Recensione a: Biagio de Giovanni, Figure di apocalisse. La potenza del negativo nella storia d’Europa, il Mulino, Bologna 2022, pp. 266, 16 euro (scheda libro)
Scritto da Francesca Fidelibus
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A percorrere il testo di Biagio de Giovanni, Figure di apocalisse. La potenza del negativo nella storia d’Europa, ci si trova di fronte al modo in cui la filosofia e, dunque, l’Europa si è, di volta in volta, nella storia, manifestata come oscillazione tra Uno e Molteplice, tra positivo e negativo, unità e molteplicità, universalità e particolarità, forma e vita, sapere e potere. Dal parricidio parmenideo di Platone sino al tragico Novecento, la filosofia occidentale si è configurata come lotta costante tra questi poli, tra ordine e conflitto, tra la forza compositiva e ordinante della forma e l’impeto della vita plurivoca e multiforme, in cui il negativo, chiamato dall’autore anche finito, accidentale o sensibile, «può stare orgogliosamente fuori, considerare il concetto una violenza fatta contro di lui, oppure vivere con forza e convinzione la possibilità di farsi Forma, di vivere la Forma come la verità di sé stesso, di essere negativo-positivo, non solo luce o solo ombra» (p. 26).
Una tensione ontologica non logica che percorre tutta la filosofia occidentale e permea dall’interno, dandole forma, l’Europa: «Che la filosofia europea sia costruita sulla tensione di opposti è legato al fatto che essa nasce come ontologia, non come logica. Realizzazione prima che giudizio, ontologia di un Essere in bilico tra sé e il suo divenire, e da qui il nesso inestricabile con la potenza, con la sua volontà di realizzarsi, fatta di luci e di ombre» (p. 12). De Giovanni, in linea con altri lavori precedenti come La filosofia e l’Europa moderna (il Mulino 2004), ribadisce l’identificazione Europa-filosofia: «l’Europa è la sua filosofia» (p. 12). Indagare, allora, la tensione di opposti su cui si è costruita la filosofia significa non solo indagare il sapere che nasce in Europa e che, per ciò stesso, «si carica del suo destino» ma anche indagare il senso più intimo, più profondo e più tragico di Europa. Le bipolarità in tensione attraverso cui de Giovanni ripercorre la filosofia, infatti, non stanno in lotta solo o tanto nel pensiero ma rappresentano la «nervatura d’origine» dell’Europa stessa (p. 27).
Sullo sfondo della riflessione c’è certamente Hegel, sin dall’espressione “potenza del negativo” presente nel titolo. Ed è Hegel l’autore più richiamato nel testo. Ma sullo sfondo c’è anche Vico, che, sebbene richiamato solo alla fine sul tema della barbarie della riflessione, percorre, forse ancor più di Hegel, l’intero testo. Come il nero sullo sfondo della Dipintura vichiana che incombe, ricordando i cieli caravaggeschi – e Caravaggio, non a caso, è richiamato da de Giovanni –, sul sorgere della civiltà; come la selva che attraversa come un rovescio negativo la città che, pure, sorge da quella, così anche de Giovanni ripercorre lo sfondo oscuro e nero dell’Europa che dall’origine la percorre e le dà forma. La drammatica vicenda di Europa – un’Europa oscillante secondo il lessico dell’autore – si snoda attorno al tentativo di «Mediazione» e al pericolo dell’«Immediatezza», «termini decisivi dello scontro perché la relazione prevalga o venga sommersa» (p. 26). Il negativo può trovare una sua mediazione, una sua forma, può divenire, appunto, potenza del negativo, oppure disgregarsi, esplodere in tutta la sua forza, in volontà di potenza, priva di mediazioni e precipitare in una crisi che coincide con la crisi di un’intera civiltà, quella occidentale.
A partire da Platone, dunque, de Giovanni getta uno sguardo lungo e genealogico sulla figura di Europa tracciando una storia filosofico-politica del negativo e della sua potenza per rintracciare le ragioni di un Occidente innervato su un paradosso: quello di essere al contempo creatore «di opere come nessun’altra al mondo», produttore di civiltà ma anche «di guerre come nessun’altra al mondo» (p. 20).
