Scritto da Tommaso Brollo
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Thorstein Veblen (1857-1929) è spesso presentato come una feroce voce satirica della società, un personaggio eccentrico o una figura prominente di quello stile letterario tipico negli Stati Uniti di fine Ottocento1. L’ironica denuncia dei costumi, cui si accompagna l’introduzione nel vocabolario dell’epoca di espressioni quali “conspicuous consumption”, “invidious comparison” o “wasteful spending”, ha fatto sì che il suo opus magnum, The Theory of the Leisure Class, fosse visto più come un affresco sociologico dei mali della società dei consumi che per ciò che effettivamente è: un’attenta analisi di alcuni determinanti del comportamento economico dei suoi tempi. Nondimeno, il suo contributo alla scienza economica non è di poco conto, né è scevro da elementi di notevole originalità. Lo scopo di questo contributo è quello di ripercorrere innanzitutto la riflessione epistemologica dell’autore, evidenziandone poi le principali conseguenze in termini di teoria economica in generale. Ad una prima sezione dedicata alla metodologia adottata da Veblen seguirà una seconda volta a schematizzare la sua critica dell’economia neoclassica e la sua proposta istituzionalista. La terza sezione sarà dedicata all’esposizione della sua psicologia degli istinti e delle abitudini. Infine, si prenderà ad esame la sua teoria del credito, di particolare interesse per i contributi originali, che anticipano in molti rispetti la successiva elaborazione keynesiana. Una nota terminologica a chiusura di questa introduzione: in questo scritto sarà spesso usato, e già dal titolo, il termine “evoluzione”; questo ha, soprattutto nella parlata quotidiana, una certa aura teleologica. Veblen utilizza il concetto di evoluzione, come si vedrà, nel senso strettamente darwiniano di cambiamento, di selezione, di processo adattivo, senza alcun attributo forzatamente migliorativo o peggiorativo.
Metodologia
«To the modern scientist the phenomena of growth and change are the most obtrusive and most consequential facts observable in economic life»2. Per Veblen il cambiamento è l’explicandum della scienza economica e su questa dinamica concentra tutto il suo lavoro, sia teorico sia metodologico. La critica ch’egli muove all’economia neoclassica non si ferma alla scarsa plausibilità della sua concezione del comportamento umano, ma si concentra soprattutto sulla mancanza di un approccio evolutivo alla teoria economica3. Cosa intende Veblen per evoluzionismo? E in che senso la scienza economica non è affatto evoluzionista4?
«Any evolutionary science […] is a close knit body of theory. It is a theory of a process, of an unfolding sequence»5. Questo il carattere necessario di una scienza evoluzionista: dar conto della dinamica sottostante ai fenomeni che sono il suo oggetto. Tuttavia, questo carattere non è per nulla sufficiente. La dottrina classica della produzione, per esempio, è certamente un lavoro teorico completo e nitido e cerca di spiegare il processo di produzione nei termini di una relazione tra i suoi fattori con la tecnologia produttiva a disposizione. Il punto di distacco cruciale tra Veblen e l’economica classica, la condizione necessaria e sufficiente affinché una scienza si possa dire evoluzionista, si deve rintracciare nella sua riflessione filosofica.
Differenziandosi dai positivisti che plasmano il clima intellettuale di fine Ottocento, Veblen rileva la necessità (e l’inevitabilità) di alcune assunzioni ontologiche nel campo scientifico. Pone inoltre l’accento al tempo stesso sulla necessità di definire delle relazioni causali come oggetto precipuo dell’indagine scientifica. Chiaramente, una relazione causale non può che discendere da premesse di carattere metafisico; difatti, come insegna quella riflessione filosofica che da Hume arriva sino a Russell, essa non può essere accertata tramite la sola osservazione empirica. Così Gödel nel formulare il suo ben noto teorema dell’impossibilità. Una conoscenza sistematica dei fatti non può prescindere da una loro spiegazione in termini di causa ed effetto materiali6. Per Veblen dunque una scienza è evoluzionista quando la base di valutazione dei fatti presi in considerazione è la sequenza (o relazione) causale che si crede sussista tra loro; questo è l’oggetto di una scienza propriamente darwiniana.
