“La scienza politica in Aristotele” di Lorenzo Rustighi
- 22 Luglio 2025

“La scienza politica in Aristotele” di Lorenzo Rustighi

Recensione a: Lorenzo Rustighi, La scienza politica in Aristotele. Funzione, oggetto, metodo, Carocci, Roma 2025, pp. 184, 20 euro (scheda libro)

Scritto da Gian Marco Glisoni, Laura Rizzi

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La scienza politica in Aristotele di Lorenzo Rustighi, docente di filosofia politica presso l’Università degli Studi di Padova, affronta l’impostazione aristotelica della scienza politica ponendosi un obiettivo ambizioso: mettere in dialogo il pensiero dello Stagirita sullo statuto scientifico della prassi con i nodi teorici che si impongono nella riflessione attuale sulla metodologia delle scienze sociali, con particolare attenzione agli studi politologici. L’approccio epistemologico adottato cerca di rispondere all’insoddisfazione che sorge di fronte ai due problemi centrali, sul piano fondazionale, che affliggono il sapere politico contemporaneo. Da un lato, la polarizzazione tradizionale tra ricerca qualitativa e ricerca quantitativa; dall’altro, l’incapacità, da parte della disciplina, di istituirsi come scienza autonoma dotata di propri strumenti e determinazioni concettuali.

L’originalità di questo tentativo consiste nel significato teoretico che viene attributo all’utilizzo del dispositivo offerto da Aristotele. Lungi dall’essere impiegato per una critica alle strutture della scientificità moderna, il filosofo greco si rivela, tuttavia, tanto più significativo quanto più il suo pensiero risulta inattuale. L’ipotesi che guida il lavoro di Rustighi può apparire, in prima battuta, controintuitiva. L’inattualità di Aristotele rispetto al paradigma delle scienze sociali – e in particolare della scienza politica – impedisce, infatti, di ricorrere al passato per risolvere le impasse del presente. In forza di una prospettiva storico-concettuale che assume in pieno la distanza che ci separa dallo Stagirita, questo testo riesce a mostrare la rilevanza di riflettere sulla paradossale novità di Aristotele rispetto al nostro modo di considerare, studiare e indagare la politica. L’autore sostiene che la teoria politica radicata nel contrattualismo moderno – di cui assume l’intrinseca aporeticità sulla scorta dei lavori del Gruppo di Ricerca Padovano sui concetti politici – delimiti ancora, più o meno consapevolmente, l’ambito entro cui sono concepite le scienze politico-sociali. Pertanto, lo studio del pensiero aristotelico, seguendo un percorso di comprensione della prassi radicalmente alternativo, permette di evidenziare un orizzonte differente in cui si è prodotto uno sforzo di interrogazione della politica come oggetto scientifico. Con le parole dell’autore: «Lo Stagirita ci aiuta in questo senso a vedere come, dinnanzi al fallimento del sapere politico contemporaneo e dunque all’assenza di concetti scientifici per la politica, non occorra uscire dalla scientificità, ma piuttosto entrarvi in altro modo» (p. 10).

L’obiettivo del libro, infatti, non è quello di fornire una ricostruzione storico-filologica dei testi che compongono la scienza pratica di Aristotele, quanto di intraprendere un’indagine epistemologica volta a illuminare le categorie attraverso cui Aristotele organizza la sua riflessione sulla singolarità della scienza politica come scienza pratica architettonica. Il rimando al dominio scientifico di tipo pratico, secondo Rustighi, è di importanza cruciale nell’economia della trattazione. Non si può, infatti, sorvolare sul fatto che proprio l’idea di una scienza pratica è divenuta impossibile – in quanto mancano le condizioni concettuali per la sua pensabilità – a partire dalla rottura moderna con la classificazione tripartita delle tipologie di scienza (teoretica, pratica, poietica), ciascuna delle quali dotata di proprie procedure epistemiche interne e, dunque, irriducibile alle altre. L’istanza pluralistica che caratterizza il modello della scientificità aristotelico è ciò che la modernità ha progressivamente rimosso in nome di un’unificazione dei saperi centrata sulla riconduzione ad un solo paradigma epistemologico, valido per ogni disciplina, e calibrato sulla definizione del piano empirico come momento fondativo di ogni discorso che rivendichi un assetto scientifico.

Rustighi tenta di individuare nelle contraddizioni inerenti al campo metodologico delle scienze sociali la riemersione sintomatica di un aspetto con cui sembrerebbe necessario fare i conti, ovvero la costituzione eterogenea della scienza. In altri termini, il riferimento ad Aristotele consente di astrarre dalla scelta tra un indirizzo quantitativo o un indirizzo qualitativo – distinzione nella quale riverbera la contrapposizione tra approccio empirico-descrittivo e approccio normativo – in quanto esse sono espressione del medesimo problema, quello cioè di ignorare la singolarità della politica come oggetto di riflessione scientifica, generalizzando la sua struttura per conformarla a quella delle cosiddette hard science.

