Recensione a: Gabriele Giacomini, Il trilemma della libertà. Stati, cittadini, compagnie digitali, La nave di Teseo, Milano 2025, pp. 320, 20 euro (scheda libro)
Scritto da Gianfranco Pasquino
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Libertà politica dalle Big Tech. Yes, we can.
Facendo una necessaria pausa dalla lettura dell’interessante, ma molto impegnativo, libro di Gabriele Giacomini, Il trilemma della libertà. Stati, cittadini, compagnie digitali (La nave di Teseo 2025), mi sono imbattuto nel titolo di un articolo del The Washington Post: ICE is quietly building a massive surveillance network. Proprio a puntino. Infatti, l’attività alla quale si dedica il Dipartimento intitolato Immigration and Customs Enforcement e il modo in cui lo fa sono centrali nell’analisi di Giacomini. In estrema sintesi, se gli Stati si dotano di sistemi di sorveglianza basati sull’immagazzinamento di un’enorme quantità di dati personali, riducono in maniera significativa la libertà personale dei cittadini, fino potenzialmente addirittura ad annullarla.
Naturalmente, vorremmo, sarebbe necessario saperne di più. Da quali Big Tech, alcune oramai assunte a Mega Tech, l’ICE attinge i dati, pagandoli o scambiandoli con favori dei più vari tipi e gradi? Chi ha autorizzato la creazione di una tale rete di sorveglianza di massa? Con quali esiti già verificabili e misurabili? Da quanto scritto da Giacomini traggo alcune importanti risposte. Siamo di fronte ad una minacciosa alleanza fra uno Stato, gli USA, ma mi sento in dovere di aggiungere del Presidente Donald Trump, con una o più compagnie digitali. La minaccia riguarda la libertà dei cittadini che, opportunamente, mettendosi nella scia della fondamentale distinzione fra libertà negativa e libertà positiva formulata e elaborata dal grande filosofo politico Isaiah Berlin (Riga 1909 – Oxford 1997), concerne lo spazio di libertà personale, la privacy, la non intrusione e non ingerenza dello Stato nella propria vita. Qui sento la necessità di procedere ad una, credo, importante, precisazione, e ad una, ancora più importante, proposta di riformulazione.
La precisazione riguarda il quantum di privacy da riconoscere ai cittadini e di cui garantire la protezione. Penso si debba procedere ad una chiara e netta differenziazione fra i cittadini e le cittadine, da un lato, e coloro, dall’altro, che ricoprono ruoli pubblici, a maggior ragione se politicamente rilevanti. Di un grande imprenditore che si fa vanto della sua correttezza è giusto investigare come tratta e come retribuisce il suo personale. Qualsiasi famosa scrittrice deve consentire che i suoi testi siano sottoposti al controllo inteso a scoprire eventuali plagi. Al monsignore che si produce in appassionate critiche dell’immoralità di credenti e non credenti non potranno essere perdonati furtivi comportamenti pedofili. La parlamentare che ha acquisito il suo seggio con una campagna elettorale all’insegna della moralità deve essere consapevole che la sua vita privata verrà scrutata profondamente. Al ministro che ha lanciato una dura lotta contro l’evasione fiscale sarà più che lecito chiedere conto della fonte del suo reddito e dei suoi movimenti bancari. La libertà negativa di tutti questi soggetti è giustamente ridotta con riferimento al loro grado di esposizione pubblica, al loro grado di sfruttamento a fini politici proprio del loro privato: qualità personali e relazioni famigliari, e alla quantità di potere politico, economico, sociale, culturale e religioso di cui dispongono. In materia il caso italiano è una miniera a cielo aperto.