Questa critica filosofica si fonda sul rifiuto del principio leibniziano di “ragion sufficiente” e di ogni dualismo tra causa efficiente e causa finale, riconducendo quest’ultima alla prima. Certamente, alcuni eventi sono il frutto di una riflessione deliberata da parte degli agenti umani e come tali possono trovare giustificazione, ma non per questo la spiegazione può essere completa in questi termini: la ragione umana stessa deve pur essere causata. Intenzioni, credenze: la ragion sufficiente gioca un ruolo preponderante nelle scelte umane, ma non si può lasciar inspiegate o incausate le intenzioni, le credenze, le abitudini, gli istinti. Veblen sostiene una causa unitiva e sposa una visione materialista, per cui tutte le cause sono da considerarsi efficienti in senso aristotelico. Una scienza in senso proprio deve riconoscere questo carattere: il dualismo è incompatibile con l’ontologia della scienza e ogni schema conoscitivo deve, in ultima analisi, fondarsi sulla relazione di causa ed effetto, ossia sulla causa efficiente, rifiutando ogni finalismo causale, ogni teleologia7. Indubbiamente, molte azioni umane hanno un fine o uno scopo, ma non per questo la scienza che si propone di studiarne i fondamenti deve basarsi su questi elementi intermedi del ragionamento8.
Veblen e l’economica neoclassica
Ora, perché l’economica neoclassica non sarebbe evoluzionista? Per Veblen, agli economisti ortodossi del suo tempo si possono imputare due colpe fondamentali. In primo luogo, la loro economica è stata costruita come costantemente in tensione verso un fine legittimato, ossia l’equilibrio generale e simultaneo di tutti i mercati9. Dando alla loro riflessione questo taglio teleologico, «any causal sequence which is apprehended to traverse the imputed propensity in events is a “disturbing factor”»10: ogni deviazione dallo schema proposto deve essere incorporata nello schema come una semplice eccezione alla regola, forzando la diversità negli angusti spazi dettati dalla legge in forma di deviazione. Il secondo peccato capitale è la totale ignoranza della dinamica e del processo nella loro analisi. Secondo Veblen, l’economica classica e neoclassica è una scienza tassonomica, cerimoniale, che si concentra sull’analisi statica11; di fatto, è un’ottima teoria della distribuzione sotto condizioni date, ma non può avventurarsi oltre12. È curioso notare come David Ricardo stesso avesse confinato l’economica proprio a questo ristretto ambito d’indagine, l’unico in cui si potesse sostenere delle affermazioni, a suo dire, scientifiche e incontrovertibili. Le assunzioni mantenute dalla teoria neoclassica sono sostanzialmente due: 1) una situazione istituzionale data, in particolare fondata sulla proprietà privata come diritto naturale; e 2) il calcolo “edonista”, ossia il concepire gli agenti economici come esseri perfettamente razionali, capaci di risolvere i problemi di ottimo di fronte ai quali sono posti senza alcun limite di natura computazionale o informativa13. Come tale, la teoria neoclassica è confinata nel campo della ragion sufficiente.
La critica di Veblen può essere relativamente mitigata notando come lui non metta in discussione tanto il lavoro degli economisti neoclassici, quanto sostenga che si pongano le domande sbagliate, che stiano spendendo il loro tempo in un’impresa vana14. Uno schema come quello marginalista non può analizzare il nodo cruciale di una scienza: il cambiamento. Ad ogni istante di tempo, l’economica neoclassica assume una situazione data e può concepire il cambiamento solo in termini di una reazione meccanica al variare delle condizioni date; quante patate mangerà Robinson Crusoe e quante pianterà al variare del parametro d’impazienza nei confronti del futuro? Per Veblen, invece, lo scopo della scienza economica è dar conto del processo di cambiamento cumulativo dell’uomo e delle comunità umane nel campo della vita materiale. Essendo la realtà fisica costante, o in ogni caso data, è l’agente umano che cambia, e quindi è il comportamento dell’uomo a dover essere oggetto di studio. La teoria neoclassica è fallace quando descrive la condotta umana solo in termini razionalisti e teleologici di calcolo e di scelta ottimizzante15. L’economica per Veblen non è una scienza della scelta, come sarebbe poi stata concepita da Robbins o Samuelson, ma un sapere pienamente sociale16; questa scienza umana concepisce il cambiamento economico come il frutto della relazione biiettiva tra le mutazioni della comunità economica, ossia delle istituzioni, e del singolo individuo che contribuisce a cambiarle e plasmarle17.
Istituzioni, istinti, abitudini
«The economic life history of any community is its life history in so far as it is shaped by men’s interests in the material means of life. […] Primarily, an not obviously, it has guided the formation, the cumulative growth, of that range of conventionalities and methods of life that are currently recognized as economic institutions»18. Per Veblen le istituzioni non sono enti organizzativi, governi o parlamenti. Le istituzioni sono abitudini consolidate di pensiero comuni alla comunità umana presa in considerazione19. In questa prospettiva, le istituzioni sono viste come schemi di pensiero stratificati nella storia dell’umanità, che vengono a formarsi attraverso l’interazione psicologica d’istinti e abitudini. La psicologia di Veblen è fondata su questi due ultimi concetti, che contribuiscono a definire una propensione innata di un individuo ad un determinato comportamento economico e sociale. Per Veblen, l’indagine istituzionale deve concentrarsi su questi determinanti psicologici al fine di capire come cambino le convenzioni e le abitudini umane, condizionate di certo dall’ambiente materiale, ma soprattutto dalle «innate and persistent propensities of human nature»20. In particolare, gli istinti sono trattati quasi alla stregua di tratti biologici ereditari comuni all’umanità intera, «irreducible traits»21; una nota in margine: queste propensità non sono tratti inconsci, il concetto vebleniano d’istinto è una categoria che coinvolge un certo grado di coscienza e degli scopi ben determinati22.
