Scritto da Rosa Fioravante
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Il primo giorno di lezione all’università Bocconi inizia all’insegna dell’efficienza: ciascuno studente ha a disposizione un’agenda online personale che tiene il calendario con orari-corsi-aule. Inizia anche con qualche settimana di anticipo rispetto alle altre università milanesi e il professore ci tiene a precisare il motivo: “abbiamo molto più lavoro degli altri da fare”; segue la classica scena da telefilm americano: “guardate il collega che avete a destra, guardate quello di sinistra, ecco: solo uno di voi arriverà alla laurea”. Poi arriva la raccomandazione di non fare troppa amicizia fra un aperitivo e l’altro, perché tanto le classi vengono rimescolate ogni anno e non conviene proprio copiare, perché oltre alle pesantissime sanzioni previste dall’honor code, vi è una considerevole controindicazione: i voti della classe sono normalizzati secondo distribuzione normale gaussiana, quindi se tutta la classe è andata male e un compito è sufficiente verrà valutato buono guadagnando un paio di punti, viceversa se si fa un lavoro discreto ma si lascia copiare gli amici essendo l’andamento di media buono allora tutti saranno giudicati discreti.
L’ossessione dell’homo homini lupus che si respira nei corridoi è in perfetta sintonia con quanto viene spiegato in aula. Le lezioni di “microeconomia” sono la riproposizione del dettato neomarginalista che prevede come proprio arsenale concettuale la figura dell’homo oeconomicus monodimensionale (cioè che ragiona solo per costi e benefici), il paniere di beni, l’ottimo paretiano ecc. il tutto è teso alla dimostrazione scientifica che la concorrenza è il sistema economico migliore per soddisfare i bisogni dell’individuo. Sono nozioni imprescindibili per lo studente di tale disciplina, ma nessuno fa menzione del fatto che esse provengano da una certa tradizione di pensiero economico, la quale a sua volta si richiama a specifiche nozioni di antropologia, alle quali possono esserne affiancate altre differenti.
Quanto al corso di “Organizzazione del personale” esso presenta oltre allo studio dei test psicoattitudinali proposti dall’ufficio selezione del personale, libri di testo che descrivono l’individuo come “Persona = f (ambiente x esperienza)”; ancora una volta viene proposta una schematizzazione utile all’esempio in classe, ma nessun cenno a possibili approcci differenti.
Infine, se si sopravvive ai ritmi serrati e alla competizione onnipervasiva si arriva alla laurea triennale: la cerimonia non prevede discussione, le tesi sono brevi e non ci si deve neanche porre il problema del colore della copertina (è preimpostata). Il più giovane laureato con 110 e lode di ogni stanza nella quale viene eseguita la proclamazione tiene il discorso di celebrazione, e gli studenti tutti agghindati in toga e tocco assistono al video-messaggio del rettore che ricorda che tutti ma proprio tutti i laureati bocconiani lavorano e tengono alto il nome dell’organizzazione che esporta eccellenze nel mondo.
E non lo fa a torto: la Bocconi sforna davvero eccellenze adatte al mercato del lavoro che abbiamo, ma nel ripetere questo mantra si omettono sempre due corollari interessanti: essendo tutti i sistemi relativi, essere eccellenza di un sistema che funziona in modo sbagliato non è necessariamente posizione di cui vantarsi; inoltre, se il mercato del lavoro assorbe individui convinti che la propria personalità derivi da una funzione algebrica e che il mondo funzioni spostando le rette della ISLM, a quel punto il mercato del lavoro potrebbe avere dei problemi di cattiva selezione.
Ma si sa, il mondo è dei vincenti, e da quando se un’università è vincente o no lo si giudica a partire da quanti “giovani talenti” questa è capace di piazzare in un ufficio, la Bocconi è il modello di brillante efficienza e meritocrazia verso cui si vorrebbe far tendere anche tutti gli altri atenei.
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Indice dell’articolo
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Pagina 3: Logiche aziendalistiche e Università