In una biblioteca ideale, l’autore, non senza una eco autobiografica e nostalgica, ripercorre, a volte toccandoli solo di sfuggita a volte soffermandovisi, autori, pensieri, correnti, da Plotino a Husserl, da Kant a Weber, da Goethe a Kafka, da Caravaggio e Poincaré, per mettere a fuoco il rapporto dinamico ma costante che attraversa, dandole forma e consistenza, in una vicenda intimamente drammatica, l’Europa, il continente «del bisogno di oggettivazione e di mobilità espansiva per riconoscersi» (p. 44), in cui il «cammino della Metafisica» ha un «rapporto» organico «con la violenza» e in cui l’idea di libertà «lascia avvertire il vuoto da cui nasce» (p. 43). Ma è anche l’Europa delle grandi opere; è pur sempre – su questo si tornerà alla fine come alla fine ci torna l’autore – «l’opposto di quell’altra grande civiltà che è stata» ed è «la Cina», che «ha fondato misticamente il proprio immobilismo» (p. 44).
All’immobilismo orientale de Giovanni contrappone la tensione costante tra pensiero e vita occidentale. A partire da Atene l’autore segue le declinazioni e le alternative configurazioni, tra tensioni e conciliazioni, del conflitto tra forma e vita in un intreccio che giunge sino alla rottura «in modo ultimativo» della Mediazione da cui sorge l’Apocalisse che dà il titolo al libro e che l’autore colloca nel Novecento: «Noi vorremmo trattare l’idea di Europa alla luce di una tensione originaria più irrisolta, più tragica, che precipita verso la negazione di sé» (p. 39). Quando viene meno la mediazione si scivola nel nulla, nel nichilismo, nella negazione della propria identità.
Platone è il primo che, al cominciamento «ieratico, immobile» parmenideo, in cui l’Essere «è soltanto Uno» e incontra il negativo «non come “altro”, bensì come ciò da cui difende in modo corazzato la propria identità», contrappone «l’insostenibilità di quel “non”» (p. 57), la necessità di rintracciare una relazione, sin «dall’inizio problematica» tra l’Uno e i Molti (p. 62). Una necessità che farà sua anche Aristotele sullo sfondo della dualità «enérgheia/dynamis» (p. 63).
A seguire Atene de Giovanni pone Gerusalemme, in cui l’Uno, l’Idea archetipica diviene un Dio incarnatosi, evento più che pensiero, in cui il Molteplice non è più «la varia esperienza sensibile con la quale l’Uno cerca il suo difficile rapporto, ma è l’Uomo vivo nella sua più determinata esistenza» (p. 71). Atene e Gerusalemme, filosofia e teologia si incontrano in Agostino in cui «Molteplice e Uno si richiamano e si intersecano come Trinità e Tempo, un’essenza semplice che incontra la vita dispersa e si fa interna al suo agire, influenzandone la determinazione» (p. 78).
E per finire Roma, cronologicamente tra Atene e Gerusalemme, la cui grande scoperta è «il Diritto, e il Diritto come Forma» (p. 86). Con Roma cambia lo scenario: «Nelle varie tappe del suo progressivo dominio imperiale sul mondo, nei grandi processi di unificazione e stabilizzazione politica estesi dappertutto, ebbe al centro la lotta per il Diritto» (p. 87) e con Giustiniano giunse alla conquista del Diritto come Forma. Un punto, questo, che attraverserà tutta la figura di Europa giungendo sino al principio dell’«ordinamento» che muove proprio dal Diritto romano (p. 89).
Atene, Gerusalemme e Roma, dunque: «tre paradigmi, colonne di Europa» (p. 91) alla ricerca contrastata «delle sue ragioni ultime», di una sua propria identità (p. 83) che «non sta fuori, nel mondo oggettivo, in attesa di esser trovata», ma è creata «nel corso del fare» (p. 82). E in questo creare si dà il conflitto tra saperi e filosofie, una lotta «che richiedeva e invocava anche stabilità, stabilizzazione come liberazione dalla tensione». E tale stabilizzazione, trovata ora nella moderazione, saggezza e tolleranza di un Socrate, di un Montaigne, di un Pascal o di un Locke, ora nel «solido associazionismo di Hume», ora nel Diritto che «si stabilizzava come ordinamento e Stati», giunge a un suo punto culminante «che immaginava una tale coincidenza tra sapere ed Essere, da chiamare “sapere assoluto” l’esito di una storia intera» (pp. 92-93). Il riferimento è naturalmente a Hegel, all’incantesimo del suo sistema, all’interno del quale «si esaurì una figura di “Europa”» (p. 93). Nella stabilizzazione dell’«oscillante» da parte di Kant e di Hegel che cercano, in modi diversi eppure simili, di arrestare il disordine del finito; nella filosofia del Tutto «sostenuta dalla potenza del negativo» da parte di Hegel si giunge, secondo l’autore, a un punto di esaurimento, di arrivo della figura di Europa e per ciò stesso alla riapertura dell’abisso che ne era all’origine e che «si spalancò preparato in varie forme e linguaggi, da Marx a Nietzsche» sino all’apocalisse novecentesca (p. 93), quando potenza e sapere si divisero e la potenza del negativo, non più mediato, si trasformò in volontà di potenza.