Ora, il processo psicologico che sottende alle decisioni (economiche) degli agenti vede il ruolo-chiave degli istinti come parte dell’attività intelligente di riflessione e deliberazione. Gli uomini riflettono, pensano, deliberano, e quindi le propensioni umane sono sicuramente mediate da un’attività intelligente, ma gli istinti innati nella specie umana giocano un ruolo non meno assoluto nel governare l’attività deliberativa, giacché presentano alla mente ciò che deve essere pensato e a che scopo23. Il ruolo degli istinti nella psicologia vebleniana è affine alla relazione tra la volontà e l’intelletto nei pensatori francescani medioevali, ed in particolare in Duns Scoto, per il quale la voluntas sceglie e dirige l’attività intellettuale, che invece è di un carattere analitico-ordinativo più che deliberativo24. Per Veblen, quindi, l’istinto è profondamente legato all’intelligenza e dunque alla deliberazione economica. Tuttavia, non è il solo determinante della scelta. Un ruolo fondamentale è svolto dall’abitudine. Questa è definita come un apparato di mezzi e idee disponibili al fine di perseguire uno scopo, qualsiasi esso sia; l’abitudine dipende dalla conoscenza a disposizione della comunità umana ed influenza la deliberazione rendendo le logiche della riflessione intelligente più estese ed elaborate, seppur non necessariamente sempre coscienti. Le abitudini sono sostanzialmente il fattore sociale della scelta, svolgono un ruolo che potremmo chiamare fenotipico, e dipendono dall’accumulazione storica delle generazioni passate25.
Veblen ritiene che gli istinti siano sostanzialmente tratti ereditari, fisiologici ed immutabili, mentre il comportamento istintuale invece non lo sia, perché cambiano le abitudini e le convenzioni sociali, che a loro volta influenzano variazioni nel comportamento degli individui. Il ruolo delle abitudini sembra pervasivo nella psicologia vebleniana, perché queste, anche quando riguardano un semplice comportamento, toccano e modificano tutti gli istinti interconnessi e sovrapposti tra loro che sottostanno ad esso. La diversità degli istinti e delle abitudini, la loro vaga determinazione, ne fanno le forze motrici della capacità di adattamento della specie in senso darwiniano26. Questi cambiamenti individuali e comunitari ad un tempo modificano lo schema istituzionale, inducendo a sua volta nuovi cambiamenti nelle abitudini di pensiero della comunità, istradandola infine verso nuovi principi di condotta. Il patrimonio istintivo di base lavorerà quindi in modo diverso per contribuire alla sopravvivenza della specie27. «The ways and means, material and immaterial by which the native proclivities work out their ends, therefore, are forever in process of change, being conditioned by the changes cumulatively going forward in the institutional fabric of habitual elements that governs the scheme of life»28.
A conclusione di questa riflessione sulla psicologia vebleniana si può rilevare come egli avesse assunto le predisposizioni ereditarie e l’abitudine come precedenti la deliberazione razionale. È opportuno rilevare come questo non renda la scelta o il ruolo dell’intelletto meno importante, bensì ne qualifica i limiti, i modi della scelta, i processi cognitivi adottati. In questa sua analisi Veblen si scontra con la definizione di homo oeconomicus che costituisce la base del pensiero neoclassico, mentre è in sintonia con una buona parte della psicologia contemporanea29; inoltre, si può trovare traccia della nozione di razionalità limitata e dei processi cognitivi euristici teorizzati più tardi da Herbert Simon (1955, 1956) e raffinati dalla Carnegie School30. Il punto fondamentale sostenuto da Simon è la mancanza di realismo psicologico nell’assunzione dell’ottimizzazione vincolata. Difatti, l’ottimizzazione è spesso impossibile in molte situazioni naturali, in particolare quando il tempo è scarso e il problema è poco familiare; inoltre, non sempre l’ottimizzazione comporta un risultato ottimale: mentre la prima è un processo matematico che parte da assunzioni sul mondo per essere portato a termine, il secondo dipende dalla situazione del mondo reale, che potrebbe non essere compatibile con i postulati alla base del calcolo. Come rilevano Gigerenzer e Selten, la razionalità limitata è da intendersi come un processo ecologico ed adattivo di strumenti per effettuare delle deliberazioni in un determinato contesto sociale; non vi sono esseri umani scadenti, che vengono tristemente meno agli assunti della teoria razionalista, ma degli agenti complessi che sfruttano processi euristici frutto di adattamenti sociali all’ambiente circostante al fine di raggiungere risultati soddisfacenti31.
