Scritto da Luigi Pinchiaroglio
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Il presente articolo è tratto , su gentile concessione dell’Editore Marco Valerio, dal libro “Appunti di viaggio verso le città e i territori smart” curato dall’autore per conto dell’Associazione LAPIS
Il governo del territorio, la sua tutela e messa in sicurezza sono temi sempre più all’ordine del giorno.
Non è superfluo ricordare i disastri provocati dall’aver considerato il territorio un bene consumabile a fini speculativi, accondiscendendo a un urbanesimo che ha considerato il territorio e la natura come elementi la cui conservazione e messa in sicurezza non dovevano essere di ostacolo allo sviluppo edilizio.
Interi torrenti nel corso degli anni sono stati tombati (il Seveso a Milano e il Bisagno Genova) per dare spazio allo sviluppo urbano. Intere montagne e colline sono state strappate ai boschi per renderle edificabili alterando quel fragile equilibrio che la natura aveva costruito a partire da tempi lontanissimi. Ed ora, causa l’aumento delle precipitazioni conseguenti ai cambiamenti climatici, l’incuria e il degrado nei quali versano i bacini torrentizi e fluviali, si assiste a sempre più frequenti inondazioni, frane, smottamenti con i conseguenti lutti e danni.
A fronte di questa situazione, se vogliamo parlare di città e territori “intelligenti”, non possiamo fare a meno di considerare che qualsiasi approccio smart ha come naturale applicazione un diverso modo di governare il territorio a partire dall’urbanistica, una disciplina che deve tornare ad essere lo strumento con il quale si disegna la città di domani, con il concorso di tutti, e non lo strumento attraverso il quale soddisfare interessi privati, ancorché legittimi.
A questo proposito provo a inquadrare meglio il tema.
In Italia l’urbanistica è da sempre un tema sul quale il legislatore ha sentito il dovere di intervenire per normare un settore di fondamentale importanza per lo sviluppo del Paese. Gli interventi legislativi hanno, via, via, risentito dell’epoca in cui sono stati effettuati e dell’orientamento politico dei diversi proponenti, nonché delle maggioranze che hanno licenziato i provvedimenti.
Tralasciando i riferimenti agli stati preunitari, l’esordio nella legislazione nazionale della normazione in campo urbanistico lo si può far risalire al 1865, all’indomani della formazione dello Stato unitario, con l’emanazione della legge n. 2359. È infatti in questa legge che viene introdotta la prima regolamentazione inerente la formazione dei piani regolatori edilizi e dei piani di ampliamento, con l’individuazione di sanzioni in caso di esecuzione di costruzioni in violazione dei suddetti piani. Il privato, tuttavia, non era ancora soggetto all’obbligo di chiedere l’autorizzazione a costruire. Obbligo che verrà introdotto nella legislazione solo nel 1935 con la legge n. 640.
Fra il 1865 e i primi anni quaranta del secolo scorso, non esiste in Italia un’organica legislazione urbanistica. Occorre attendere il 17 agosto 1942 quando, in piena seconda guerra mondiale, viene emanata la legge n. 1150 che è stata, e ancora è, la legge fondamentale dello Stato italiano in materia di disciplina urbanistica. Con questa legge viene introdotta la pianificazione territoriale in modo più organico con l’obbligo per i comuni maggiori di dotarsi del piano regolatore e con l’introduzione di nuovi strumenti urbanistici, quali il piano regolatore intercomunale ed i piani territoriali di coordinamento. All’autorità statale e comunale sono demandati i compiti, nonché i poteri, di controllo e di intervento.
Dal 1942 ad oggi diverse leggi sono state approvate e i vari articolati, che negli anni si sono susseguiti, hanno integrato, modificato, abrogato parti della 1150, ma nessuno si è ad essa sostituito come nuova legge urbanistica.
Tante leggi speciali, ma nessuna riforma organica.