Tale trasformazione cominciò da Schopenhauer, continuò con Kierkegaard per giungere al suo estremo con Marx e Nietzsche. L’uno scagliando contro «la Metafisica realizzata di Hegel che si era fatta Stato, la potenza vitale della forza-lavoro», il cui sapere si costituiva «sulla negazione di ogni Mediazione» (p. 119) e l’altro con la negazione «immediata della potenza del negativo» con «la sua trasfigurazione nell’idea di una Vita che deve liberarsi dal concetto», sia da quello kantiano che da quello hegeliano (p. 129).
Il Novecento si apre sul dissolvimento delle stabilizzazioni ma anche su un evento storico altrettanto significativo e funzionale a quel che de Giovanni chiama “apocalisse”: l’avvento delle masse e con esse di un nuovo rapporto tra masse e potere, l’irruzione «della democrazia organica di massa che si trasforma in totalitarismo» (p. 155). Gramsci, Le Bon, Freud, Simmel, Benjamin, Adorno e Horkheimer registrarono, tra gli altri, il cambiamento. Nelle filosofie della vita, «in modo esemplare con Simmel», si ripropose un nuovo rapporto tra Forma e Vita: «si affermò, in politica, l’idea di Vita-Decisione contro Rappresentanza» (p. 157). La vita e l’umano, nella letteratura, nella filosofia ma anche nel dibattito critico sulla scienza del Novecento, rimettevano «in gioco le proprie forme che apparivano acquisite», riconquistavano una vitalità «che aveva il carattere di un rapporto inesauribile tra massa ed energia» con l’aggiunta «di una energia oscura» che Vico chiamava ingens sylva e Hegel «potenze che hanno in orrore la luce» (p. 171). La Mediazione si rompe, storicamente e metafisicamente, nel Novecento anche sotto il peso della massa che preme, agisce «come compressione violenta sull’Uno» (p. 172).
È però la chiusura del libro a offrire la chiave di volta di tutto il percorso di cui è possibile seguire la traccia nella documentata nota bibliografica finale. L’ultimo capitolo si presenta come una sorta di appello all’Occidente e, non a caso, titola L’Occidente ami sé stesso. Sulle macerie di Auschwitz, l’Europa ha dato avvio a un processo di costituzionalizzazione, a un tentativo di ricostituire una qualche forma di Mediazione «tra Forma e Sostanza, tra le società e gli Stati dell’Europa occidentale» (p. 232) lavorando sulla riconquista «di una vita che anelava alla libertà politica e alla riaffermazione dei diritti umani travolti» (p. 232). Ma proprio quel tentativo di Mediazione, nelle forme dell’integrazione politica, andava contro la storia di un’Europa da sempre attraversata dal conflitto politico, dalla lotta tra filosofie «capaci di reciproca volontà di lacerazione creativa, e altre volte di lacerazione senza ricomposizione» (p. 234).
Alla pacificazione dei conflitti interni di Europa che non occupa più il centro del mondo si aggiunge, per de Giovanni, l’assenza di un’idea di Europa e di una guida politica. Cosicché Europa si trova oggi a vivere una crisi strutturale della democrazia rappresentativa, in cui ci sono solo poteri costituiti, con partiti che si vanno dissolvendo, parlamenti che non funzionano e una forza costituente che, invece, appare completamente affievolita. A complicare e aggravare le cose de Giovanni pone tre elementi: la presenza della Tecnica, la cancel culture e le autocrazie della Cina e della Russia, contro le quali l’Europa dovrebbe tornare ad avere coscienza di sé riappropriandosi di quell’archivio immenso di saperi e opere che ha alle spalle e che «da un lato non si fa abolire» ma dall’altro sembra non aver più «forza costituente e rischia di portarla a fondo con il suo peso di “ricordo”, che non trova più le forme entro le quali esistere» (p. 246).
