ll mito dell’origine: studiare il potere tra natura e libertà – prima parte
- 10 Febbraio 2015

ll mito dell’origine: studiare il potere tra natura e libertà – prima parte

Scritto da Giacomo Marossi

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1.

Nel 1964 la primatologa Jane Goodal è in Tanzania e sta compiendo una delle sue abituali osservazioni tra gli scimpanzè del Gombe National Park. Gli animali sono in piena seduta di grooming; attività in cui si dispiegano complesse strategie di tipo gerarchico.1 Una delle scimmie di status più basso, Mike, siede isolata. D’improvviso si alza e si avvicina all’accampamento umano. Incuriositi, gli osservatori la vedono prendere in mano due taniche di benzina vuote. Perchè? Mistero. Mike comincia a sbatterle violentemente fra loro producendo un rumore assordante lanciandosi in mezzo ai suoi simili, disperdendoli e provocando reazioni stizzite. La scena si ripete per tre volte e si conclude con baci e vari gesti di sottomissione da parte del branco. Da quel momento Mike assume il ruolo di maschio alpha, sconfiggendo nei fatti il precedente “padre padrone” del gruppo: Goliath. Altre tre specie di scimmie, vale a dire babbuini, macachi e gorilla, mostrano attività gerarchiche, che si manifestano, oltre che nel grooming, nella disposizione durante cacce e spostamenti, distribuzione di cibo, frequenza della riproduzione2. Stiamo parlando di meccanismi molto complessi, per cui all’interno dei gruppi di primati, si creano vere e proprie alleanze al vertice o, al contrario, lobby di oppositori per organizzare “colpi di strato” e cambi di potere.

Il conflitto aggressivo è chiaramente protagonista di questa vita sociale gerarchica. Al centro di un acceso dibattito è se l’aggressività intraspecie sia comune agli animali o sia solo una triste caratteristica umana. Guerre territoriali sono state osservate sia tra i gruppi di babbuini che tra quelli di scimpanzè, spesso scatenate dall’accesso alle risorse o dall’intenzione di rapire gli esemplari femmina per la riproduzione. Dagli studi più recenti emerge come questa aggressività non sia da considerarsi una forza distruttiva, sede della pianta infestante del male, ma anzi una strategia sociale che permette la gestione dei conflitti tra conspecifici e il mantenersi delle relazioni sociali e gerarchiche. A favore di questa ipotesi ci sono le numerose documentazioni di tutte quelle attività di riconciliazione post-conflittuali raccolte durante le osservazioni in cattività del primatologo olandese Franz De Waal3. Si conoscono diversi gesti di riappacificazione e forte empatia tra gli ex litiganti, inoltre, ancora più interessante per noi, si osservano vere e proprie attività sociali di mediazione: femmine che spulciano un litigante per convincerlo a far la pace con il rivale; femmine che si spulciano a vicenda dopo conflitti fra due gruppi quasi a siglare un trattato di pace e, persino interventi di vera e propria “polizia” come quelli osservati, sempre da De Waal, nella colonia dello zoo di Amhem. La gerarchia funziona in modo impeccabile e si dispiega ogni volta che il gruppo si ritrova a suddividere risorse di qualsiasi genere. In quel momento è come se uno schema della piramide sociale venisse recitato di fronte ai nostri occhi, con ogni esemplare che tramite gesti e versi manifesta ai superiori sottomissione. In mancanza di questa sottomissione scattano gli scontri aggressivi, che si risolvono in breve con una mutata o confermata gerarchia a seconda dei casi.

2.

In frangenti molto diversi (ma neanche troppo) il sociologo americano James Scott chiama questa recitazione pubblica “verbale pubblico” e la definisce come “l’interazione palese tra i subordinati e chi li domina” specificando che “non è affatto detto che il verbale pubblico possa raccontare l’intera storia delle relazioni di potere”4; l’intera storia sarà ricostruibile solo grazie ad un attento lavoro di indagine, andando alla ricerca, per quel che ci è permesso, di ogni manifestazione di dissenso o di “diverso senso” relativamente alle narrazioni di potere. I discorsi che avvengono dietro le quinte dell’ufficialità e dell’interrelazione fra dominanti e dominati sono testimoniati da quelli che Scott chiama i “verbali segreti”, che possono essere individuali o collettivi, in un estensione e tipologia che varia molto a seconda della natura della dominazione in cui si inseriscono: il verbale segreto è “specifico di un certo sito sociale e di un certo gruppo di attori”. “Un secondo ed importante aspetto del verbale segreto è che esso non contiene solo attività verbali, ma un’intera gamma di attività”, cioè tutte quelle pratiche, verbali e non, che in qualche modo si distaccano dal o attaccano il verbale pubblico. “Infine è evidente che la frontiera tra il verbale pubblico e quello segreto è una zona di lotta incessante tra dominati e subordinati e non un muro invalicabile”5.