A più di settant’anni dall’approvazione del testo base, nessuna riforma urbanistica organica è ancora stata varata. Ciò sta a dimostrare come la politica urbanistica nel secondo dopoguerra sia stata attuata più sull’onda delle esigenze volte a dare soluzione a problemi contingenti, con leggi speciali e settoriali ad hoc, che non sulla scorta di una strategia ben delineata. Questo è un dato oggettivo con il quale dobbiamo oggi confrontarci. Un dato che individua lo scenario nell’ambito del quale è stata gestita la politica urbanistica in questi lunghi decenni.
È peraltro evidente che i problemi in campo, che attendevano soluzione, erano tali e tanti che bene ha fatto il singolo legislatore, il più delle volte spinto da emergenze sociali, ad intervenire laddove era necessario. Rimane tuttavia il riscontro storico inconfutabile che, nonostante la necessità, nessuna vera riforma è mai stata approvata per adeguare la normativa all’evoluzione dei tempi e ai mutati aspetti istituzionali.
Lunga è la lista delle leggi speciali e settoriali approvate negli anni. Dalle leggi per i piani di ricostruzione del dopoguerra (legge 145/1945 e legge 1402/ 1951) a quella per i piani di zona per l’edilizia economica e popolare (legge 167/1962) o ad altri provvedimenti, nessun intervento legislativo è però riuscito ad intervenire con metodo sul processo di espansione edilizia, spesso disordinato e dirompente.
Eclatante fu il caso della proposta di legge del ministro Fiorentino Sullo che nel 1962 naufragò fra un mare di polemiche. Come, peraltro, naufragarono altre proposte di legge fra il 1963 e il 1967. Neanche la cosiddetta legge ponte (legge 765/1967), propedeutica ad una successiva riforma urbanistica, seppur necessaria per porre un freno alla dilagante edificazione incontrollata, riuscì a sfociare in una legge organica. Seguirono negli anni altre leggi. Fra le principali meritano particolare nota:
A partire dall’insediamento delle Regioni, mi riferisco in particolare a quelle a statuto ordinario, la competenza urbanistica passò a questi Enti i quali iniziarono a legiferare senza una precisa legge quadro nazionale.
II panorama, come si vede, è piuttosto complesso ed articolato, a fronte del quale, il dibattito che negli ultimi anni si è avviato non ha scaturito l’approvazione di una legge di riforma. E proprio in questo panorama legislativo si è sviluppata l’urbanizzazione del territorio con il risultato che è sotto gli occhi di tutti: il territorio non è stato governato.
Al governo del territorio è prevalsa la logica dello sviluppo edilizio, spesso incontrollato e gestito perlopiù con logiche di campanile. Fuori quindi da una corretta concertazione a livello territoriale, plasmando in non pochi casi gli strumenti urbanistici più sulle esigenze dei privati che non sulle esigenze della collettività, con una qualità edilizia che in generale è di basso livello.
Si pensi ad esempio a come l’espansione delle aree industriali/artigianali abbia potuto interessare sempre più vaste aree, un tempo marginali ai centri urbani, inglobando le stesse nelle città e creando una teoria di insediamenti lungo le principali strade di comunicazione fra le città stesse. Ciò in presenza di piani regolatori comunali, il più delle volte non coordinati fra di loro ed ognuno approvato con l’unico obiettivo di ritagliare sul proprio territorio una zona da adibire ad insediamenti produttivi, anziché concertare gli interventi a livello territoriale, sovracomunale. I processi di trasformazione territoriale più che essere governati hanno imposto loro le scelte a base delle politiche di pianificazione.
A fronte di questa situazione, che vede oramai compromesse vaste aree all’interno ed all’esterno delle città, si impone un intervento a livello nazionale che, nell’ambito dei poteri trasferiti dalla Stato alle Regione, come disciplinato dal Titolo V della Costituzione, riordini l’intero settore attraverso una legge quadro di princìpi ai quali adeguare le legislazioni regionali, troppo spesso contrastanti fra loro e prive di princìpi comuni.