Una delle linee di interrogazione più efficaci di questo libro si colloca in relazione ad una tesi avanzata nell’Introduzione. Contrariamente alle letture tradizionali che intendono le Etiche aristoteliche come una ricerca distinta da quella della Politica – segnalando una differenziazione tra riflessione etico-morale e riflessione propriamente politica – Rustighi sostiene che in Aristotele, a rigore, non può trovare spazio alcuna etica. Questa tesi, solo apparentemente provocatoria, rispecchia in realtà le coordinate di fondo entro cui può essere inquadrata la ricerca dell’autore. Il correlato argomentativo essenziale di questa posizione è che le opere di Etica siano comprensibili solo in relazione alla Politica e siano dunque espressione di un lavoro scientificamente unitario. Si tratta, cioè, di mostrare, in primo luogo, che è possibile restituire il senso specifico di un’indagine sull’etica, ovvero sulle cose riguardanti gli ethe – i caratteri intesi come stati abituali del desiderio –, solo nel momento in cui essa venga compresa entro le strutture politico-costituzionali della polis. In secondo luogo, si assiste ad un’interpretazione della scienza politica come quell’ambito epistemico nel quale può essere compiuta una ricerca complessiva sulla felicità, riconosciuta come il fine pratico più alto, cui gli scopi pratici particolari tendono. Se, dunque, la scienza politica prende forma a partire dalla domanda sulla felicità, per quale ragione l’autore individua nella costituzione l’oggetto scientificamente determinato della scienza politica, da cui la definizione di essa quale scienza costituzionale? Relativamente a questo punto occorre seguire la disamina delle categorie di causalità, finalità e principio che permettono di fare chiarezza sulla portata della scienza politica rispetto al rapporto complesso che si instaura tra felicità e costituzione politica.

La lettura fornita da Rustighi è tesa a sottolineare come il problema della felicità, non definibile a priori se non come ciò che è relativo alla capacità umana di agire secondo il meglio, trovi la propria posizione in sede scientifica nel più ampio contesto della riflessione sul buon ordinamento costituzionale della comunità. È solo in uno spazio politicamente organizzato, composto secondo una taxis (“ordine”) orientata alla configurazione dei rapporti sociali e istituzionali, che i singoli rinvengono le condizioni necessarie alla contrazione di abitudini specifiche. Il concetto di abitudine, ripreso in modo eterogeneo nella teoria politica degli ultimi anni (Butler, Malabou, MacIntyre), per Rustighi si rivela un riferimento cardinale nella lettura dello Stagirita. La logica implicata nella scienza della prassi prevede la tematizzazione dell’abitudine virtuosa quale momento irrinunciabile per la comprensione della felicità, la cui realizzazione non dipende da altro se non dallo sviluppo di stati abituali “qualificati”.

L’oggetto d’indagine proprio della scienza politica non risulterà, come detto, essere direttamente la felicità, che appare piuttosto come causa finale – il “ciò in vista di cui” – della riflessione pratica di questo sapere. È bene ricordare che esso possiede certo una funzione conoscitiva, ma avanza la pretesa di produrre effetti sulla realtà. Per questo motivo l’indagine si rivolgerà in primis verso le cause della felicità, ovvero verso la virtù, che rappresenta propriamente una dimensione qualitativa dell’agire umano (o del carattere). Si tratterà poi, come scrive Rustighi, «di ricercare “il ciò da cui” si genera un certo abito, quello del carattere, e di comprenderne pertanto il processo generativo, il quale sarà a tutti gli effetti l’oggetto scientifico proprio di questo tipo di scienza. L’attenzione, quindi, deve essere spostata dalla generazione della felicità alla generazione della virtù» (p. 111).