Un esempio della psicologia e della metodologia vebleniana all’opera si può trovare nel suo opus magnum: The Theory of the Leisure Class32. In quest’opera Veblen deriva una delle determinanti del consumo dall’evoluzione storica di un tratto istituzionale, ossia il confronto invidioso tra membri della stessa comunità umana sulla base di una comparazione pecuniaria. Questo confronto per la reputazione e la rilevanza sociale, quando non può più consistere nella rapina violenta, nel tenere una quantità di uomini in condizioni di schiavitù o nel meritato riposo del guerriero (o l’otium cum dignitate degli antichi), prende le forme di quella che Veblen chiama, con sottile ironia, “conspicuous consumption”, il consumo appariscente. Questo consumo non fa riferimento alle necessità della vita, ma è frutto di una serie di norme sociali di comportamento che, data la valutazione pecuniaria come metro di un uomo, mutano secondo i diversi stadi organizzativi della società, senza perdere il fine essenziale, ma cambiando via via i connotati. Così, ai valletti in livrea e ai banchetti trimalcionici dei feudatari medioevali si sostituiscono le vacanze dei ricchi borghesi della fine dell’Ottocento, ai castelli (con la loro funzione anche politico-difensiva, non strettamente di comparazione sociale) delle dimore sempre più spaziose e finemente arredate, agli arazzi di Bayeux le boiserie in teak e le grandi biblioteche di rappresentanza di Hampton Court. Nello scrivere, Veblen ha in mente il caso preciso degli Stati Uniti d’inizio Novecento, della crescita di New York, delle prime dinastie borghesi a Long Island: è l’America che sarà poi immortalata da Fitzgerald nelle pagine de The Great Gatsby. In questo contesto, «the only practicable means of impressing one’s pecuniary ability on these unsympathetic observers of one’s everyday life is an unremitting demonstration of ability to pay»33. Questa spesa abituale è per Veblen uno spreco di risorse altrimenti destinabili alla produzione industriale; essa è spreco fintanto che le sue determinanti ultime possono essere individuate nel confronto pecuniario invidioso, ossia se quella spesa sia o meno prescrittiva e abituale senza l’entrata in campo del principio della reputazione pecuniaria. Come questo caso possa colpire l’economia nel suo complesso ed essere inserito nello schema generale dei rapporti economici, oltre che come fattore sociale delle scelte di consumo, Veblen lo accenna poco dopo, facendo riferimento ai risparmi. Confrontando il tasso di risparmio dei contadini e degli artigiani che risiedono in città, a parità di reddito, rileva come per i secondi il risparmio non sia altro che un ostacolo alla capacità di dimostrare la propria posizione reddituale in una città anonima, mentre per i primi, che vivono in una comunità ove ciascuno conosce lo status dei suoi vicini, non vi è un tale incentivo al consumo appariscente. La città quindi, e la vita cittadina, alzano lo standard della spesa minima considerata socialmente decente, ed è evidente quanto la deterrenza del risparmio dipenda da motivazioni sociali prima di ogni considerazione strettamente “economica” nel senso classico.
Una teoria del credito
Come è già stato sottolineato precedentemente, la crescita e i cambiamenti delle istituzioni sono un risultato dell’azione dei singoli membri del gruppo e, attraverso le predisposizioni (istinti, abitudini) di questi individui, le istituzioni sorgono e scompaiono; inoltre, proprio attraverso le stesse predisposizioni le istituzioni dirigono e definiscono gli scopi e i mezzi della condotta individuale34. Come questo elemento si ritrova nel concetto del consumo appariscente, così accade nel caso della proprietà privata. I classici assumono la proprietà privata come data, finita ed immutabile e ne perdono così il carattere specificatamente storico; inoltre, nonostante sia la pietra angolare della loro teoria, questa non la chiama in causa a definire in qualsivoglia modo la condotta degli agenti economici35. In questi passaggi Veblen dialoga con la teoria marxiana e con i principi del materialismo storico, che mostra di conoscere approfonditamente36. La proprietà privata è in realtà un’istituzione storicamente determinata che plasma il capitalismo moderno; è innanzitutto un’istituzione pecuniaria. Come tale induce comportamenti che influenzano la scelta individuale non limitatamente a questo campo, come abbiamo visto nel caso del consumo appariscente: una persona abbiente gode di miglior reputazione di un individuo più povero, a parità di aspetto fisico, capacità intellettuali, sagacia.
