La sinistra e la comunità
- 20 Maggio 2015

La sinistra e la comunità

Scritto da Giuseppe Carlino

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Chi oggi avesse l’intenzione di avviare un’esperienza politica in seno all’area della sinistra democratica o socialista in linea di massima si troverebbe dinanzi a un bivio: da un lato il Partito Democratico, ampio e ramificato, poliedrico, di governo ed effettivamente al governo, figlio della sua lunga tradizione e dunque, oggi, coerentemente “liquido”; dall’altro le forze della sinistra cd. radicale, divise in un meraviglioso caleidoscopio di soggetti (più o) meno significativi che coprono tutte le varie declinazioni dell’impegno politico – da quello meramente civico a quello più arditamente rivoluzionario. Universo, per inciso, che in queste ore viene, così com’è, chiamato a raccolta dall’iniziativa del Segretario della FIOM Maurizio Landini.

Tempo addietro eravamo presi con un compagno in un’intensa discussione sui temi della politica estera, interna ed economica dei nostri giorni. Eravamo in un circolo del PD, il quale proprio grazie a tali spazi – i famigerati “spazi” della politica – rende possibile il confronto; un confronto “rassegnato”, se vogliamo, ma perlomeno “in compagnia”. Il mio interlocutore, militante fedele da tempo, era assai rammaricato per quanto sia difficile affrontare quei discorsi in maniera sistematica e formativa, proprio in quegli spazi che pure sono disponibili; di quanto sarebbe bello rivolgersi soprattutto alle giovani leve, che escono dal liceo e ci mettono un attimo “ad essere avviluppate non dalla passione per le tematiche ma dalle logiche correntizie” – mi diceva. E pensare che pure i temi – e le contraddizioni sistemiche di cui si sostanziano – sono, oggi, così potenti, appassionanti, urgenti, evidenti.

“Le comunità politiche non si basano sulle regole, bensì sui miti fondativi”, sosteneva un altro compagno, sempre del PD, questa volta sulla piazza virtuale di Facebook; un piazza, al contrario di quel che si dice, caratterizzata anch’essa da propri confini e determinazioni, da un proprio dominio di senso, frutto delle proprie amicizie, delle proprie scelte in termini di “mipiace” rielaborate poi dal misterico logaritmo di Palo Alto. “Comunità” e “mito”, dunque: due concetti quanto mai sospetti presso gli ambienti “de sinistra”, soprattutto quelli più de sinistra del PD. “Comunità” che, contrapposto a “collettivo”, sembra emergere da un immaginario di destra; e “mito fondativo”, che in un attimo rimanda a J. R. R. Tolkien, anche lui oramai acquisito al recinto del pensiero conservatore italiano; in un attimo rimanda a un retrivo irrazionalismo, e al rigetto dell’apertura illuminata alle “magnifiche sorti e progressive” del nostro presente. Un presente che nel frattempo s’è fatto dilatato, perdendo ogni collocazione temporale e facendo perdere ogni lascito tradizionale politico, ogni politica protrazione finale.

D’altro canto da un lato il PD e SEL – coprendo dunque buona parte del, per dir così, popolo della sinistra – hanno dato vita nel recente passato ad elezioni primarie che, soprattutto per il PD, sono veri e propri principi logici fondativi dell’intero soggetto politico: il partito, dismessa la propria storia e la narrazione di questa – dunque il proprio mito – dismette il proprio status di camera di compensazione, a metà tra popolo e stato, e rinunzia alla sua condizione di “moderno principe” (Gramsci) che incarnava in quanto spazio confinato di complessa elaborazione della rappresentanza di “parte”, mirante tuttavia a divenir “tutto” (da cui l’anima totalitaria di ogni partito, vd. Michels e Ferri ma anche, su tutti, Rousseau); diventa invece parte integrante dell’”industria culturale” (Adorno), soggetto e oggetto di una narrazione prêt-à-porter manipolabile alla bisogna, secondo i duttili meccanismi dello story-telling; abiura al proprio ruolo-guida di strutturazione del consenso, divenendo partito di opinione, opinione della quale è passiva vittima, ratificatore del voto espresso da un elettorato informe, in seno ad informi consultazioni di partito. Si noti: la degenerazione del tessuto politico e la delegittimazione dei corpi istituzionali che derivano da tale assetto comportano una concentrazione della dialettica pubblica sul fenomeno elettorale delle primarie, che si presta benissimo a esser sfavillante meccanismo di controllo politico-mediatico: dinanzi alle primarie le elezioni politiche vere e proprie – sorde e grigie – diventano sinistramente “secondarie” – difatti sempre meno in voga, sia perché evitate politicamente in vari e altrettanto sinistri modi, sia perché addirittura eliminate dall’ordinamento (vedi il caso della province e dell’annunciato Senato riformato). Il partito al governo e soprattutto il leader che esso esprime affondano il proprio consenso politico-mediatico nelle proprie stesse elezioni di partito: così che sotto le spoglie di una festosa kermesse democratica condotta a colpi di pantheon, conti alla rovescia nel dare la propria risposta, e fini disquisizioni sul colore della cravatta indossata, sembra proprio che quell’anima totalitaria del partito sia stata finalmente e paradossalmente riconosciuta e sdoganata. O si vuol forse pensare che dietro le apparenze pop non si celino comunque gli interessi, le miserie dei cittadini, l’”immane concretezza” (Forti) del potere?