Se la generazione della virtù richiede la ripetizione di atti virtuosi e se gli atti virtuosi sono tali in quanto finalizzati ad uno scopo buono, potrebbe sembrare che solo un uomo naturalmente predisposto alla virtù possa realizzare la felicità. La cifra della scienza politica diventerebbe, in questo modo, il riconoscimento di una necessità immanente alla natura del vivente umano, eliminando lo spazio per pensare la costruzione di quella “seconda natura” dell’uomo – che è animale politico – a cui le strutture etiche e comunitarie consentono di pervenire. Per uscire da questa contraddizione, dunque, Rustighi instaura un dialogo serrato con il ragionamento complessivo di Aristotele: è solo nella misura in cui gli scopi pratici dell’azione provengono dall’altro che ci sarà generazione di stati abituali qualificati in un certo modo. L’insistenza su questo punto da parte dell’autore è volta a sottolineare come la struttura della virtù non sia comprensibile al di là della dimensione sociale, in cui è l’altro, e precipuamente la prescrizione che fornisce, il principio di generazione dell’abitudine – eventualmente, dell’abitudine virtuosa. Il comando s’intende proprio secondo quest’ultima accezione, come “ciò che dà origine al movimento di qualcosa”. Occorrerà lavorare a sua volta sulla genesi di questo comando. Ciò significherà rivolgere lo sguardo alla taxis costituzionale poiché essa avrà a che fare, anzitutto, con l’organizzazione di quella parte della città deputata ad esercitare il comando sulle altre (politeuma). Sarà poi quest’ultima ad occuparsi di come impostare il rapporto che intercorre tra la molteplicità dei beni pratici perseguiti dalle diverse parti cittadine e il bene pratico più alto, la felicità della polis nella sua interezza.

La scienza politica si sviluppa attraverso il quesito sulla qualifica virtuosa che connoterebbe i governanti. Quale virtù compete a coloro che hanno accesso alle prestazioni di comando? La risposta aristotelica guarda alla saggezza (phronesis), ovvero ad una virtù propria della parte logistico-razionale dell’anima, capace di individuare il modo più opportuno per raggiungere scopi buoni, posti a loro volta da disposizioni abituali virtuose proprie invece della parte desiderativa dell’anima. Tuttavia, la scienza politica non si spinge oltre: non si prefigge l’obiettivo di illustrare concretamente chi siano, in questa o quella polis, gli uomini virtuosi, in modo tale da poterne ricavare apoditticamente una definizione applicabile a qualsiasi contesto cittadino. Non c’è, in altri termini, una deduzione necessaria di quali debbano essere le competenze logistiche dei governanti. Il discorso scientifico prende avvio da questo problema, ma trova il suo elemento di necessità nella designazione dello spazio istituzionale in cui si creano le condizioni affinché siano gli uomini migliori – ovvero gli uomini dotati di saggezza – ad accedere al comando politico, così che possano prescrivere azioni virtuose capaci di guidare i cittadini verso lo sviluppo di abiti altrettanto virtuosi. In questo senso il problema della taxis costituzionale, nota Rustighi, coincide con il problema politico del giusto ordine, nella misura in cui si occupa di stabilire i criteri di giustizia conformemente ai quali è possibile operare una distribuzione dei diversi beni in una specifica polis, con particolare attenzione a quelli che Aristotele chiama “onori” e che coincidono, di fatto, con le differenti cariche politiche.

L’interesse di Rustighi rispetto a questo ordine di questioni è suscitato dal problema scientifico dell’opposizione tra necessità e contingenza. Il gesto che viene valorizzato ha a che vedere proprio con la tematizzazione del sapere epistemico-politico come «un discorso necessario su una forma specifica di contingenza, quella di tipo politico, e sullo spazio in cui essa deve essere situata, quello della costituzione» (p.165). Secondo Aristotele, infatti, non è possibile stabilire nulla di necessario riguardo alla qualità dell’agire umano, poiché essa dipende, in ultima analisi, da un oggetto – l’eudaimonia – che risulta mutevole e costantemente sovradeterminato dalle diverse parti della cittadinanza, ciascuna delle quali persegue fini irriducibilmente singolari attraverso le proprie attività. Il pericolo di uno scontro caotico tra fini pratici divergenti è ridimensionato, in un “ordinamento migliore” – che Aristotele chiama “ariste politeia” –, dalla funzione di governo esercitata dal politeuma, il cui compito costituzionale risiede nella mediazione in vista di una loro organizzazione unitaria. L’unità politica non è perciò prodotta da una riflessione scientifica che procede dimostrativamente, ma da una virtù, il cui piano di collocazione non è l’episteme ma la dimensione pratica dell’agire e della scelta.

