte[3].

Il primo tentativo – ovviamente fallito – di introdurre una disciplina che obbligasse i partiti a regole di trasparenza fu quello di Luigi Sturzo nel 1958. L’ormai anziano (aveva 87 anni) senatore a vita presentò un progetto di legge[4] che non solo imponeva ai partiti e ai candidati alle elezioni una rendicontazione pubblica delle loro risorse, ma che vietava pure il finanziamento da parte di numerosi soggetti, e, in particolare, da parte di ogni persona giuridica con scopi lucrativi[5]. La sua relazione introduttiva suonava come una vera e propria requisitoria:

«Non mancano indizi circa il patrocinio politico che enti statali e privati si assicurano in Parlamento favorendo l’elezione di chi possa sostenere e difendere i propri interessi, impegnando a tale scopo somme non lievi nella battaglia delle preferenze. Quando entrate e spese sono circondate dal segreto della loro provenienza e della loro destinazione, la corruzione diviene impunita; manca la sanzione morale della pubblica opinione; manca quella legale del magistrato; si diffonde nel Paese il senso di sfiducia nel sistema parlamentare.»

La trasparenza delle fonti di finanziamento è così posta come requisito primo e indispensabile per un corretto funzionamento della politica.

 

Finanziamento pubblico …

“Sunlight is the best disinfectant”: questa frase del giudice Louis D. Brandeis[6] è divenuta ormai un motto piuttosto vieto nei paesi anglosassoni; essa vorrebbe significare che la trasparenza, “la luce del sole”, riesce da sola a estirpare tutti quei mali che prosperano quando è buio. Ma è davvero così?

Per fortuna l’umanità ha ritrovato disinfettanti migliori della luce del sole! E l’idea che una trasparenza totale possa risolvere ogni problema è illusoria. In primo luogo, perché la trasparenza totale non sempre può esistere (che esistano zone d’ombra è talvolta fisiologico); in secondo luogo perché “fotografare” una situazione non può bastare a mutarla, se non si mutano anche i rapporti di forza retrostanti.

Non è quindi casuale che chi, nell’immediato dopoguerra, sosteneva la necessità di previsioni sulla trasparenza del finanziamento della politica proponeva al contempo forme di sostegno pubblico per i partiti. Esempio preclaro fu François de Menthon, la “mente giuridica” del fallito tentativo francese di una disposizione costituzionale sui partiti politici. Egli già nel 1945 propose a chiare lettere l’introduzione di un finanziamento pubblico per i partiti politici al fine di garantirne un corretto funzionamento[7]. La proposta di un finanziamento pubblico per i partiti politici era stata avanzata anche in Germania, nel 1928, da uno dei politici più capaci della Repubblica di Weimar, Gustav Stresemann[8].

Fatti questi cenni, si potrebbe pensare che la soluzione al problema del finanziamento della politica sia molto semplice: trasparenza e finanziamento pubblico. Le cose tuttavia non stanno esattamente così.

 

… o finanziamento privato?

Torniamo in Germania. Qui, a partire dal 1959, il Bundestag aveva iniziato a inserire disposizioni nella legge di bilancio con cui si erogavano, di anno in anno, soldi pubblici ai partiti. La questione finì inevitabilmente davanti alla Corte costituzionale. Si pose quindi la domanda cruciale: è costituzionalmente legittimo che lo Stato finanzi i partiti?

Le questioni teoriche implicate da questa domanda sono molto più profonde e numerose di quanto non si possa pensare.

In primo luogo, bisogna rilevare che i nostri Costituenti, né in Italia, né in Francia, né in Germania, avevano pensato a forme di finanziamento pubblico dei partiti. La circostanza era piuttosto evidente in Germania, dove la vecchia versione dell’art. 21 della Legge Fondamentale richiedeva ai partiti di rendicontare solo le “entrate”, e non anche le “uscite”, proprio nell’ottica che i partiti fossero esclusivamente finanziati in forma privata (se il finanziamento è pubblico è invece naturale richiedere non tanto da dove provenga il danaro, ma come esso venga impiegato).