La politica, perlomeno quella che “conta”, ha così perso il proprio principio di legittimità: il “liberalismo realizzato” ha finalmente campito la tela della potenza dell’individuo, che si pensa come “uomo senza debiti né fini”, puro “effetto senza causa né scopo” (Manent), come il sistema post-democratico (Crouch) in cui si inserisce. Assai problematico è però che la stessa sorte sia toccata anche al cittadino, politicamente deprivato di senso.

Questi potrà quindi decidere di orientarsi altrove, alla sinistra radicale già richiamata: realtà melliflua, si dirà non appena ci si getti un occhio, e tuttavia magari da costruirsi. Si può infatti pensare che i grandi deficit strutturali dell’area siano figli banalmente del disimpegno di un popolo che non eccelle per virtù civiche; o che, perlomeno e con un pizzico di sana superbia, possano essere lì scovati i germi di un’esigenza comunitaria magari ancora inconsapevole, da far emergere e valorizzare a maggior gloria della politica e del vissuto di chi vi si dedica. Così che il cittadino di cui sopra è mosso a responsabilità e sente il dovere di dedicarsi in prima persona alla costruzione di un nuovo tessuto politico.
Eppure, malauguratamente, ci si accorge in breve tempo che è proprio qui che allignano le metastasi più virulente del tumore; che nonostante la buona volontà di “tanti” (sic!) militanti è proprio nei loro postulati di partenza che risiede la più conclamata sconfitta. Alla ricerca di un’esperienza politica che non si risolva nello spregio inutile del mio voto di militante o “simpatizzante” – poco cambia – a sostegno di questo o quel leader indignitosamente manlevato dai media, non trovo nulla che sia lontanamente riconducibile alla “messa in comune di azioni e pensieri” (Aristotele) di una comunità umana e politica. Non lo trovo e resto intimamente avvilito: una congerie infinita di soggetti e soggettini, movimenti, associazioni, comitati e collettivi, ciascuno con un focus più puntuale e insignificante dell’altro; una galassia entropica di realtà che dà sfogo alle nobilissime istanze di giustizia di quel malversato popolo della sinistra, e le condanna tutte all’insipienza, all’irrilevanza, alla labirintica e mortifera autoreferenzialità. Ancor prima che il gravissimo deficit comunicativo e comunitario – che sussiste proprio in quanto non è colto come problema – il giovane che si avvicinasse va ad impattare contro la solidissima ragnatela delle relazioni reciproche che intessono questa galassia – e che sopraggiungono diabolicamente ad occultare il vuoto comunitario appena richiamato. In che senso? Nel senso che, innanzitutto, il nostro giovane cittadino di sinistra osserverà innanzi a sé una insormontabile barriera all’ingresso, costituita dalla trama infinita di scissioni, ricongiungimenti, cantieri, fabbriche, orgogli, vendette e rivendicazioni reciproche, non conoscibili e padroneggiabili se non dietro attento studio; e subito dopo si renderà conto, sol che assista a una riunione del gruppettino prescelto, di quanto l’elaborazione politica e comunitaria sia nulla perché più che sufficientemente sostituita dall’estenuante amministrazione dei rapporti con le restanti comparse sul palcoscenico. Sembra proprio che financo da queste parti, nonostante la suggestività e l’urgenza delle questioni, e come se non bastassero l’assoluta irrilevanza politico-elettorale, l’epica trafila di sconfitte che si inanellano da anni, ebbene financo da queste parti sembra che non si sia capaci di “passioni istituenti, né di istinto politico”, non si sente più “il problema del popolo, non si comprende la domanda di associazione umana – quale riconoscimento? – che questo reca in sé” (De Ligio). Il panorama di una “democrazia senza popolo”, di un kratos senza demos è così completo; lo è almeno da parte progressista, laddove s’intenda la democrazia non (solo) come un metodo ma come un fine che “la stragrande maggioranza” deve conquistare “nell’interesse della stragrande maggioranza” (Marx, Engels): solo così “la democrazia vince” (molto interessante l’abuso che di questo concetto marxiano viene fatto da ogni attore della nostra scena, all’esito di qualsiasi competizione pseudo-politica, o giudiziaria).