Proprio questa distinzione permette di non cadere nel rischio di far collassare il piano necessario e apodittico della scienza su quello contingente della phronesis. Si è sovente incappati nell’interpretare erroneamente la scienza politica aristotelica come una teoria normativa tale da essere in grado di prescrivere una serie di azioni virtuose da attuare per poter essere felici, sulla scorta della dicotomia tutta contemporanea che oppone un sapere della politica empirico-descrittivo alla teoria politica normativo-prescrittiva. Nel primo caso, il ragionamento fronetico verrebbe ridotto ad episteme, la quale in questo modo legittimamente occuperebbe il posto del governo nella città, eliminando così tutta la problematizzazione precedentemente esposta circa la specificità del bene pratico più alto che in questo orizzonte svolge il ruolo di telos: il disaccordo insito nella felicità verrebbe neutralizzato da un ragionamento dimostrativo che esplicherebbe, secondo una procedura apodittica, i protocolli dell’azione di comando. Si configurerebbe, per molti aspetti, una “scienza del governo” tale da istruire secondo necessità il politeuma sulle decisioni da prendere. A questo punto, ogni confronto politico con le parti governate della città diventerebbe del tutto superfluo. Come mette chiaramente in luce Rustighi, una siffatta scienza elaborerebbe, in primo luogo, una definizione univoca di felicità e poi, in forza di essa, arriverebbe a dimostrare la giustizia: in altre parole sarebbe in grado di definire un unico modo giusto di ordinare i differenti beni pratici perseguiti da ciascuna parte cittadina alla luce di quella definizione di felicità posta in anticipo. Così facendo, si elide non solo la specificità della struttura contingente della felicità, ma anche la contingenza stessa della deliberazione politica che, come abbiamo visto, non per questo sfugge a una possibile comprensione epistemica. Non bisogna infatti confondere l’aspetto della riflessione scientifica, ovvero il pensiero epistemico-pratico, con il piano dell’agire pratico: la scienza politica non dà luogo ad una prassi in grado di superare una volta per tutte la conflittualità immanente alla determinazione del bene politico. La sua funzione in quanto scienza costituzionale è piuttosto quella di costruire il contesto pratico dove la discussione sul bene e la felicità possa istituirsi, senza presupporre l’esistenza di un bene dotato di un contenuto indipendente rispetto al processo politico della polis.

In conclusione, occorre sottolineare come l’insoddisfazione nei confronti dello statuto della scienza politica contemporanea non possa strutturalmente trovare in questo volume una soluzione definitiva, ma una prospettiva capace di riattivare, per usare le parole di Gaston Bachelard, il “senso del problema”. Aristotele offre una serie di categorie attraverso le quali è possibile porre in questione alcuni punti fermi tendenzialmente assunti come presupposti irremovibili dai paradigmi teorici che operano nelle democrazie liberali, rilanciando al contempo l’esigenza di scientificità – ovvero resistendo alla tentazione “filosofica” di chiudersi in una posizione critica nei confronti della scienza tout court – per tematizzare la questione dell’attuale assenza di un sapere rigoroso che investa la dimensione politica. Lorenzo Rustighi mostra le complesse procedure con cui Aristotele tenta di elaborare, definire, strutturare le coordinate per produrre un impianto teorico adeguato all’oggetto che pretende di conoscere e su cui ambisce a produrre effetti pratici, senza però far collassare il piano della conoscenza su quello dell’azione o viceversa. Quindi, la sollecitazione che questo testo rivolge alla ricerca contemporanea nel campo politologico non sarà certo quella di compiere un ritorno all’aristotelismo, che avrebbe un significato puramente ideologico, ma di giustificare l’ambizione alla scientificità di questo sapere e porla in tensione con la necessità di impegnarsi in un lavoro di concettualizzazione autonomo, all’altezza della singolarità e della complessità del suo oggetto. Quest’ultimo aspetto, però, ha una precondizione fondamentale: evitare generalizzazioni ed estensioni non sorvegliate di concetti presi in prestito da altri saperi. La centralità del disaccordo politico interno alla comunità e il problema della giusta organizzazione delle relazioni di comando e governo sono elementi caratterizzanti l’esposizione della struttura del rapporto politico nel pensiero di Aristotele. Ricalibrare su questi aspetti l’esercizio della riflessione scientifica sulla politica non significa in alcun modo affermare una superficiale e ingenua “riscoperta” di una qualche presunta attualità dello Stagirita. Piuttosto, significa rendere conto del fatto che con Aristotele si assiste al dispiegamento di una ricerca scientifica autonoma attorno ad un fenomeno complesso e, questo sì, ancora del tutto attuale, ovvero lo stare assieme degli uomini politicamente, in un contesto sociale e istituzionale la cui unità e il cui ordine non sono dati aprioristicamente ma sempre esposti ad una possibile problematizzazione.

Scritto da
Gian Marco Glisoni

Ha conseguito la laurea triennale in filosofia nel 2024 all’Università di Padova dove è ora iscritto al corso magistrale. Il suo interesse di ricerca riguarda la psicoanalisi e la storia dei concetti politici e sociali moderni. Nel 2024 ha partecipato al corso di formazione “Traiettorie. Scuola di lettura del presente”.

Scritto da
Laura Rizzi

Ha conseguito la laurea triennale in filosofia all’Università di Padova con una tesi sulla “Politica” di Aristotele. Iscritta in magistrale nello stesso ateneo, il suo interesse di studio riguarda la storia dei concetti politici e il pensiero femminista contemporaneo.

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