Nel campo del credito la situazione non varia. Per i classici, «business computations in pecuniary terms, such as loans, discounts, and capitalization, are without hesitation or abatement converted into terms of hedonistic utility, and conversely»37. E ancora: la moneta è concepita dagli economisti classici come un espediente tecnico, un mezzo per ovviare alle difficoltà del baratto e della doppia coincidenza di bisogni. La moneta è tutto, la moneta è niente. Così il credito, i prestiti, gli investimenti: sono dei mezzi per spostare intertemporalmente il piacere del consumo, e l’interesse non è altro che una differenza di valutazione tra beni disponibili attualmente e beni disponibili in qualsiasi istante futuro. Il capitalista non è altro che mercante di beni presenti a scopo di produzione indiretta38.
Partendo dalla considerazione della legge di Say come un’identità39, così come poi farà Keynes nella General Theory, Veblen considera innanzitutto una distinzione tra la sfera delle attività pecuniarie, “business” e quelle industriali, “industry”. Mentre le seconde sono legati alle condizioni fisiche, materiali, della produzione e della trasformazione dei beni, le prime sono essenzialmente legate alla valutazione di ciò che è prodotto. Il movente dell’uomo d’affari, ossia chi indulge nel “business”, è il guadagno pecuniario40. Ora, la sfera della valutazione, nel campo del credito, richiede capacità previsionali. Per Veblen, semplicemente, l’individuo impegnato in attività pecuniarie non ha queste abilità, e non sa distaccarsi dalla routine convenzionale, che lo porta, nelle sue valutazioni, a concentrarsi sul prolungamento del presente su un breve futuro; queste previsioni sono imperfette, frutto di congetture, data la radicale incertezza di fronte al futuro, ripresa in seguito da Frank Knight e posta da Keynes alla base della sua descrizione del comportamento degli agenti sul mercato finanziario41. Tuttavia, sono proprio gli errori di valutazione nelle aspettative di redditività futura degli investimenti e del credito, senza alcuna giustificazione nella sfera industriale, che possono portare a vere e proprie bolle creditizie. Difatti, «credit extensions tend to inflation of credit, rising prices, overstocking of markets, etc., likewise without a visible or securely traceable correlation in the state of the industrial arts or in the pleasures of consumption»42. Il credito quindi aumenta i valori capitalizzati, che inducono un’ulteriore crescita della disponibilità di credito e portano ad un’ulteriore divergenza tra i valori del capitale pecuniario, afferente alla sfera degli affari e del mercato, e del capitale industriale. Eventualmente, la capitalizzazione eccessiva dei titoli borsistici sarà riconosciuta, ci sarà un ritorno della marea, il credito sarà ritirato e si dovrà fronteggiare una liquidazione generale degli attivi. Si avrà quindi una crisi monetaria, dovuta alla liquidazione di attivi societari che sono stati sopravvalutati; si verificherà una serie di bancarotte e fallimenti creditizi; l’economia entrerà in deflazione, stato considerato da Veblen sinonimo di depressione43. La depressione è quindi il risultato di un declino nella redditività attesa del capitale impiegato rispetto al tasso d’interesse, che scatena l’ondata liquidazionista.
Insufficienza della domanda aggregata, debolezza degli investimenti, incapacità del mercato a ritornare allo stato di piena occupazione delle risorse produttive: le conseguenze della liquidazione generale sono chiare e sconfortanti in Veblen come in Keynes, così com’è chiara la loro comune diffidenza verso una mera politica di spesa improduttiva. Keynes richiamerà l’attenzione sulla necessità di rivedere l’architettura monetaria, per esempio con la proposta della Clearing Union del 1944. D’altro canto, Veblen sottolinea gli effetti sul lato dell’offerta, in particolare rilevando come, in una prospettiva dinamica, il progresso tecnologico generi costantemente una capacità produttiva eccessiva che deprime gli investimenti e la crescita, arrivando quindi allo stato di depressione più o meno cronica del mercato in epoca industriale.