La “cultura della cancellazione”, in particolare, è vista dall’autore come una sorta «di volontà di autodistruzione – di suicidio» e «mai» c’è stata «cultura così distruttiva di un’identità che ha attraversato i secoli», «una radicale caduta di autostima delle democrazie liberali assediate dal proprio interno», una «smobilitazione culturale e ideologica dell’Occidente concentrato nel processare sé stesso» (p. 238) ricordando «solo le colpe collettive dell’imperialismo della razza bianca» e dimenticando, invece, «la grande civiltà delle opere e della libertà, e l’imperialismo degli altri» facilitando così «una decadenza irreversibile che permette ai grandi imperi dispotici, Cina, Russia, con tanti che ormai guardano nella loro direzione, di poter vantare la propria storia» (p. 238).
Un passaggio, questo, che porta con sé notevoli questioni forse anche troppo sovrapposte tra loro. La cancel culture, per molti aspetti discutibili, non è affatto nuova nella storia, sebbene oggi, forse, ne siano diverse le forme. Lo sfregio di un’effigie all’interno di uno spazio pubblico, la distruzione di statue o di immagini nei luoghi collettivi, la cancellazione di icone ha attraversato con obiettivi, soggettività, pratiche differenti tutta la storia occidentale. Siamo sicuri che distruggere la statua di Colombo possa essere un’azione motivata semplicemente dalla volontà di “autodistruzione” della propria cultura e dalla “caduta di autostima di tutto l’Occidente” e non forse dalla necessità di compiere un atto politico che non solo prende sul serio quell’“archivio” di saperi e opere ponendosi in relazione con esso senza mummificarlo, ma problematizza anche la presenza e la perpetuazione di alcune raffigurazioni piuttosto che di altre all’interno degli spazi pubblici?
La seconda questione, invece, riguarda il bipolarismo ritornante tra Oriente e Occidente cui stiamo assistendo. Se è vero che le conquiste liberali proprie dell’Occidente sono non soltanto da difendere ma anche da rivendicare e ricordare, ciò non può tradursi né filosoficamente né politicamente nei vecchi registri della guerra giusta accompagnata alla criminalizzazione dell’altro orientale e illiberale. L’Europa è certamente in crisi d’identità ma forse anche questa crisi d’identità è parte integrante di quel movimento, di quella tensione ontologica che la attraversa e che l’autore ha ripercorso nel libro. De Giovanni nelle pagine finali, però, non sembra di quest’avviso. La «Tecno-potenza digitale ignora i coni d’ombra» entro i quali si forma quell’oscillazione «creativa e distruttiva» che ha delineato nei secoli la figura di Europa (p. 244). Non solo la società che vive di mediazioni e conflitti non riesce a trovare una forma per esistere, non solo la sua figura originaria è in discussione ma anche la possibilità di costruirne una nuova lo è, perché sembra essersi esaurita proprio quella tensione ontologica che la costituisce. Ammettendo pure che questo sia vero, però, non si può cadere nel rischio di una giustificazione del neocolonialismo occidentale in virtù delle conquiste – certamente grandi, straordinarie – dei valori di libertà e di democrazia dell’Occidente come sembra in più punti suggerire il testo. Così come non si può rispondere alla sete di dominio occidentale con l’esaltazione di una mitologica Eurasia, di un comando centralizzato e autocratico rispetto alle democrazie liberali. Semmai, forse, si può provare a rispondere con la ricostruzione, teorica e pratica, di un’idea di democrazia moderna come nuova forma in cui organizzare la vita. Nella chiusura del libro, tuttavia, de Giovanni non fornisce risposte. Pone, invece, molti interrogativi riconoscendo che il tema «è gravido di futuro» (p. 254). Ma, parafrasando gli interrogativi dell’autore, in questo futuro l’Europa ha ancora un destino o questo si è spostato, dislocato, in altri luoghi ed è solo il tramonto che ci aspetta?