La riformulazione riguarda il protagonista istituzionale. Credo che sia improprio e fuorviante parlare di Stato. Vero è che le strutture coinvolte nei rapporti con le Big Tech sono soprattutto quelle ministeriali e collaterali, ma, per lo più, anche se i negoziati possono essere tenuti in nome e per conto dello Stato, i negoziatori sono i governi del tempo e i ministri con i loro rappresentanti e collaboratori, vale a dire che hanno una collocazione e colorazione politica. Mi pare plausibile ipotizzare, con beneficio di inventario, ma non sono al corrente di ricerche specifiche, che i governi di destra hanno atteggiamenti più comprensivi e persino remissivi nei confronti delle grandi compagnie digitali, forse per tornaconto, leggi finanziamenti politici e elettorali. Al contrario, i governi di sinistra sono in linea di massima piuttosto nemici, anche per ideologia, sempre ricambiati, di quelle compagnie. I ricchi non rappresentano il popolo e il popolo viene manipolato da chi ha enorme potere digitale. Dunque, i governi di sinistra cercano entro incerti limiti di “spennare” le ricche compagnie digitali le quali, tutte le volte che possono, evadono ed eludono, e mirano a contrastarne la manipolazione dell’opinione pubblica, anzi, meglio, delle molte bolle “opinionate”, cioè ruotanti intorno a opinioni discutibili mai sottoposte a verifiche.
Se questa è in generale la situazione, è imperativo procedere a due operazioni culturali. Da un lato, bisogna distinguere fra i colori politici dei governi per consentire analisi più conformi alla realtà; dall’altro, è necessario affrontare in tutte le sue sfaccettature lo spinosissimo argomento della libertà di parola, free speech. Quella libertà va protetta solo per i cittadini o anche per i governanti? Vale a dire, è accettabile che il Presidente Trump spari enormi falsità dalla sua piattaforma chiamata Truth (Verità) (per ironia della storia il quotidiano ufficiale del Partito Comunista dell’Unione Sovietica si chiamava Pravda, “verità” in russo) rimanendo tutelato dal Primo Emendamento e impunito?
Secondo Giacomini il trilemma della libertà si estrinseca in tre possibilità da lui weberianamente definite “idealtipi”: modelli concettuali che servono a comprendere e analizzare la realtà in maniera più chiara e sistematica (p. 137). Credo che sia preferibile denominare “scenari” le tre coalizioni possibili perché servono non solo a comprendere e analizzare, ma anche a prevedere e valutare le conseguenze, gli sviluppi. La discussione che Giacomini fa delle tre possibili coalizioni è molto articolata, approfondita, ampia, quaranta densissime pagine. In estrema sintesi, le possibilità sono tre: libertà soffocata; libertà economicista; libertà politica. Non mi è chiaro se la sequenza prescelta dall’autore indichi il grado di probabilità del loro avvento. Quello che risulta chiarissimo leggendo ciascuna definizione è che l’autore non nasconde le sue preferenze dietro un velo di avalutatività. In materie come la libertà qualsiasi avalutatività ammonterebbe ad un riprovevole esercizio di ipocrisia.
Nel primo scenario “libertà soffocata”, i protagonisti sono, a tutto scapito dei cittadini, lo Stato e le grandi compagnie digitali oppure – fa una grande differenza – viceversa. Per la precisione, è lo Stato che ha aperto i cancelli dei suoi molti ministeri per accogliere quelle ricche, ma sempre fameliche compagnie? Oppure sono state quelle compagnie, attrezzate con competenze e risorse, a mangiarsi i pezzi più importanti e pregiati di quello Stato? Al proposito, tornerebbe utile la mia indicazione che non di Stato stiamo parlando, ma di governo (e del suo colore politico). Potremmo, allora, immaginare che l’opposizione cercherebbe di rompere la gabbia che soffoca la libertà dei cittadini. Questo è lo spazio della politica che sicuramente Giacomini apprezzerebbe, mentre, dal mio canto, per tutti e tre gli scenari avrei apprezzato esempi specifici e concreti.
In qualche modo i cittadini, ovvero una loro più o meno cospicua maggioranza, si interessano prevalentemente, se non quasi esclusivamente, al loro benessere materiale e sono giunti alla conclusione che una forte presenza delle grandi compagnie digitali e le loro molteplici attività garantiscono un buon livello di benessere. La debolezza dello Stato (dei partiti? della politica?) consente l’emergere e il formarsi di una coalizione dominante “cittadini-compagnie digitali” e, con le cautele e le varianti del caso, “viceversa”. La “libertà economicista”, afferma l’autore, «riguarda soprattutto le dimensioni individualistiche, commerciali, ludiche, produttive, mentre è estranea a più ampi aspetti etici, sociali e politici» (p. 150). Brutta faccenda. A meno che le compagnie digitali cessino per qualsiasi ragione o inconveniente le loro attività, la fuoruscita dalla situazione di libertà economicista appare quanto mai problematica.