Nella General Theory Keynes insiste molto sullo stato delle aspettative di breve periodo come uno dei principali determinanti del volume degli investimenti, ed evidenzia in particolare come la posizione dell’investitore professionista, coinvolto nei giochi dell’Old Maid, o del famoso Beauty Contest, non sia affatto irrazionale, ma ciò che è richiesto dalla struttura istituzionale del mercato finanziario. Questo tratto, come abbiamo visto, si ritrova anche in Veblen, quando questi rileva come sia nelle corde dell’istituzione del mercato il cercare di massimizzare la discrepanza tra la valutazione del corso azionario e la “reale” valutazione afferente alla sfera delle arti industriali. Tutti e due gli autori concordano sulla diagnosi: le crisi monetarie non sono atti d’irrazionalità economica, bensì logici prodotti di un ordine istituzionale che non può che trovare nelle crisi stesse una regola del loro funzionamento. Non concordano tuttavia sulla soluzione. L’analisi keynesiana del “feticcio della liquidità” culmina in una critica serrata al concetto di moneta e a come l’identificazione del concetto di unità di conto e mezzo di pagamento riduca un’istituzione ad una merce44. Alla conferenza di Bretton Woods Keynes proporrà l’istituzione di una Clearing Union internazionale proprio per rimediare agli squilibri delle partite correnti e permettere il pagamento dei debiti e dei crediti, agendo sulla dissimmetria tra l’unità di conto in cui queste poste sono denominate, il bancor, e il mezzo di pagamento, ossia le valute dei singoli paesi, prospettando così un sistema che poteva prescindere dai mercati finanziari per dare respiro al commercio internazionale e permettergli di crescere45. D’altro canto Veblen, affascinato da sistemi teorici che proponevano l’allocazione delle risorse come un mero processo tecnico, auspica una rivoluzione dei tecnici e un Soviet degli ingegneri che si occupasse della distribuzione delle risorse, evitando lo spreco e la duplicazione ed eliminando così, con un tratto di penna e una certa dose di naïveté, il problema della determinazione dei prezzi: la valutazione da parte degli uomini d’affari scompare46.
Conclusioni
«The question which arises is how to explain the facts away: how theoretically to neutralize them so that they will not have to appear in the theory, which can then be drawn in direct and unambiguous terms of rational hedonistic calculation»47. La teoria neoclassica fa della deviazione un’aberrazione, un errore temporaneo, un fallimento. Veblen invece fa proprio il campo lasciato libero dalla teoria neoclassica, fa proprie le domande rimaste senza risposta, cerca di spiegare come questi scopi convenzionali, queste abitudini e concrezioni di pensiero, questi fatti umani giochino un ruolo nella scelta e quindi nella dimensione economica. Nel fare dell’utilità la pietra angolare della loro teoria, l’analisi neoclassica si dimentica dei fattori istituzionali, che rivestono un ruolo fondamentale nelle moderne economie di mercato: la proprietà privata, la moneta, i mercati stessi. La teoria neoclassica è semplicemente inadatta a spiegare l’economia moderna48.
Ora come allora, l’incapacità di spiegare le crisi, le depressioni, il ruolo del credito e delle istituzioni, rende l’economica neoclassica, che ancora rappresenta l’ortodossia teorica, disarmata di fronte agli eventi. Veblen rimarca come l’adattamento dinamico delle istituzioni e degli individui sia l’explicandum della scienza economica. La sua eredità è stata raccolta in parte da Nelson e Winter nel loro Evolutionary Theory of Economic Change (1982), che muovono dalla tradizione della Carnegie School di Cyert, March e Simon, da Schumpeter e dalla sua teoria dinamica dell’innovazione tecnologica e dei cicli economici, per arrivare ad un approccio evolutivo, pienamente vebleniano e darwiniano, della teoria economica49. L’enfasi istituzionale è stata riassorbita come campo speciale dell’ortodossia, con lo studio della teoria dei contratti e dei costi di transazione confinato all’analisi di equilibrio e alla comparativa statica (come nell’opera di Ronald Coase), ma alcuni economisti istituzionali come Douglass North si sono esplicitamente concentrati sul cambiamento come cuore della loro economica.
La dinamica è vitale per spiegare i fenomeni economici: la tecnologia e l’inventiva umana, e quindi le istituzioni che ne favoriscono lo sviluppo e il progresso, non possono essere assunti come dati; la tecnologia è pienamente endogena50. Che cosa evolve? Ad evolvere, come sottolineava Veblen, è l’uomo e la comunità umana. Sono le sue idee, le sue concezioni del mondo, le sue abitudini e le sue soluzioni del problema della vita materiale. Ciò che la teoria economica ha il dovere di spiegare è questo processo cumulativo di cambiamento, di sviluppo ed adattamento di queste soluzioni istituzionali.
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1 Si veda, per esempio, la rubrica “Veblen and the Novelists” dell’introduzione di Martha Banta. The Theory of the Leisure Class: An Economic Study of Institutions, edited by Banta M., Oxford University Press, 2007, p. xxi.
2 Veblen T., [1909c], “The Limitations of Marginal Utility”, in Oxford Economic Papers, New Series, Vol. 17, No. 9, November 1909, p. 621.