La relazione tra dominanti e subordinati è soprattutto una lotta materiale in cui entrambe le parti non fanno che testare continuamente le reciproche debolezze sfruttandone i piccoli dettagli che ne derivano.6

Secondo il filosofo francese Michel Foucault il potere è una relazione fra soggetti storicamente caratterizzati “in un campo di interazioni, in un rapporto indissociabile con forme di sapere e sempre inserito in un campo di possibilità e quindi di reversibilità”.7 In altre parole le relazioni di potere sono immanenti ai rapporti umani, “sono gli effetti immediati delle divisioni, delle ineguaglianze e dei disquilibri che vi si producono e sono reciprocamente le condizioni interne di queste differenziazioni”8. Questo potere è onnipresente perché “si produce in ogni istante, in ogni punto, o piuttosto in ogni relazione tra un punto ed un altro” all’interno di un campo che lui stesso contribuisce ad organizzare, in una lunga catena che si costruisce a doppia elica su ogni appiglio che trova: un potere che si esercita ed un relativo sapere che ne consente il dispiegamento tattico.

Mai credere che esista un sapere o un potere, o peggio ancora, il sapere o il potere operanti in quanto tali. Sapere, potere non rappresentano che una griglia analitica. (…) non si può configurare un elemento di sapere se, da un lato, non è conforme a un insieme di regole e costrizioni proprio di un certo tipo di discorso scientifico a una data epoca. (…) viceversa, nulla può funzionare come meccanismo di potere se non si afferma con procedure, strumenti, mezzi, obiettivi che possano essere convalidati in sistemi coerenti di sapere.9

Dunque la genealogia mostrerà il succedersi di differenti situazioni di equilibrio fra le forze a confronto nel campo delle relazioni di potere, interpretabili come differenti nessi di sapere e potere. Viene perciò studiata l’emersione e il graduale affermarsi della costellazione strategico-morale della governamentalità liberale partendo dalla massima di Walpole Quieta non movere e del famoso scambio di battute sul laissez faire avvenuto tra il ministro plenipotenziario Colbert e il mercante Le Gendre: “come possiamo aiutarvi?”, risposta: “lasciateci fare”. Assistiamo in altre parole al delinearsi di una costellazione di strategie, di saperi, di tecnologie applicate alla realtà del governo. Che hanno poi preso il nome di ragion di stato, liberalismo, mercato, economia politica, etc. Ma in realtà facendo “passare gli universali attraverso la griglia di queste pratiche”10 Foucault vuole rendere conto di un emersione graduale e contraddittoria di “pratiche concrete” che solo col tempo si sono aggregate razionalmente intorno a nuclei di sapere e di esistenza che hanno preso il nome di Stato: trattando lo stato non come “un mostro freddo” ma come correlato di pratiche di governo, di un certo modo di governare che si è costituito come ambito di applicazione ex post di queste pratiche.

3.

Ma facciamo ancora un passo indietro al mondo dei primati e della natura: il fatto che siano evidenti, pur nella forzatura di atteggiamenti umanizzanti scene ricollegabili al contesto intuitivo del potere ci pone serie domande sull’effettivo significato di questa parola, sul senso del suo studio, sulle sue implicazioni etiche profonde. Mi interessa qui evidenziare come, al contrario di ciò che accade in altri ambiti morali, il tema dell’origine sembri avere un’importanza grandissima. Illudersi che un atteggiamento scientifico o storico in senso stretto possano garantire la neutralità nei confronti del potere è una pia illusione. Poichè il potere non solo è attore principale della storia ma ne è anche mecenate, per così dire: il potere incamera ogni nozione scientifica sul passato e sul futuro per giustificarsi e aumentare in efficienza.