Il terzo e ultimo scenario, quello della “libertà politica” (qui l’aggettivo mi pare riduttivo, perché non semplicemente “libertà” e poi ognuno sceglierà il suo ambito: cultura, religione, società?), fa la sua comparsa quando Stato e cittadini si alleano contro le compagnie. Con tutte le mie costanti riserve relative allo Stato, prendo atto che Giacomini afferma che «gli Stati e i cittadini sperimentano una sinergia capace di governare le compagnie private, garantendo che la sviluppo tecnologico rispetti [rifletta?] i valori e le finalità dei cittadini e dell’organizzazione statale di cui sono membri» (p. 161). Forse, non proprio i cittadini singoli, ma associati in gruppi, in partiti, tematica che varrebbe la pena approfondire. Qui non resisto alla tentazione di citare la soluzione individualista, segno dei tempi e di una concezione politica, proposta con plateale conflitto di interessi, da Marina Berlusconi, orgogliosa Presidente della Mondadori: «Riscoprire la forza lenta, ma costruttiva dei cari vecchi libri» (Il valore dei libri e lo strapotere delle Big Tech, Corriere della Sera, 19 ottobre 2025, pp. 1 e 26).
Circondato da una baraonda di scritti di tutti i tipi sull’erosione, svuotamento, scivolamento all’indietro e, last but not least, crisi della democrazia, mi sarei atteso dall’autore almeno alcune indicazioni su come mantenere e non perdere la libertà politica a fronte delle sicuramente persistenti e ricorrenti sfide delle compagnie digitali, nient’affatto rassegnate ad assistere al buon funzionamento della coalizione “Stato-cittadini”. Qui diventa possibile sostenere che i cittadini non solo riescono a godere della loro “libertà da”, vale a dire protetta dalle ingerenze/interferenze digitali, ma dispongono, se e quanto lo desiderano, della “libertà di”. Non soltanto non saranno manipolati, oppressi da bolle, incardinati in gruppi omogenei di conformismo oppressivo e repressivo, ma saranno in grado di partecipare in tutte le forme e tutte le modalità, sono molte, praticabili, anche assumendo impegni pubblici, alle cariche di rappresentanza e di governo. Vado troppo in là se dico che la cittadinanza riuscirebbe a “farsi Stato”? È un esito dal quale rifuggo nella maniera più radicale. La verità è che i cittadini fanno politica, ancora una volta, non per occupare lo Stato, ma per conquistare di volta in volta, temporaneamente, il governo con il potere di prendere decisioni vincolanti tutta la comunità.
Giacomini ha fatto un ottimo lavoro e scritto un libro di notevole interesse, attuale e proiettato nel futuro. Le mie notazioni critiche gli sono allegramente e, mi auguro, fecondamente debitrici. Nessun riassunto può rendere giustizia alla ricchezza di argomentazioni dell’autore. Sono argomentazioni talvolta allarmate, mai esagerate, meno che mai demonizzanti. Pertanto, mi permetto il lusso di concludere con una lunga frase ad effetto, seguendo un consiglio scherzoso e autoironico di Norberto Bobbio sulla opportunità di un “pistolotto” finale.
Mi viene in soccorso la celebre affermazione di Karl Marx nel libro Per la critica dell’economia politica (1859). «L’umanità non si propone se non quei problemi che può risolvere». Wikipedia commenta che la frase «significa che i problemi sorgono solo quando le condizioni materiali per la loro soluzione esistono già o sono in via di formazione». A me non resta che augurare che il testo di Gabriele Giacomini contribuisca, con le relativamente poche analisi valide già esistenti, alla maturazione di una pluralità di proposte e di risposte ai problemi creati e ricreati dalle grandi compagnie digitali. Auguri.