3 Come nota Sowell, le due linee d’attacco sono riducibili, di fatto, alla sola critica sul carattere evolutivo della scienza economica. Sowell T., “The ‘Evolutionary’ Economics of Thorstein Veblen”, in Journal of Political Economy, Vol. 19, No. 2, July 1967, p. 178.
4 Veblen, T. [1898c],“Why is Economics not an Evolutionary Science?”, in The Quarterly Journal of Economics, Vol. 12, No. 3, July 1898, p. 375.
5 Ibid, p. 376.
6 Camic C., Hodgson G. M., “General Introduction”, in Essential Writings of Thorstein Veblen, Routledge, Londra, 2011, pp. 12-13.
7 Veblen T., [1909c], “The Limitations of Marginal Utility”, cit., pp. 625-626.
8 Camic C., Hodgson G. M., “General Introduction”, cit., pp. 15-16.
9 Veblen, T. [1898c],“Why is Economics not an Evolutionary Science?”, cit., p. 378.
10 Ibid, p. 378.
11 «In all this the agencies or forces causally at work in the economic life process are neatly avoided. The outcome of the method, at its best, is a body of logically consistent propositions concerning the normal relations of things – a system of economic taxonomy. At its worst, it is a body of maxims for the conduct of business and a polemical discussion of disputed points of policy». Ibid, p. 384.
12 Veblen T., [1909c], “The Limitations of Marginal Utility”, cit., pp. 628-629.
13 Veblen T., [1909c], “The Limitations of Marginal Utility”, cit., p. 624. È opportuno sottolineare come la dicitura “edonista” si riferisca in particolare all’utilitarismo di Jeremy Bentham e alla sua visione della scelta economica umana come un bilanciare il piacere e la pena. «The hedonistic conception of man is that of a lightning calculator of pleasures and pains who oscillates like a homogeneous globule of desire of happiness under the impulse of stimuli that shift him about the area, but leave him intact. He has neither antecedent nor consequent. He is an isolated definitive human datum […]»,Veblen, T. [1898c],“Why is Economics not an Evolutionary Science?”, cit., p. 389.
14 Veblen T., [1909c], “The Limitations of Marginal Utility”, cit., p. 626. Cfr. con Sowell T., “The ‘Evolutionary’ Economics of Thorstein Veblen”, cit. pp. 177-179.
15 Veblen T., [1909c], “The Limitations of Marginal Utility”, cit., p. 626.
16 Hodgson G. M., “Thorstein Veblen (1857-1929): ‘The Limitations of Marginal Utility’ (1909)”, in Journal of Institutional Economics, Vol. 5, No. 3, 2009, pp. 388-389.
17 Veblen T. [1898c],“Why is Economics not an Evolutionary Science?”, cit., p. 391.
18 Ibid, p. 392.
19 Veblen T., [1909c], “The Limitations of Marginal Utility”, cit., p. 626. Cfr con Hodgson G. M., “Thorstein Veblen (1857-1929): ‘The Limitations of Marginal Utility’ (1909)”, cit., pp. 386-389.
20 Veblen T., [1914], The Instict of Workmanship and the State of the Industrial Arts, Macmillan, New York, 1914, p. 2.
21 Veblen T., [1914], The Instict of Workmanship and the State of the Industrial Arts, cit., p. 4.
22 Ibid, pp. 4-6, per una discussione sul confine tra le attività che Veblen chiama tropistiche, ossia relative alla mancanza di coscienza o presenza (il senso colloquiale di attività istintuale), le attività quasi-tropistiche e quelle istintuali conscie. «Istinct is the conscious pursuit of an objective end which the instinct in question makes worth while». Cfr. con Camic C., Hodgson G. M., “General Introduction”, cit., pp. 18-19.
23 Veblen T., [1914], The Instict of Workmanship and the State of the Industrial Arts, cit., p. 7.
24 Numerosi sono gli studi sul primato della volontà nel pensiero francescano. Per una buona esposizione delle posizioni scotiane, si veda Alliney G., Giovanni Duns Scoto. Introduzione al pensiero filosofico, Edizioni di Pagina, Bari, 2012.
25 Veblen T., [1914], The Instict of Workmanship and the State of the Industrial Arts, cit., pp. 7-8. Cfr. con Camic C., Hodgson G. M., “General Introduction”, cit., pp. 19-20.
26 Ibid, pp. 14-15.
27 Ibid, p. 18.
28 Ibid, p. 20.
29 Camic C., Hodgson G. M., “General Introduction”, cit., p. 22.
30 Per una buona presentazione della scuola e del dibattito si veda Gigerenzer G., “Striking a Blow for Sanity in Theories of Rationality”, in Augier M., March J. G. (editori), Models of a Man. Essays in Memory of Herbert A. Simon, The MIT Press, Cambridge, Massachussetts, 2004.