E invece no: la lezione marxiana di organizzare un soggetto unitario attorno a cui coalizzare lo scontento delle altre classi, un soggetto che “non rivendichi alcun diritto particolare perché il torto compiuto contro di esso non è un torto particolare, ma il torto in quanto tale” è del tutto aliena all’(appagante?) orizzontalismo della sinistra italiana. Una piana livella – metafora con cui Totò si riferiva alla morte – sembra scorrere sul capo di tutti questi soggetti: si dischiude ai nostri occhi un orizzonte piano, una eudemonica confusione tra il mare della politica e il cielo del potere. Nessuno detta la linea, il confine esiziale del politico tra amico e nemico (Schmitt): come quando “Il nemico era intorno ma anche dentro (…) e non si distingueva una frontiera ma molte e confuse”, scriveva P. Levi ne I sommersi e i salvati, descrivendo il lager concentrazionario. Non sembri esagerato, ché il capitale neoliberale è sommamente subdolo: se Marx avvertiva che è “l’esistenza sociale degli uomini che determina la loro coscienza”, il capitalismo finanziario è riuscito invece a ri-creare la domanda – esauritasi per saturazione al termine del cd. trentennio glorioso (Civino) – e dunque a ri-creare artificialmente i desideri stessi dei singoli. “Conviene diffidare di tutto ciò che è leggero e spensierato, di tutto ciò che si lascia andare e implica indulgenza verso la strapotenza dell’esistente” (Adorno): solo così ci si accorge che, oggi, sono le coscienze che, con una perversa illusione di libertà, determinano la loro esistenza sociale; la quale, in realtà, è del tutto eterodiretta, sebbene acefalicamente. Il potere, insomma, oggi siamo noi, tutti e indistintamente: “imprenditori di noi stessi”, come si suol dire, constatiamo la nostra pura impotenza, e ci dimeniamo tra le spire dell’”Antisovrano” (Luciani).

Che fare? Occorre evidentemente ridare una testa e una forma al potere: tanto quello contro cui lottare, quanto quello di cui farci forti. Il modo migliore per farlo, il più umano, il più resistente alle insidie delle ostilità che ci riserviamo l’un con l’altro muove da una complessa e soprattutto condivisa risposta alla seguente domanda: “Chi può vivere in un mondo umano privo di forma?” (Manent). Rispondere politicamente condurrà a “decidere una frontiera, ossia tradurre politicamente una decisione sostanziale su di sé, sulla natura del corpo politico. La plausibilità e la ragionevolezza dell’una – la determinazione politica – è sospesa alla possibilità dell’altra – l’interrogazione sulla verità dell’uomo” (De Ligio). Allora occorrerà che la politica torni a dialogare con la filosofia, sapere “anti-empirico per principio” (La Stella); che i singoli soggetti, tutti di per sé legittimi, dialoghino pure fra loro ma in vista di un fine superiore – la cui mancata identificazione si avverte oggi con dolorosissima evidenza. Questo comporterà il superamento dell’immanentismo orizzontalistico politicamente passivo, per il quale la libertà è lasciar essere ai soggetti quello che sono, secondo una marca che oggi è schiettamente (non liberale ma) neoliberale e in cui macera di certo la non-sinistra radicale italiana (e non solo); e comporterà di converso il recupero di quella “tradizione critica della libertà, mirante, al contrario, alla costruzione collettiva di un’idea di giustizia da cui far discendere le politiche di cambiamento dello scenario sistemico” (Civino).

Le comunità e non direttamente i singoli hanno da essere i protagonisti di questa “costruzione collettiva”: gli individui isolati – ché questo sono; essendo visionario, nel mondo globale e deprivato della nazionalità, qualificarli qui tales come cittadini del mondo (perché non dell’Universo, allora?) – solo così saranno uomini politici e attori partecipi di un vero “universalismo delle differenze” (Marramao). Esso ha di peculiare che fa i conti con il dissolvimento delle formazioni sociali, da quelle localistiche fino a quella statuale, per eccellenza; e si impegna a ricostruirle su basi innovative che aprano a un’autonoma ridefinizione della propria politicità. Nella comunità, dedita alla ardente ricostruzione di legami di fiducia e dunque di una propria omogeneità, “solo la nostra accanita e continua coscienza può permettere di frenare il potere” (Levi) che tanto si è insinuato nelle nostre coscienze, e così contribuire alla costruzione collettiva di un’idea di giustizia. La comunità è una necessità di difesa, quasi di catarsi dinanzi all’abbrutimento che ci coinvolge fin nei nostri corpi (Foucault). L’universalismo delle differenze si rivela così, solo così, un “universalismo concreto”, nel quale è superata la scissione dell’uomo contemporaneo tra “la tribù identitaria priva di articolazione universale e la specie umana senza esperienza della vera confusione tra il sé e l’altro – segnate entrambe, nella loro specularità inconsapevole, dal rifiuto dell’esistenza politica e dell’interrogazione su ciò che unisce davvero gli uomini” (De Ligio).