In particolare occorre una riforma che miri a privilegiare l’aspetto qualitativo degli insediamenti più che a quello quantitativo. Sulla base di questo principio, in una visione smart, è necessario mirare più alla riqualificazione dell’esistente che non all’ulteriore costruzione di nuovi volumi, alla riduzione del consumo di suolo vergine a vantaggio degli interventi sui suoli già costruiti.
Come capitato in passato, anche negli ultimi anni parecchie sono state le proposte di riforma della legge urbanistica nazionale che sono naufragate nel dibattito parlamentare o contro gli scogli del termine delle legislature. Purtroppo, dobbiamo registrare che anche l’ultima proposta di riforma della legge urbanistica nazionale, contenuta nel testo formulato nel 2014 dal Gruppo di Lavoro “Rinnovo Urbano” costituito dall’ex Ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti Lupi con il titolo “Princìpi in materia di politiche pubbliche territoriali e trasformazioni urbane”, appare piuttosto distante dal cogliere l’obiettivo. Espresso con un linguaggio molto criptico, il testo di legge manca di ogni approfondimento sui temi che riguardano le invarianti territoriali, la valutazione ambientale dei piani, il paesaggio, le aree extraurbane, il freno al consumo di suolo, la sostenibilità e l’efficienza energetica, la vulnerabilità del territorio in tema di dissesto idrogeologico, la tutela del paesaggio, la compatibilità ambientale dei piani nelle aree sismiche, l’apporto delle tecnologie digitali applicate al territorio. Così anche gli aspetti legati alla copianificazione, agli istituti della perequazione e della compensazione urbanistiche, pur nei limiti di una legge di princìpi, non risolvono i problemi riscontrati dalle Regioni che hanno legiferato in materia, trattando l’argomento più sul piano della commercializzazione dei diritti edificatori piuttosto che su quello di fornire nuovi strumenti di governo dell’uso del suolo.
A titolo propositivo, provo qui a delineare un percorso finalizzato a seguire la strada dell’approccio smart nell’ambito del governo del territorio.
Innanzitutto che cos’è il governo del territorio? Il governo del territorio è quell’insieme di attività conoscitive, valutative, regolative, di programmazione, di localizzazione e di attuazione degli interventi, nonché di vigilanza e di controllo, volte a perseguire la tutela e la valorizzazione del territorio, la disciplina degli usi e delle trasformazioni dello stesso e la mobilità in relazione a obiettivi di sviluppo del territorio. Il governo del territorio comprende altresì l’urbanistica, l’edilizia, i programmi infrastrutturali, la difesa del suolo, nonché la cura degli interessi pubblici funzionalmente collegati a tali materie.
Affinché il governo del territorio sia tale, e non solo un proclama, occorre che da parte della Pubblica Amministrazione vi sia una forte volontà a rafforzare la partecipazione agli atti di governo dei soggetti che fino ad oggi sono stati relegati in posizione subalterna, in quanto destinatari di provvedimenti di natura autoritativa. D’altra parte è pure evidente come i confini della governance siano ancora piuttosto labili ed i suoi contenuti siano frutto di un costante adattamento all’evoluzione della società e delle esigenze che in esse si manifestano.
L’introduzione in Italia della governance in ambito urbanistico si può far risalire all’entrata in vigore della legge 241/90. In questa legge, infatti, si fa esplicito riferimento agli accordi che possono essere stipulati fra Pubblica Amministrazione ed altri soggetti nel perseguimento dell’interesse pubblico ed al fine di determinare il contenuto discrezionale del provvedimento.