31 Gigerenzer G., Selten R., “Rethinking rationality”, in Gigerenzer G., Selten R. (editori), Bounded Rationality: The Adaptive Toolbox, The MIT Press, Cambridge, Massachussetts, 2001.
32 Veblen T., [1899], The Theory of the Leisure Class: An Economic Study of Institutions, edited by Banta M., Oxford University Press, Oxford, 2007.
33 Ibid, pp. 60-61.
34 Veblen T., [1909c], “The Limitations of Marginal Utility”, cit., p. 629. Cfr. con Hodgson G. M., “Thorstein Veblen (1857-1929): ‘The Limitations of Marginal Utility’ (1909)”, cit., pp. 390-392, in particolare per il confronto tra la metodologia collettivista e la metodologia individualista in Veblen.
35 Veblen T., [1909c], “The Limitations of Marginal Utility”, cit., p. 630.
36 Veblen T., [1906b], “The Socialist Economics of Karl Marx and His Followers; 1. The Theories of Karl Marx”, in The Quarterly Journal of Economics, Vol. 20, No. 4, August 1906, pp. 575-595. Nonostante commetta qualche errore. Per esempio, la dialettica marxiana non è teleologica, affatto. Proprio la teleologia è il punto della logica hegeliana rifiutato da Marx ed Engels; si confronti Veblen T., [1906b], “The Socialist Economics of Karl Marx and His Followers”, cit., p. 582, con il commento di Sowell T., “The ‘Evolutionary’ Economics of Thorstein Veblen”, cit., p. 182.
37 Veblen T., [1909c], “The Limitations of Marginal Utility”, cit., p. 633.
38 Schumpeter J. A., “Eugen von Böhm Bawerk (1851-1914)”, in Dieci Grandi Economisti, UTET, Torino, 1965, p. 345. Cfr. con l’introduzione di De Vecchi al volume: Böhm Bawerk E., Clark J. B., Menger C., Schumpeter J.A., La teoria austriaca del capitale e dell’interesse. Fondamenti e discussione, edito da De Vecchi N., Bibliotheca Biographica, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma, 1983, pp. 7-12.
39 «So long as we employ “demand” and “supply” in the meaning attached to them by Mill and commonly accepted by those who are of his way of thinking, the proposition that aggregate demand equals aggregate supply is a truism. […] Aggregate supply is aggregate demand, neither more nor less» (corsivo presente nel testo originale). Veblen T., [1892b], “The Overproduction Fallacy”, in The Quarterly Journal of Economics, Vol. 6, No. 2, January 1892, pp. 484-485.
40 Veblen T., [1909c], “The Limitations of Marginal Utility”, cit., p. 634.
41 Si veda in particolare con il capitolo 12 in Keynes, J. M. [1936], The General Theory of Employment, Interest and Money, in Robinson, E. A. G. and Moggridge, D. (editori), The Collected Writings of John Maynard Keynes, Vol. 7, Macmillan, Londra. Cfr. con Wray R. L., “Veblen’s ‘Theory of Business Enterprise’ and Keynes’s Monetary Theory of Production”, in Journal of Economic Issues, Vol. 41, No. 2, June 2007, p. 618.
42 Veblen T., [1909c], “The Limitations of Marginal Utility”, cit., p. 634.
43 Sowell T., “The ‘Evolutionary’ Economics of Thorstein Veblen”, cit., p. 186. Wray R. L., “Veblen’s ‘Theory of Business Enterprise’ and Keynes’s Monetary Theory of Production”, cit., p. 619.
44 Keynes J. M. [1930], A Treatise on Money. The Pure Theory of Money, in Robinson, E. A. G. and Moggridge, D. (editori), The Collected Writings of John Maynard Keynes, Vol. 5, Macmillan, Londra, p. 11.
45 Keynes J. M. [1941], “Proposals for an international clearing union, 18 November 1941 (second draft)”, in Robinson, E. A. G. and Moggridge, D. (editori), The Collected Writings of John Maynard Keynes, vol. 25, Macmillan, Londra, pp. 42–66.
46 Sowell T., “The ‘Evolutionary’ Economics of Thorstein Veblen”, cit., pp. 188-189.
47 Veblen T., [1909c], “The Limitations of Marginal Utility”, cit., p. 635.
48 Hodgson G. M., “Thorstein Veblen (1857-1929): ‘The Limitations of Marginal Utility’ (1909)”, cit., p. 394.
49 Hodgson G. M, Stoelhorst J. W., “Introduction to the special issue on the future of institutional and evolutionary economics”, in Journal of Institutional Economics, Vol. 10, No. 4, August 2014, pp. 519-520.
50 Ibid, pp. 521-523.