Parlando di origine attiviamo diverse catene concettuali e in qualche modo forzatamente causali. In primis la catena che ci porta dagli organismi semplici ai mammiferi, per finire con ominidi e primati. È facilmente immaginabile un evoluzione stratificata per cui, dal gene al microcomportamento, si sono verificati mutamenti graduali che hanno portato l’uomo a diventare l’animale sociale per eccellenza. Robin Dunbar, antropologo di Liverpool, ha studiato nel dettaglio l’evoluzione dei comportamenti sociali nel passaggio tra scimpanzè e uomini e ha evidenziato come l’aumentare della possibilità di intrattenere relazioni intraspecie sia andata di pari passo con l’evolversi della neocorteccia cerebrale. Nello specifico si osserva che la capacità relazionale di gruppo sia cresciuta dai tempi dell’antenato comune di un centinaio di unità: dunque uno scimpanzè gestisce fisiologicamente al massimo 55 individui, l’uomo 150-200.11 Michael Tomasello, dal canto suo, ha studiato l’emersione nella specie umana di comportamenti naturalmente altruisti, grazie ad esperimenti comparati su bambini e scimpanzè. Si nota l’insorgere di atteggiamenti altruisti verso lo sperimentatore (condividere cibo, raccogliere oggetti caduti, indicare dove una cosa è stata nascosta) in tenerissima età e sopratutto prima che la mediazione sociale e culturale intervenga a modificare questa predisposizione.12 Tomasello chiama la sua ipotesi “Spelke prima, Dweck poi”: i bambini sin dal primo anno di vita mostrano spiccati atteggiamenti collaborativi e imparano a gestirli socialmente solo successivamente, come sostiene appunto la psicologa infantile Carol S. Dweck. In realtà, come precisa la Dweck, pur non potendo negare eventuali predisposizioni neurofisiologiche, esperimenti condotti sull’empatia mostrata dai bimbi vittime di abusi a confronto con bimbi che avevano ricevuto cure familiari adeguate, mostravano evidenti disparità. In particolare, secondo Dweck “nessuno dei bambini vittima di abusi dimostrò la minima partecipazione empatica (…) è possibile che un trattamento abusante abbia la meglio sulla tendenza naturale all’altruismo, ma questi dati sembrano anche suffragare l’idea che i bambini si adeguino all’input ricevuto dal loro mondo e che dice loro come le persone reagiscono ai bisogni degli altri”13. Per De Waal, esiste la possibilità, emersa durante alcuni esperimenti sui macachi, che si tratti di abitudini sociali apprese anche per quanto concerne le scimmie. Mettendo in coabitazione forzata singoli esemplari di macachi reso (aggressivi e intolleranti) con gruppi di macachi orsini (pacifici e tendenti alla riconciliazione), De Waal mostra come i primi, cinque mesi dopo si erano adeguati al comportamento dei secondi e che, cosa non scontata, una volta ritornati coi loro conspecifici mantenevano il comportamento riconciliante. In altre parole il punto da chiarire è fino a che punto si possa retrodatare la comparsa di comportamenti sociali assimilabili alla sfera concettuale del potere e sino a che punto ad influenzarne la comparsa siano motivi fisiologici piuttosto che socioculturali.

(continua qui: Il mito dell’origine: studiare il potere tra natura e libertà – seconda parte)


1 Van Lawik-Goodal, Some aspect of aggressive behaviour in a group of free living chimpanzees, in International Social Science Journal, 1977, volume XXIII, number 1, p. 89.

2 F. H. Willhoite Jr, Primates and Political Authority: A Biobehavioral Perspective, The American Political Science Review, 1976, Vol. 70, No. 4 (dicembre), pp. 1110-1126.

3 F. De waal, F. Aureli, La risoluzione dei conflitti nei primati, Enciclopedia Treccani, 1999.

4 Scott, Il dominio e l’arte della resistenza, Eleuthera, Milano, 2006 p. 15

5 Ivi, p. 28.

6 Ivi, p. 245.

7 Foucault, Illuminismo e criticaop. cit., p. 60.

8 Foucault, La volontà di sapere. Storia della sessualità 1 (1976), Feltrinelli, Milano, 2011, p. 83.

9 Foucault, Illuminismo e critica, op. cit., p. 55

10 Foucault, Nascita della biopolitica. Corso al College de France (1978-1979), Feltrinelli, Milano, 2005, p. 15

11 Gazzaniga, Human. Quel che ci rende umani, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2009, pp. 114-115.

12 Tomasello, Altruisti nati. Perchè cooperiamo fin da piccoli, Bollati Boringhieri, Torino, 2010, p. 22.

Scritto da
Giacomo Marossi

27 anni, milanese, laureato in filosofia morale, si occupa di giovani per il PD di Milano.

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