Da qui nasce proprio l’essenza della questione: il perseguimento dell’interesse pubblico attraverso:
Sullo sfondo di questo scenario appare evidente che il raggiungimento dell’interesse pubblico, operando con accordi di tipo negoziale volti al superamento dei conflitti fra i soggetti portatori di interessi diversi, a volte anche antagonisti, apre inevitabilmente un altro conflitto. Mi riferisco a quello fra i rapporti di forza esistenti fra i vari soggetti che concorrono alla ricerca del consenso ed alla definizione dell’atto negoziale.
Ovviamente non tutte le forze in campo sono equilibrate fra loro. Se poi si pensa che la principale forza cui occorre fare riferimento è quella economica, si intuisce immediatamente come sia reale il rischio che la Pubblica Amministrazione possa venire esautorata da quel potere, che dovrebbe essergli proprio, da parte di soggetti economicamente più forti, portatori di istanze non riconducibili all’interesse collettivo.
Sulla scorta delle considerazioni esposte, è possibile ora esaminare gli aspetti inerenti il governo del territorio e le relative forme di governance.
Al fine di fugare ogni dubbio interpretativo e chiarire fin dall’inizio la posizione che ritengo corretta sull’argomento del governo del territorio con una visione smart, è necessario precisare che:
non possono prescindere dal concorso di più attori, istituzionali e non istituzionali, siano essi portatori di interessi economici, sociali, culturali, con in testa il concorso dei cittadini.
I forti tagli alla spesa pubblica, la necessità di rientrare all’interno di predefiniti parametri di indebitamento comportano l’impossibilità della Pubblica Amministrazione di finanziare gli investimenti pubblici.
Diventa pertanto necessario intraprendere forme di partenariato pubblico-privato finalizzate a convogliare le necessarie risorse economiche, culturali, tecniche, ecc. verso preordinati obiettivi fissati dalla Pubblica Amministrazione mediante la definizione di atti pianificatori da rendersi operativi anche attraverso accordi negoziati fra pubblico e provato. Tutto ciò con il vincolo che la Pubblica Amministrazione mantenga saldamente nelle sue mani la definizione degli aspetti strategici e strutturali, aspetti che sono alla base di ogni atto pianificatorio, consentendo ai soggetti non istituzionali il compito/opportunità di partecipare:
L’approccio che ho qui delineato è alla base delle più moderne teorie che regolano l’urbanista solidale[1] e l’urbanistica consensuale[2] volte a raggiungere una migliore qualità delle nostre città, dei nostri territori, superando il rigido sistema basato sulla pianificazione dirigistica e prescrittiva che ha dimostrato tutti i suoi limiti lasciando, peraltro, mano libera alla speculazione e alla cementificazione del territorio.
Lasciare al mercato la possibilità di incidere nei processi decisionali del governo del territorio è l’obiettivo di chi ha concepito in passato, ed oggi continua a concepire, l’urbanistica e le trasformazioni ad essa connesse come mero strumento per il raggiungimento dei propri fini speculativi, di lucro. E questa visione distorta dell’urbanistica, occorre purtroppo sottolinearlo, troppo sovente ha trovato terreno fertile e connivenze in chi era preposto a tutelare e perseguire gli interessi pubblici.
É evidente che la concezione di governo “intelligente” del territorio comporta che le politiche di sviluppo territoriale vengano condotte attraverso la definizione di regole virtuose fra le tre componenti del territorio: l’ambiente naturale, l’ambiente costruito, l’ambiente antropico, con l’esplicarsi di forme di autogoverno locale.
Nella consapevolezza di come non sia assolutamente facile passare dall’enunciazione dei princìpi alla fase operativa ed attuativa, quale modesto contributo, mi limito qui a identificare nell’elenco che segue alcuni suggerimenti, con l’auspicio che essi possano essere di stimolo per ulteriori riflessioni ed approfondimenti nel dibattito interno alla costruzione delle città e dei territori smart. Dibattito che deve necessariamente investire i ruoli del legislatore, sia esso nazionale o regionale, degli amministratori locali, degli operatori economici, delle categorie sociali e, certamente non ultimi, dei cittadini.