La comunità politica sarà – com’è già stata – camera di compensazione tra individuo e mondo; essa, però, sarà liberata stavolta da limitazioni territoriali predefinite. Queste ultime, per lungo tempo hanno coinciso con e hanno rappresentato all’esterno la estensione fisica dell’unità, dell’omogeneità politica presupposta dalla stessa legalità democratica: solo in tal modo “non si verificava una sopraffazione della minoranza, ma il voto serviva solo a far risaltare un accordo e una unanimità già esistente e presupposta, seppure in forma latente” (Schmitt, ma sulla stessa linea sebbene da ben diverso punto di vista anche Kelsen. Abbiamo, peraltro, già detto di Marx). Si evidenziavano così i presupposti politico-culturali perché fiorisse quella “credenza nella legalità” che fonda la legittimità razionale del potere (Weber). Venuta meno, com’è evidente, l’omogeneità politica delle comunità nazionali, d’un canto il potere statuale ha perso legittimità democratica e, inevitabilmente, si è richiuso oligarchicamente; dall’altro i “poteri costituenti” (La Stella) che ci si dischiudono costituiscono una straordinaria occasione di operare la trasformazione storica, che sia globale, pacifica, ecologica.

Nella comunità, infine, sarà il luogo elettivo di un’educazione con due finalità cardine e in tensione tra loro: “insegnarci innanzitutto ad abitare la caverna – è l’educazione al senso civico – e poi a uscire da essa – è l’educazione alla verità” (Jacquard, Manent, Renaut). Emerge qui il tema dell’educazione, innanzitutto, alla democrazia: altro tema caro ai padri più nobili dei nostri regimi (Kelsen), e oggi non a caso caduto in bassissima fortuna innanzitutto presso le forze radicali, così tronfie del proprio spontaneismo.

Nel percorrere questo cammino, si riscoprirà una sana sensibilità storica e anche un sano verticalismo di prospettiva (Civino): ciò accadrà nello svolgimento dell’attività di apprendimento, nel perseguimento di un fine più grande, da un lato, e nella riacquisizione di padronanza con la cd. “cassetta degli attrezzi” dall’altro; accadrà anche nella nuova tematizzazione del controllo sui fattori di produzione, da sottrarre al regime di mera mercificazione (Polanyi). Emergerà, dunque, essenziale, un punto di organizzazione della forza politica, che sia guida di questi sensazionali cambiamenti e sia giusta – non soltanto forte (Pascal) : esattamente questa fu la radicale novità delle forze socialiste tra l’Ottocento e il Novecento, da cui tanto abbiamo tratto nel corso della stagione socialdemocratica, e che oggi invece giace nella polvere, vilipesa, tra gli strali dell’opinione pubblica sempre più imbarbarita e i colpi micidiali del potere economico-finanziario, sempre più elitario ed ideologico. Nella costruzione di quest’armoniosa distensione tra individuo, comunità e collettività globale, “la soluzione del problema della forma organizzativa deve essere parte essenziale della soluzione del problema dell’analisi e viceversa” (Bottos): nella consapevolezza, invero, in tempi di neo-bonapartismo quali sono i nostri, che proprio questo e non altro ha reso possibile i progressi sociali che oggi vengono smantellati tra gli strepiti di forze inidonee a difenderli. Si pensi – poiché malauguratamente è opportuno farlo – alla conquista della giornata lavorativa di otto ore, un secolo fa: essa fu il successo di un’azione politica forte, formata dai e nei propri strumenti e protesa ardentemente verso un futuro diverso di cui si preconizzava il ribaltamento; essa, infine, si maturò in un atto di imperio del potere pubblico.

Il messaggio che si trae dalla tradizione politica socialista nonché dalla dottrina dello stato occidentale è che la dignità va agita, salvo che non si scelga la barbarie: a far prevalere l’una o l’altra, ci ricorda E. Hobsbawm, saremo noi uomini del XXI secolo.


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Scritto da
Giuseppe Carlino

25 anni. Laureando in Giurisprudenza all'Università Cattolica di Milano, con una tesi sul fondamento democratico dei reati di pericolo astratto. Scrive su varie riviste, occupandosi di attualità, politica e diritto costituzionale.

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