La Corte, in assenza di altri parametri, ragionò sulla base del ruolo dei partiti politici. Essi sono organi dello Stato? Perché è evidente che, se essi sono tali, è legittimo che lo Stato provveda al loro finanziamento. La risposta in estrema sintesi fu: “no, i partiti non sono organi dello Stato, sono gruppi radicati nella società civile e devono essere indipendenti dallo Stato”. Così, nella sua fondamentale sentenza del 1966[9], la Corte costituzionale stroncò quel germe di finanziamento pubblico, ammettendo però forme di rimborso per le spese elettorali (“Soldi pubblici per i partiti? No! Soldi pubblici per le elezioni? Sì!”, titolò Der Spiegel). Si noti che il risultato fu anche raggiunto grazie alla estromissione dal collegio giudicante di Gerhard Leibholz, celebre giurista tedesco teorico del Parteienstaat, nonché convinto assertore della statualità dei partiti.

Nel 1992 la Corte tornò sui suoi passi e ammise forme di finanziamento pubblico. Tuttavia, i presupposti teorici non mutarono e l’idea che i partiti siano “gruppi liberamente costituiti e radicati nella società civile” venne mantenuta. Infatti, il finanziamento pubblico ammesso dalla Corte fu un finanziamento parziale e condizionato al fatto che esso in ogni caso non sia in ammontare superiore a quanto i partiti riescano a ottenere “con i propri sforzi”. In altre parole, se un partito fosse una s.p.a. lo Stato non potrebbe mai detenere più del 50% delle azioni.

 

Italia far West del finanziamento della politica

Il ragionamento seguito dalla Corte costituzionale in Germania ha senso. Il finanziamento pubblico è uno strumento indispensabile per affrancare i partiti da un possibile asservimento a interessi privati, ma può rivelarsi uno strumento a doppio taglio. Il rischio è che i partiti si “statualizzino” sradicandosi dalla società civile. Ciò è stato osservato anche da diversi politologi che si sono interrogati sul declino dei partiti nelle democrazie contemporanee[10].

In Italia Luigi Ferrajoli, già nel 2007, osservava come i partiti, finanziati, ma non regolati, si fossero progressivamente separati dalla società e integrati – in modo non limpido – nella rete dei poteri politico-economici[11].Di lì a poco sarebbero iniziati i rivolgimenti che ci hanno portato alla c.d. “terza repubblica”.

Nel tentativo di riacquistare credibilità in un momento di crisi economica il finanziamento pubblico è stato prima drasticamente ridotto (l. 96/2012) e poi pressoché abrogato (d.l. 149/2013). Oggi i partiti in Italia possono contare, oltre che su contributi e donazioni da privati (favoriti da un sistema di detrazioni fiscali), sugli esigui importi derivanti dal 2 per mille nella dichiarazione dei redditi. Per dare una idea: nel 2017 lo Stato ha versato, con il meccanismo del 2 per mille, circa 15 milioni di euro ai partiti. In Germania il finanziamento pubblico parziale nel 2019 ammonterà a 190 milioni di euro[12] (senza contare i generosi fondi pubblici destinati alle fondazioni di partito).

Il finanziamento pubblico dei partiti non è di per sé né costituzionalmente necessitato[13], né costituzionalmente illegittimo. D’altra parte, anche un sistema basato su contributi privati può essere conforme a Costituzione. Ciò che tuttavia rimane imprescindibile, sia il finanziamento pubblico o privato, è la trasparenza (come già faceva notare Sturzo), il rispetto delle pari opportunità degli attori politici e la presenza di regole che impediscano “concentrazioni privatistiche” nel finanziamento della politica. Il finanziamento privato è lecito fin tanto che è regolato secondo questi principii.

Oggi simili presupposti non possono dirsi soddisfatti in Italia né in relazione alla disciplina del finanziamento privato, né a quella del finanziamento pubblico indiretto (due per mille).

Sul lato della trasparenza, è ad oggi possibile garantire l’anonimato alle donazioni (in nome della privacy!)[14] – il che viola il più basilare buon senso. Incredibilmente, la proposta Sturzo di 60 anni fa è ancora attuale, tanto da essere stata di recente (nel 2015) addirittura “riesumata” e testualmente riproposta in un p.d.l. presentato al Senato[15].

Sul lato delle “concentrazioni privatistiche”, vi è un tetto alle donazioni di 100mila euro complessivi, garanzia però facilmente eludibile grazie al ricorso a fondazioni separate dai partiti.