Per punti:
É altresì importante operare in un’ottica di riforma che veda le normative in materia di urbanistica, edilizia, lavori pubblici, tutela dei beni ambientali, culturali, artistici e paesaggistici, non più come materie a se stanti, bensì come elementi fondamentali del governo del territorio le cui interrelazioni, in quanto finalizzate al soddisfacimento di interessi collettivi, impongono uno stretto coordinamento legislativo. Non si può parlare di un reale governo del territorio se si continuano a considerare disaggregate le singole tematiche che sovrintendono al governo del territorio stesso. Come, peraltro, non si può ottenere un efficace governo del territorio se gli interventi sul territorio:
A fronte della situazione in cui versa il territorio nel nostro Paese, abbiamo poco tempo per intervenire.
La natura si ribella all’ignavia dell’uomo ed allo stato di abbandono e incuria nel quale egli ha relegato il territorio. Fiumi di parole inondano le cronache sul tema della tutela e messa in sicurezza del territorio. Politici ed esperti discutono sui provvedimenti da adottare, sulla necessità di procedere in fretta. Nel frattempo il territorio si infragilisce sempre di più, si sgretola e i dissesti si trasformano in disastri. Le frane quiescenti si attivano, le rogge diventano torrenti, i torrenti fiumi. A fronte di questi disastri, troppo facilmente pianti a posteriori, non è sufficiente stanziare fondi e realizzare opere. Senza fondi non si va da alcuna parte. Tuttavia i soldi, senza una cultura intelligente che percepisca il territorio come una risorsa limitata che occorre governare, tutelare, valorizzare e non sfruttare, rischiano di servire a nulla. Con i soldi si possono curare alcune ferite, non certo vincere la malattia che ha aggredito il territorio. É ben chiaro che la messa in sicurezza contro il dissesto idrogeologico, gli eventi sismici non potrà mai portare ad annullare il rischio. Il rischio zero non esiste. Esiste però il dovere di mitigare il rischio a livelli accettabili per garantire la sicurezza generale, adottando le opportune contromisure volte a rendere minimo e a gestire il rischio residuo. Quell’alea di rischio, cioè, che rimane imponderabile, non prevedibile e deve rappresentare l’emergenza, non la normalità.
Nessuna politica, vecchia o nuova, riuscirà mai ad azzerare i rischi naturali. Tuttavia una politica più coraggiosa, creativa, lungimirante, meno appariscente e con una maggiore propensione ad una cultura progettuale tesa a privilegiare interventi utili a mettere in sicurezza il territorio e i suoi cittadini, a favorire la ripopolazione delle aree abbandonate, non governate, potrà contribuire a dare risposte positive anche sul fronte della messa in sicurezza del territorio.
Si parta dalla “fotografia” dei territori e dagli attuali strumenti di programmazione territoriale e dei territori, si facciano dei laboratori a cielo aperto delle buone pratiche di governo dei rischi naturali, affiancando alla necessaria gestione delle possibili emergenze una nuova progettualità incentrata sulla tutela e la difesa del territorio. Si provi a mettere insieme tutte le capacità, le competenze, le intelligenze. Con un pizzico di coraggio, e guardando lontano, si può immaginare un futuro per l’uso del territorio che non sia solo il frutto di qualche pur interessante e pregevole intervento urbanistico, bensì il risultato di una politica attenta a generare opportunità di sviluppo e di lavoro anche attraverso la prevenzione e la cura dei potenziali dissesti.
[1] Cfr: Urbani Paolo, Urbanistica solidale – Alla ricerca della giustizia perequativa tra proprietà e interessi pubblici, Bollati Boringhieri
[2] Cfr: Urbani Paolo, Urbanistica consensuale – La disciplina degli usi del territorio tra liberalizzazione, programmazione negoziata e tutele differenziate, Bollati Boringhieri
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