Sul lato delle pari opportunità, il sistema del 2 per mille svantaggia notevolmente i partiti con iscritti meno abbienti. Difatti non è previsto alcun meccanismo di compensazione – come invece per l’8 per mille[16]– e il due per mille di un milionario può far la fortuna di un partitino, il due per mille di un normale lavoratore si riduce a pochi euro.

Ma vi è di peggio. Gli obblighi di rendicontazione imposti dal d.l. 149/2013 valgono, in sostanza, solo per i partiti che intendano accedere alla (modesta) contribuzione pubblica. I partiti che decidono di finanziarsi in via esclusivamente privata hanno la licenza di non essere affatto trasparenti e di non rendere conto a nessuno della propria gestione finanziaria.

 

Prospettive sul finanziamento della politica

Negli USA la contestatissima sentenza Citizens United v. FEC (2010) ha permesso alle corporations di investire liberamente risorse per fare campagna elettorale in favore di un candidato o un partito. In Germania ci si interroga da lungo tempo sulla necessità di una legge quadro sulle fondazioni politiche e sulla opportunità di regole su lobbies e gruppi di interessi. In Francia è stata da non molti anni istituita una authority, la Haute Autorité pour la transparence de la vie publique, che sta gradualmente diventando il garante generale per la trasparenza della “vita pubblica” (il che include, tra le altre cose, il controllo delle situazioni patrimoniali dei politici, la prevenzione dei conflitti di interesse e la registrazione dei lobbisti). Soldi, politica, interessi privati sono sempre di più al centro di un inestricabile intreccio[17].

Regolare il finanziamento della politica è una sfida ardua e vasta, che pone molteplici interrogativi, non di certo limitati al tema del finanziamento dei partiti. Quelli elencati sono alcuni esempi delle frontiere che sono aperte. In Italia purtroppo siamo ancora all’anno zero.


[1] Se ciò sia vero o meno, e in che misura, è una questione storiografica aperta.

[2] Cfr. J.E. Callon, Le projets constitutionnels de la Résistance, Paris 1998.

[3] Così G. Tarli Barbieri, Il finanziamento privato ai partiti nel d.l. 149/2013, in G. Tarli Barbieri, F. Biondi (a cura di), Il finanziamento della politica, Napoli 2016, p. 108.

[4] A.S. n. 124 (III lgslt.).

[5] Si veda l’art. 4 del p.d.l. (in particolare il comma 4, che vieta ai partiti di accettare offerte o finanziamento da “qualsiasi impresa o società che, come tale, è assoggettata a tassazione in base al bilancio”).

[6] L.D. Brandeis, What Publicity can do, in Harper’s Weekly, 20 dicembre 1913.

[7] Cfr. F. de Menthon, Vers la quatrième République, Paris 1946. “Tous les partis politiques n’ont-ils pas intérêt à ce que leurs ressources et leurs méthodes ne soient jamais suspectées? Mais puisque les partis politiques sont indispensables à un fonctionnement normal de la démocratie, l’État disposera à leur profit des sommes d’argent utiles, en proportion de la fraction d’opinion publique qu’ils représentent” (p. 40).

[8] Cfr. R. Lewinsohn, Das Geld der Politik, Berlin 1931, pp. 118 ss.

[9] BVerfGE 20, 56.

[10] Cfr. per tutti: P. Mair, Ruling the Void, London/New York 2013, p. 86.

[11] L. Ferrajoli, Principia juris, vol. 2, Bari 2007, p. 189.

[12] Sulla base di un recente ddl presentato dalla coalizione di governo.

[13] Lo ha implicitamente confermato la Corte costituzionale ammettendo – ben tre volte – il referendum abrogativo sul finanziamento pubblico ai partiti (cfr. sentt. 16/1978; 30/1993; 32/2000).

[14] Cfr. art. 5, comma 3, d.l. 149/2013.

[15] A.S. n. 1982 (XVII lgslt.).

[16] Dove tutto il danaro complessivamente devoluto finisce prima nello stesso “calderone”, per poi venire diviso in quote a seconda del numero delle opzioni.

[17] Per un (inquietante) quadro: P. France, A. Vauchez, Sphere publique, interets prives, Paris 2017.

Scritto da
Edoardo Caterina

Laureato in Giurisprudenza, sono allievo perfezionando (dottorando di ricerca) in Diritto costituzionale presso la Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa.

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